La pacchia finì quando Simone Brunelli si decise a parlare, e furono parole che suggerirono ai diretti interessati di archiviare una volta per tutte quell'epoca d'oro. L'epoca delle plusvalenze, l'esercizio del bilancio che si fa arte e coinvolge aree del cervello solitamente riservate alla poesia o alla pittura, la forma più raffinata di quella "finanza creativa" che all'inizio del secolo aveva uno dei sostenitori più accesi nel creativissimo ministro dell'Economia Giulio Tremonti.
Simone Brunelli era un portiere di neanche vent'anni che nel Milan era andato al massimo in panchina una volta, nella famosa partita di Piacenza, giocata da Ancelotti con i Primavera perché precedeva di qualche giorno la finale di Manchester 2003. Un mese dopo, in vacanza, venne a sapere dai giornali di essere stato venduto all'Inter; di ritorno a casa chiese spiegazioni e come risposta gli spedirono a casa ben tre contratti che portavano in calce una sua firma che non aveva mai messo. Era finito in un giro rossonerazzurro di carneadi finti milionari, cognomi ormai persi nelle nebbie del tempo: Deinite, Toma, Ticli, Varaldi e altri ancora. Nessuno di loro aveva mai esordito come professionista, ma in tutto erano stati valutati quasi 14 milioni di euro. Brunelli - del quale potete immaginare l'incredulità alla scoperta di valere 3 milioni - denunciò tutto nel 2006 all'Ufficio Indagini federale e fu poi ascoltato anche dai pm della Procura di Milano, che già stava investigando sul doping amministrativo delle due milanesi. Finì comme d'habitude con un nulla di fatto, ma l'episodio consigliò di mettere le briglie alla fantasia. A epitaffio di quegli anni ruggenti, le parole pronunciate il 24 giugno 2003 da Adriano Galliani, presidente di Lega e ad del Milan, dunque in lievissimo conflitto d’interessi: «Se Inter e Milan vogliono scambiarsi i giocatori, io non posso farci niente».
Le cosmesi di bilancio interessarono naturalmente anche le rispettive prime squadre. Paradigmatica la vicenda Helveg-Domoraud: passato dal Milan all'Inter nell'estate 2001, Helveg fu subito restituito al mittente in prestito biennale per la cifra simbolica di mille euro e fece in tempo a diventare campione d'Europa 2003. Domoraud vide il rossonero solo in amichevole, prima di avvitarsi in una lunga serie di prestiti. Lieto fine con i 6,1 milioni di plusvalenza a bilancio per il Milan e i 6,6 per l'Inter.
Oltre alle gabole finanziarie però, a cui comunque non erano affatto estranei tantissimi altri club italiani, in quelle estati 2001 e 2002 Inter e Milan si scambiarono alcuni giocatori anche per motivazioni squisitamente tecniche (più o meno). Furono sei in tutto, e le loro sono vicende entrate di prepotenza nel Pantheon delle leggende di mercato.
Estate 2001 - Il Quadrangolo no
Guglielminpietro-Pirlo-Brocchi-Brncic sarebbe stato un centrocampo discreto, se vogliamo un po' male assortito per il rischio di imbottigliamenti in mezzo. Anche per questo, alla fine della magra stagione 2000-2001, in cui entrambe le milanesi sono finite fuori dalla Champions e il potere del calcio italiano corre veloce sulla tratta Torino-Roma, ci si mette a tavolino. Qui si dimostrerà che le parole chiave "scambio Pirlo-Guly", "Pirlo al Milan per Brncic", eccetera, altro non sono che leggende metropolitane: la situazione, come diceva Andreotti-Servillo nel Divo di Sorrentino, «era un po' più complessa».
Christian Brocchi ha appena concluso quello che definirà in futuro «L’anno più brutto della carriera»: si è operato a due ernie del disco e prima di entrare in sala operatoria i medici del club gli hanno prospettato con tono grave la possibilità del ritiro. «Odio l'Inter perché mi ha lasciato senza proteggermi», dirà nel 2011. A 25 anni è un giocatore totalmente da reinventare: venuti meno il dribbling e lo spunto in velocità, suoi marchi di fabbrica prima dell'infortunio, si sta faticosamente reinventando come median di lotta più che di governo.
Brncic, beh, è Brncic: sorvolando sulla particolarità di un cognome con quattro consonanti consecutive (capiterà in futuro a Blaszczykowski, Szczesny e pochi altri fortunati), il suo futuro è scolpito nella frase che un troppo ottimista Galliani aveva pronunciato dopo un esaltante poker al Tradate, regolato con un perentorio 20-1 in un giovedì pomeriggio di metà luglio 2000. «Se i numeri che ha tirato fuori lui li avesse mostrati - faccio un nome - Rivaldo, chissà che titoloni a nove colonne». Poi continua «Invece li fa Brncic, che ha un grosso difetto: è costato solo due miliardi. Se uno non costa almeno settanta, la gente non ci fa caso. È stato voluto fortemente da me, se soltanto si dimostrasse da Milan sarebbe già un bel colpo». Ad ogni modo, Brncic non è Rivaldo: prelevato dal Monza e respinto con perdite dal grande calcio cui è approdato a trent'anni, del tutto irrilevante nel Vicenza di Reja retrocesso in serie B, un anno dopo è un esubero ammantato di malinconia come una canzone di Fabio Concato.
Solo per i più addicted, al minuto 1:50 il primo gol stagionale di Brncic nel suo anno di grazia 1999/2000. Notare l'imbarazzo del cronista che lo chiama “Brincic”.
Andres Guglielminpietro, per brevità chiamato Guly, era stato l'unsung hero dello scudetto milanista numero 16, quando Zaccheroni aveva scoperto questo cavallone in grado di coprirgli l'intera fascia sinistra nel suo spericolato 3-4-3, fino a segnare il gol scudetto l'ultima giornata a Perugia. Ma le due stagioni successive non sono state all'altezza, tra problemi fisici e concorrenza interna, e il sospetto che sia sostanzialmente un pacco ben infiocchettato, ma comunque un pacco, si è ormai fatto inesorabilmente strada nelle menti dei milanisti.
Andrea Pirlo, invece, è ancora un bel mistero. Perno dell'Under 21 (di cui è tuttora recordman di presenze e secondo marcatore all-time dietro Alberto Gilardino) e della Nazionale Olimpica di Sydney 2000, è stato incredibilmente scaricato dal suo mentore Tardelli approdato all'Inter: «Farebbe bene a trovarsi un'altra squadra». Dato via in prestito a Brescia, in quei pochi mesi ha fatto in tempo a entrare in una delle azioni più belle del calcio italiano del ventunesimo secolo, il gol di Roberto Baggio alla Juventus nell'aprile 2001. Nell'indifferenza generale Carletto Mazzone l'ha arretrato di qualche metro per consentirgli di convivere con l'ingrigito Baggino e sul prato del Rigamonti sono spuntate le margherite, ma una frattura al piede sinistro gli ha fatto saltare gli ultimi due mesi di stagione, e al ritorno ad Appiano Gentile è di nuovo in mezzo al guado: troppo leggero per essere un classico trequartista in un calcio sempre più esoso, troppo inaffidabile per fare il regista davanti alla difesa in una grande squadra, troppo discontinuo per giostrare in qualsiasi altro posto a centrocampo.
Per completezza giornalistica è giusto citare gli altri 9 giocatori in campo in quel momento per il Brescia oltre a Pirlo e Baggio: Pavel Srnicek, Daniele Bonera, Alessandro Calori, Marek Kozminski, Massimiliano Esposito, Antonio Filippini, Emanuele Filippini, Igli Tare, Dario Hubner.
Tutto si compie a cavallo tra giugno e luglio. L'Inter è stata affidata al muscolare Hector Cuper, che chiede alle sue squadre velocità esasperante e per il suo rigoroso 4-4-2 di Pirlo non sa che farsene. Alla febbrile ricerca di un numero 10 che possa soddisfare il diktat berlusconiano del bel giuoco con due punte più un trequartista, il Milan fa l'occhiolino a Nakata ma corteggia pesantemente Rui Costa. Nel mentre, adocchiando un'altra ghiotta plusvalenza, si cautela prendendo Pirlo per 35 miliardi di lire più Brncic, senza specificare a quanto ammonti il suo cartellino in uscita: nei bilanci resi noti l'anno dopo, accanto a quel cognome da codice fiscale figurerà la cifra di 18,6 miliardi (!).
Di fronte alla strenua resistenza della Fiorentina che vuole vendere il portoghese solo a peso d'oro, Galliani si sbilancia fino a offrirle Pirlo più 50 miliardi. Una risposta affermativa cambierebbe per sempre la storia del calcio italiano; ma la Fiorentina risponde ancora picche, e il Milan deve rassegnarsi a trattenere il suo piccolo talento bresciano dallo sguardo da cernia. Dopo giorni passati a spergiurare che mai si spenderà tanto per un solo giocatore, all'alba del 3 luglio il Milan chiude la faccenda Rui Costa per 85 miliardi, lasciando comunque la “Viola” sull'orlo del baratro. Due giorni dopo, alla presenza anche di Valeria Marini in vestaglia, l'abitazione romana di Vittorio Cecchi Gori verrà perquisita dalla polizia che scoverà nella cassaforte tracce di una polvere bianca che il Senatore si affretterà a precisare essere "solo zafferano”.
Passano intanto due settimane e le due sponde del Naviglio tornano a flirtare grazie a uno scambio per palati fini e stavolta, come scrive la Gazzetta: «Non si può parlare di plusvalenze di comodo, c'è anche una ratio tecnica». La ratio è che Cuper si è ricordato di quel poderoso esterno argentino del Milan, adocchiato già ai tempi del Gimnasia La Plata di Timoteo Griguol, santone del calcio argentino maestro di Cuper ai tempi del Ferrocarril Oeste negli anni Ottanta. Una stima immutata negli anni, tanto che nel 1999 Cuper aveva addirittura consigliato Griguol come suo successore sulla panchina del Mallorca. Cuper si fida ciecamente e ordina l'acquisto del Guglielminpietro, plaudendo allo scambio con il presunto rottame Brocchi. Le cronache riportano un trattamento da pacco postale: avvisato all'ultimo momento, addirittura pochi minuti prima dell'allenamento pomeridiano, Brocchi saluta la Pinetina alla chetichella meditando tremenda vendetta.
Su YouTube si trova proprio di tutto, anche il gol decisivo di Guly in Gimnasia La Plata-Huracan del 1996.
Nelle dieci partite di campionato dello squinternato Milan di Fatih Terim, Andrea Pirlo non è mai titolare e gioca in tutto 33 minuti. Alla undicesima il suo allenatore è Carlo Ancelotti e qualcuno è già pronto a supporre che le cose possano cambiare.
Estate 2002 - 29 Milioni per uno
Nonostante Guglielminpietro abbia giocato 23 partite e abbia dato un buon apporto soprattutto nel girone d'andata, il 5 maggio 2002 lascia l'Inter con un buco enorme, nello stomaco e nel cuore oltre che sulla fascia sinistra: il Grande Capro Espiatorio della disfatta dell'Olimpico ha il difficilmente pronunciabile nome di Vratislav Gresko, e in quei giorni è tutto un fioccare di statistiche sulla maledizione dei terzini sinistri interisti («non ce n'è uno buono dai tempi di Brehme!», che è un po' la versione nerazzurra della celebre litania romanista «nun c'avemo un portiere dai tempi de Tancredi!»). Cuper identifica la panacea di tutti i mali nella corsa elegante e sicura di Francesco Coco, reduce come tutti gli azzurri da un Mondiale conturbante che nel suo caso è stato anche con turbante.
È qui il caso di ricordare che Coco, prima di finire coinvolto in orrendi problemi al nervo sciatico e storiacce a base di yacht di lusso e Fabrizio Corona, era davvero un bel terzino. Magari non "il nuovo Maldini", ma un giocatore potente e tecnico che aveva impressionato soprattutto nell'autunno 2000, quando aveva fatto gol di testa al Camp Nou ed era stato migliore in campo all'esordio in Nazionale, a San Siro contro la Romania. Azzurro stabile fino al 2002 anche dopo il trasferimento in prestito oneroso al Barcellona, anch'egli vittima di Terim che sulla fascia gli preferisce Serginho e Maldini. Già sulle ramblas Coco cede alle avances di Oriali e si promette all'Inter con parecchi mesi d'anticipo, senza comunque calare di rendimento.
E Seedorf? Costato 40 miliardi nell'inverno 2000 e utilizzato male da Lippi prima e Tardelli poi, si stenta a riconoscere in lui il giocatore titolare in due finali di Champions vinte con due squadre diverse, l'Ajax 1995 e il Real Madrid 1998. L'integralismo tattico dell'Inter 2001-2002 ha completato il capolavoro. Dopo il derby perso contro Terim inizia l'apartheid: dal 27 ottobre al 27 gennaio gioca solo i nove minuti finali di uno scontatissimo Inter-Lecce, confinato in panchina da un allenatore testone e testardo che gli preferisce Di Biagio e Cristiano Zanetti - e anche a ragione, visto che l'Inter perde solo una partita su 11. Poi torna di moda come estemporaneo e discontinuo esterno destro di centrocampo nel rigidissimo 4-4-2 dell'hombre vertical, cui comunque leva le castagne dal fuoco con una sensazionale doppietta nella partita-scudetto contro la Juve. Ma Seedorf assiste dalla panchina alla Waterloo del 5 maggio: al momento della verità Cuper gli ha improvvisamente preferito il triste Sergio Conceiçao, affondato con tutta la ciurma.
Una volta di più, dopo essersi già scambiati Simic e Umit Davala e forse anche Kallon e Serginho (che poi non si farà), Inter e Milan ricorrono alle strette di mano. Accanto ai loro nomi sul bilancio scrivono entrambe il numero 29, seguito da nove zeri. Lì per lì, davvero, sembra che l'affare l'abbia fatto l'Inter. Il 6 giugno sulla Gazzetta si possono leggere frasi inderogabili come questa: «Difficile ipotizzare nel 4-4-2 di Ancelotti la contemporanea presenza in campo di Seedorf, Rui Costa, Shevchenko e Filippo Inzaghi». Pirlo non è neanche citato, sebbene sia stato di fatto un suo gol a Verona a spalancare al Milan le preziosissime porte del preliminare di Champions. Tra i tifosi rossoneri monta l'insoddisfazione. I pezzi pregiati del mercato sono i due difensori Nesta e Cannavaro, la cui situazione si definirà solo dopo agosto, ma sembrano destinati ad altri lidi. A fine giugno il Milan è ancora il solito accrocchio di oltre 30 giocatori, alcuni dei quali impresentabili e invendibili. Presidente del Consiglio molto attento agli umori popolari che deprecano le spese folli, Silvio Berlusconi sembra avere le mani legate. Sembra che l'unica via di mercato sia la relazione incestuosa con i cugini. «A questo punto perché non facciamo la fusione?», si chiedono gli ultrà. Il 1° luglio, primo giorno di raduno a Milanello, il fuoristrada nero di Seedorf, opportunamente coi vetri oscurati, viene preso a manate e sputi dai tifosi inferociti, al grido di "Interista, tornatene a casa". Uomo di mondo, Clarenzio si limita a scostare di qualche centimetro la montatura degli occhiali da sole, come Mastroianni ne La Dolce Vita. Esordirà ufficialmente un mese dopo, sostituendo Serginho nella campale Milan-Slovan Liberec 1-0, l'inizio di tutto. A sette minuti dall'ingresso in campo scodella in mezzo il cross che il famelico Inzaghi trasforma in gol. In dieci stagioni al Milan giocherà 432 partite. Nessuna da esterno destro di centrocampo.
Ogni tifoso milanista vorrebbe intimamente tornare a questa serata, quando la vita era più facile, e si potevano mangiare anche le fragole.
La sera del 13 maggio 2003, universalmente nota come il derby più importante e pesante della storia (per i più distratti: il ritorno della semifinale di Champions), Seedorf servì a Shevchenko l’assist dello 0-1, Pirlo assicurò la consueta qualità in mezzo e persino Brocchi entrò all’89’, essenzialmente per perdere tempo. Né Coco né Guglielminpietro né tantomeno Brncic misero piede in campo con la maglia dell’Inter, mentre tra coloro che la indossarono uno dei più sconfortanti fu Conceiçao, l’uomo per cui Cuper aveva accettato di dare via Seedorf. La Milano rossonera intonò per settimane l’ossessionante coro “non vincete mai / non vincete mai”. E per dieci lunghi anni, di scambi tra Inter e Milan nessuno volle più sentir parlare.