Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Il tennis impossibile di Federer
25 lug 2017
Il tennis contemporaneo non è lo sport che gioca Federer.
(articolo)
10 min
Dark mode
(ON)

Al terzo game della finale di Wimbledon, sul 30-15, Federer forza un po’ il servizio e commette il secondo doppio fallo della partita, il dodicesimo totale del suo torneo. Fino a quel momento Cilic lo stava facendo faticare, tirando ogni colpo al massimo delle proprie possibilità. Federer chiede l’asciugamano, si tocca il naso, prende tempo con quei piccoli gesti da monarca insofferente che abbiamo imparato a conoscere. Sembra sentire un minimo di pressione, il pubblico si lascia andare a qualche mormorio, dal suo angolo arrivano applausi di incoraggiamento.

Nello scambio dopo Cilic continua a tirare come se non avesse nulla da perdere - il suono della pallina sulla racchetta è sordo e rapido come qualcuno che preferisce la violenza alla precisione - Federer mette un back a rete e offre al croato una palla break.

Per un momento sembra che la sceneggiatura della giornata possa non corrispondere a quello che si aspettava il pubblico: una tranquilla commemorazione del più grande tennista di tutti i tempi sul palcoscenico più adatto alla sua maestà regale.

Le ultime due sfide tra Cilic e Federer erano state equilibrate e ricche di tensione: due anni fa il croato ha vinto la sua prima partita contro lo svizzero agli US Open, con un netto 6-3, 6-4, 6-4; lo scorso anno, a Wimbledon, Federer è riuscito a superare i quarti di finale ma rimontando 2 set grazie anche a un tiebreak vinto a 9. Sulla carta c’erano quindi i presupposti per immaginare una partita tesa e incerta, ma il contesto formale di una finale di Wimbledon ha un peso che le spalle di Federer immaginiamo possano reggere senza fatica.

Federer si toglie dall’impaccio grazie a due prime di servizio. Poi inizia ad aumentare il ritmo, a giocare più profondo, ad alzare la velocità sulla diagonale di rovescio. La traiettoria che nella sua carriera gli ha fatto perdere qualche torneo e che ora invece è diventata uno dei suoi punti di forza, in un lavoro su sé stesso che a quell’età può essere alimentato solo dalla volontà feroce e mostruosa di chi non vuole cedere il trono. La partita inizia a trasformarsi per Cilic in “una camera senz’aria”, l’immagine che Tommy Haas ha usato di recente per descrivere la sensazione di giocare contro Federer, che negli ultimi anni ha iniziato a manipolare i due aspetti più profondi e immateriali del tennis: lo spazio e il tempo, riducendo l’uno e l’altro, creando un contesto in cui si sta sott’acqua e lui è l’unico ad avere la bombola dell’ossigeno.

Sul 2 pari, 0-15, Cilic cerca di uscire dallo scambio con una palla corta. Federer ce l’ha sul rovescio ma cerca a tutti i costi di colpirla di dritto: risolleva la palla da terra come avesse un guantone da baseball. Cilic ci arriva e risponde con un cross strettissimo di rovescio che prende una di quelle traiettorie che sull’erba sono semplicemente mortali. Il modo in cui Federer riesce a vincere il punto fa parte dei motivi per cui non riusciamo a considerarlo semplicemente un tennista. Arriva sulla palla in leggero ritardo, senza scomporsi più di tanto, e mentre Cilic scivola e cade sull’erba goffamente, Federer, con la palla che corre all’indietro e tocca quasi terra, la risolleva con un rovescio tutto polso che somiglia a un colpo di spada sui piedi.

La palla scorre appena un filo sopra la rete, attraversando l’unico cunicolo spazio-temporale possibile, mentre Cilic la guarda da terra.

È un quindici che pesa più del normale sugli equilibri psicologici della partita: nel punto successivo Cilic allunga troppo la traiettoria del dritto e si infila in un uno 0-40 senza uscita, che si trasforma poco dopo nel break decisivo. Sono passati appena venti minuti ma la partita, per come la intendiamo, è già finita. Inizia lo spettacolo per cui la gente è lì davvero: non l’agonismo, non la competizione, non lo sport. Piuttosto: l’arte, l’estetica, l’esibizione di un uomo che usa l’altro - i suoi difetti, la sua imperfetta umanità - come riflesso della propria aura sovrannaturale. Uno spettacolo la cui sottile violenza è perdonata solo dal nostro amore per la grandezza.

Tutti rispetto a Federer sembrano inadeguati, fuori contesto, specie a Wimbledon, dove i suoi avversari hanno l’aria di contadini dell’Oklahoma invitati alla festa del Grande Gatsby.

Questa volta la dinamica è stata fin troppo evidente. Cilic si è sciolto come un prigioniero sotto tortura: Cilic che al cambio campo prova a spaccare la racchetta sulla sedia, che dopo controlla in modo un po’ patetico che la racchetta non si sia danneggiata; Cilic che si mette in risposta con un’espressione poco convinta; Cilic che guarda al suo angolo tra un punto e l’altro quasi in lacrime. Cilic, infine, che crolla, che piange con la faccia dentro l’asciugamano, consolato dal fisioterapista che doveva curargli un volgare problema di vesciche. «È stato difficile convivere con tutte le emozioni che ho provato, così come accettare il fatto di non poter dare il massimo in un match così importante per la mia carriera».

Dall’altra parte Federer ha continuato a giocare come se stesse prendendo il sole in barca a vela. Lasciando andare il braccio con assoluta naturalezza, superando ogni volta il livello di rarefazione dello sforzo, disegnando in campo forme di una bellezza pura e astratta. In sottofondo i sospiri queruli del pubblico e i suoi piccoli “c’mon”, che suonano sempre freddi ed estranei all’essere umano che li ha pronunciati.

Questo Wimbledon, per la sua linearità (nessun set perso), ha rappresentato una specie di apoteosi dell’utopia di Federer, di cui non amiamo solo i traguardi impensabili, ma il fatto che riesca a raggiungerli senza versare una goccia di sudore. Obbedendo quasi a una natura super-omistica. La negazione dello sforzo è una caratteristica importante del mito di Federer: è ciò che lo rende l’archetipo insuperabile di uno sport borghese come il tennis. L’ideale di un uomo che è riuscito a smussare e levigare il lato più sporco e oscuro di uno sport che, pur essendo un inferno solitario di tensione mentale, ha sempre voluto tendere verso l’asetticità, l’anti-agonismo. A quell’immaginario leggero e intangibile dei “gesti bianchi” a cui gli articoli su Federer rimandano con coerenza stringente.

È un inganno che per anni siamo stati disposti ad accettare, perché ci allontanava dall’evidenza che persino il tennis sia sporcato dall’ultra-agonismo dello sport contemporaneo. Perché se l’essenza del tennis non è “brutale” - per quanto la contemporaneità di tutti gli sport sia brutale - non è neanche circoscrivibile all’eleganza del gesto. Federer ci fa dimenticare l’usura, fisica e mentale, che significa il tennis di alto livello, in un certo senso è l’opposto di quanto espresso da Open, di Agassi.

Non si tratta però solo della grazia con cui gioca. A metà tra il divo hollywoodiano e l’eroe stoico, durante la sua carriera Federer si è lasciato scivolare addosso il lato emotivo dello sport con una calma davvero poco umana. Ha salutato con gioia moderata, quasi scettica, ogni vittoria; ha attraversato con serenità virile i momenti più difficili della sua carriera (tradendo a volte, ma mascherandolo bene, un fondo di risentimento). E quando si è ripreso lo scettro, in quest’ultima stagione, a 36 anni, 5 anni dopo la vittoria del suo ultimo slam, mentre in molti erano già scesi a patti col suo tramonto, lo ha fatto come se cogliesse un suo diritto naturale.

Il modo in cui è girato attorno al proprio decadimento fisico, giocando un tennis sempre più mentale, ha qualcosa di misterioso. In un’epoca in cui siamo abituati a sportivi che hanno costruito il proprio dominio su un’atletismo fuori scala, che ha la banalità delle cose troppo evidenti, le vittorie di Federer hanno un’aura ancora più spirituale.

Quando ci si riferisce a lui si usano termini che hanno a che fare con le emanazioni di un potere divino - “Il Re”, “Il Maestro” - ed è forse l’unico sportivo a cui si è stati costretti a dedicare una categoria filosofica per descriverne il talento.

Per assecondare il mito del suo misticismo, negli anni abbiamo smussato gli angoli più spigolosi della narrazione. Oggi sembrano lontani i problemi tecnici sul rovescio, la psicosi tecnico-tattica contro Nadal, quel periodo di grande fragilità psicologica quando aveva bisogno di 4 palle break per convertirne una.

Per nutrire la grandezza di questo mito siamo venuti a patti persino con la natura profonda dello sport, ovvero la sua competitività.

Del tennis amiamo le partite tese e incerte, giocate da esseri umani sull’orlo del collasso emotivo. Il dramma manifesto di certe partite che possono durare all’infinito. Per Federer, e solo per Federer, accettiamo il contrario di tutto questo: una soppressione della natura competitiva dello sport che permetta la pura esibizione individuale.

Certo, di Federer ricordiamo le vittorie più sofferte - quella contro Nadal agli Australian Open di quest’anno, quella contro Djokovic al Roland Garros del 2011, quella sempre contro Nadal a Wimbledon del 2007 - ma la gioia che proviamo nel vederlo dominare gli avversari è un sentimento peculiare, inesistente per altri giocatori di cui, anzi, mal sopportiamo la superiorità (Djokovic ha sviluppato una psicosi su questa cosa e in tanti nel circuito si lamentano, più o meno esplicitamente, di questa disparità di amore). La violenza è sublimata fino a diventare invisibile, nel tipo di dominio che esprime Federer, per questo ci sentiamo in diritto di metterlo su un piano speciale rispetto a chiunque altro venuto prima, e che verrà dopo, di lui.

Il dominio incontrastato è un’espressione più pura dell’esperienza-Federer rispetto a un incontro combattuto seguito da una vittoria epica. È un piacere strettamente legato a Federer, perché ciò che amiamo di lui ha meno a che fare con lo sport e più con l’arte. Se negli ultimi anni il pubblico del tennis è cresciuto enormemente è grazie allo standard qualitativo fissato da Nadal e Djokovic, ma anche al fatto che Federer offriva da solo un’esperienza di intrattenimento unica. Molte persone sono diventate fan del tennis con Federer: dopo il suo addio smetteranno di esserlo?

Nel frattempo, i motivi per cui qualcuno va a vedere Federer, in questo momento storico, sono diversi ma tutti accomunati da un profondo senso di gravità istituzionale o religiosa, che non ha niente a che fare con la leggerezza che dovrebbe appartenere allo sport: persone alla ricerca di qualcosa di trascendente, di un’esperienza estetica che rompa il velo di Maya della nostra realtà.

E al contempo assistere alle ultime esibizioni di un giocatore in già storicizzato come il più forte di sempre: guardare un evento con addosso la sensazione paradossale di stare dentro qualcosa che sta diventando storia in tempo reale. Il privilegio di esserne testimoni.

Da anni le persone vanno ad assistere alle partite di Federer con la sensazione che possano essere le ultime. Una condizione che va avanti ormai da almeno sei stagioni - questo pezzo di Brian Phillips sull’“autunno di Roger Federer” è del 2011 - e che prolunga la sua mistica: ogni nuova vittoria, ogni ritorno (siamo almeno a 3 nuove vite), ha i contorni di un miracolo.

Il ritiro di Federer è diventato un topos letterario, quando è interrogato lui si sforza di allontanarne lo spettro in modo preciso (“giocherò altri due anni”) o vago (“smetterò quando non riuscirò a battere un top player”), conscio che ogni nuovo successo sarà più incredibile e paradossale del precedente. Guardandolo giocare, però, è impossibile non provare dietro ogni volée e dritto in controbalzo un senso di lutto. Nella consapevolezza che forse non vedremo mai più un talento tennistico così puro e luminoso.

Il tennista che più di tutti è riuscito a incarnare la quintessenza del tennis, è al contempo quello che più di chiunque altro se ne è allontanato per farne qualcosa di diverso. Qualcosa di così grande da rischiare di mettere in discussione la prosecuzione dello sport che ha contribuito a spiritualizzare. Il tennis contemporaneo non è lo sport che gioca Federer, la sua capacità di interiorizzare la brutalità, fisica e mentale, in una forma di controllo fragile e sofisticata è un’illusione.

Dopo il suo ritiro il tennis tornerà ad essere una faccenda tra esseri umani sporchi e imperfetti. Il suo addio non somiglierà a quello di uno sportivo, ma alla morte di un un artista che si porta nella tomba la propria arte.

Per chi identifica il tennis con Roger Federer, può esistere un tennis dopo Federer?

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura