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Il problema della pedofilia nel calcio
24 feb 2017
Più di 500 vittime di abusi in Inghilterra tra gli anni '70 e gli anni '90, ma solo adesso si inizia a scoprire qualcosa.
(articolo)
7 min
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Fuori dai confini britannici si è parlato relativamente poco dei casi di pedofilia nel calcio inglese, una storia inquietante da tanti punti di vista, a partire dal fatto che si è rivelata una situazione molto più vasta di quanto non si pensasse all’inizio. Si parla, secondo le ultime stime, di più di 520 vittime, oltre 180 sospetti potenziali, quasi 250 club coinvolti.

Forse è naturale in casi così delicati, dove basta scendere poco più in profondità per ipotizzare reati terribilmente gravi, ma la scarsa attenzione avuta dal tema è indicativa anche della difficoltà con cui questa realtà è emersa, soprattutto se pensiamo che i casi si riferiscono a un arco temporale che va dalla seconda metà degli anni ’70 ai primi anni ’90.

Una difficoltà che ha anche a che fare con il dolore delle vittime, ovviamente, quel “massive, horrible burden” di cui ha parlato Andy Woodward lo scorso novembre, ai tempi delle violenze un piccolo calciatore undicenne, con un giornalista del Guardian, facendo, appunto, esplodere il caso mediatico.

La storia di Woodward è drammaticamente legata a quella di Barry Bennell, ex allenatore delle giovanili del Crewe Alexandra arrestato due volte per casi di pedofilia, l’ultima nel maggio del 2015.

Ed è un compendio di tutto ciò di cui il calcio non ama parlare.

Il calcio come controllo

Nella storia di Woodward il confine tra motivazione e violenza - di per sé già molto sottile - viene oltrepassato in maniera subdola. Tra i più profondi abusi psicologici perpetrati da Bennell, che lo ha allenato, c’è quello di aver utilizzato la sua aspirazione a diventare un calciatore professionista come una forma di ricatto.

«Ci minacciava di violenza o utilizzava il calcio per manipolare il controllo. Se lo facevo arrabbiare in qualche modo mi toglieva dalla squadra. ‘In qualsiasi momento’, mi diceva, ‘te ne andrai, sparirai e il sogno non si avvererà’».

Andy Woodward ai tempi del Bury, 1995.

La cosa più spaventosa di questa minaccia è che è incredibilmente reale, considerando la fragilissima condizione a cui il calcio contemporaneo costringe le proprie reclute più giovani. Persino dei bambini di undici anni sono terrorizzati da una forma di competizione disumana, che li mette in una condizione di impotenza rispetto a figure terze: club, allenatori, procuratori.

Il giudice di uno dei processi che ha riguardato Bennell ha dichiarato che l’ex allenatore del Crewe Alexandra sfruttava il proprio potere di «indirizzare i giovani nella giusta direzione, aiutarli con le loro carriere e con i loro desideri di diventare calciatori di successo. Erano pronti a fare praticamente qualsiasi cosa gli chiedesse».

I traumi di Woodward gli hanno causato problemi psicologici che hanno messo fine prematuramente alla sua carriera. E questo perché nel calcio argomenti come la depressione rappresentano ancora un tabù insormontabile.

Una volta, quando giocava per il Bury, ad anni di distanza dalle violenze, Woodward venne colpito in partita da un violento attacco di panico che fu costretto a coprire fingendo un infortunio al ginocchio: «Nel 2016 almeno le persone hanno una conoscenza dell’ansia e degli attacchi di panico. Allora soffrivo in silenzio: così andava il calcio al tempo ed era orrendo».

Una cappa che ha a che fare con la sensibilità dell’opinione pubblica ma anche (e forse soprattutto) con un machismo ottocentesco che continua a sopravvivere persino negli spogliatoi dei principali club del mondo: «È stato difficile perché da noi calciatori ci si aspetta che siamo virili e forti, non è vero? È tutto sfottò e battute da spogliatoio, apparentemente. Ma in realtà stavo avendo un crollo mentale».

Nel 2012 Bennell ha ammesso che tra i ragazzi che frequentavano casa sua c’era anche Gary Speed, morto suicida l’anno prima. Poco dopo gli avvocati della moglie hanno rilasciato un comunicato in cui hanno però smentito che l’ex allenatore del Galles fosse tra le sue vittime. Su questo caso, forse inventato per protagonismo, forse no, non sapremo mai la verità, come chissà su quanti altri casi ormai sepolti.

Una storia tra le tante

Quella di Woodward è una storia tra le tante. Lui stesso ha trovato la forza di rilasciare l’intervista al Guardian a 43 anni (circa trent’anni dopo le violenze, è bene ricordarlo) nella speranza che le sue parole potessero dare il coraggio alle altre vittime.

«La mia vita è stata rovinata fino all’età di 43 anni. Ma quanti altri ce ne sono ancora? Sto parlando delle centinaia di bambini che Barry Bennell sceglieva con cura da varie squadre e che adesso, da adulti, potrebbero star ancora vivendo con questa tremenda paura». Dopo la sua testimonianza altri sei ex calciatori si sono presentati alla polizia per testimoniare.

Pochi giorni dopo quest’intervista, la FA, dimostrando ancora una volta una grande reattività nei confronti degli shock sempre più frequenti, ha istituito un numero verde per le vittime in collaborazione con la National Society for the Prevention of Cruelty to Children (NSPCC).

In tre settimane il numero ha ricevuto più di 1700 chiamate.

Una situazione talmente estesa che per forza di cose ha chiamato in causa anche i club. A fine novembre il Chelsea ha ingaggiato un ufficio legale indipendente per fare chiarezza riguardo all’oscura vicenda di Eddie Heath, capo scout della squadra negli anni ’70, le cui attenzioni nei confronti dei minori erano, a quanto pare, molto conosciute nell’ambiente.

Che il Chelsea abbia aspettato l’esplosione di un caso mediatico a circa 40 anni di distanza per dissipare le ombre rende già la situazione triste. Ma a drammatizzare la situazione è stato l’ex calciatore dei “Blues”, Gary Johnson, che ha rivelato di essere stato pagato 50mila sterline dal club per non far uscire la sua storia in pubblico.

Gary Johnson con la maglia del Chelsea.

«Ciò che mi fa arrabbiare», ha dichiarato Johnson al Daily Mirror «è che sono andato da loro [dal Chelsea] a dirgli che ero stato violentato e sostanzialmente mi hanno risposto: ‘Provalo’».

Il coinvolgimento dei club è confermato anche dalla storia di Jon, nome di fantasia dato dal Guardian per proteggere un’anonima vittima di Bob Higgins, ex allenatore delle giovanili del Peterborough e del Southampton.

Jon nel 2013 ha trovato il coraggio di raccontare ciò che gli è successo al Peterborough, trovandosi però di fronte sostanzialmente ad un muro di gomma: «Ero devastato, non c’è stata nessuna scusa dal Peterborough. La società è sembrata indifferente, non preoccupata». Anche la polizia, a cui il club si rivolse poco dopo, chiuse le indagini dopo pochi mesi.

Anche la storia di Jon è riemersa con la marea dello scandalo delle ultime settimane, ed è molto simile a quella di Woodward. Jon racconta di quando, nel 1995, sarebbe voluto andare a trovare i suoi genitori durante un weekend libero da allenamenti. Higgins gli disse che se fosse tornato a casa non sarebbe mai diventato un calciatore e poi ha aggiunto: «Tua madre e tuo padre non devono preoccuparsi per te. Sarò io tuo padre». Come mettere la retorica dell’allenatore come figura paterna sotto la luce più inquietante possibile.

O ancora: «Mi diceva: ‘Sarai una star’. Io piangevo. Tutto ciò che volevo era giocare a calcio e ripagare il mutuo dei miei genitori. Ero un ragazzo molto vulnerabile. Avrei fatto qualunque cosa per diventare un calciatore professionista. Deve essersi sentito come un dio».

Lo scorso 27 novembre la FA ha istituito un’indagine indipendente per capire quanto i club fossero a conoscenza dei casi di pedofilia che avvenivano a loro interno, e quindi quanto siano effettivamente responsabili. Secondo Woodward, ad esempio: «Sarebbe dovuto essere ben noto all’interno del club che c’erano dei ragazzi che rimanevano a dormire da lui [Bennell]».

Da un certo punto di vista, queste iniziative non sono altro che pose che i club e le federazioni assumono per dimostrare all’opinione pubblica che qualcosa effettivamente si sta facendo, ma forse dovremmo interrogarci sul significato profondo di queste storie.

Se non ci dicono qualcosa di più vasto sul rapporto che i calciatori sono arrivati ad avere con la propria professione, su quanto la competizione per il successo stia penetrando fino alle radici, nel calcio giovanile, svuotando il valore pedagogico che lo sport a quell’età dovrebbe avere.

I bambini sono per definizione vulnerabili e l’ipercompetitività del calcio contemporaneo li inserisce da subito in una condizione di fragilità e solitudine che li rende dipendenti da adulti che potrebbero avere intenzioni diverse da quelle della loro crescita umana e tecnica. E se i casi emersi nell’inchiesta sono così tanti forse è proprio perché per gli adulti approfittarsene è così semplice.

«Volevo disperatamente diventare un calciatore», ha dichiarato Woodward al Guardian, ricordando la sua esperienza.

«Nonostante ciò, c’era così tanta rabbia e dolore dentro di me che in realtà è stato il calcio, il gioco che amavo, a portarmi via l’infanzia».

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