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Il tracollo del calcio egiziano
22 apr 2015
In Egitto il declino del movimento calcistico rispecchia la situazione conflittuale dell'intero paese.
(articolo)
9 min
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Il punto forse più basso della sua storia il calcio egiziano lo tocca nel novembre 2013, a Kumasi, in Ghana, nell’enorme Sport Stadium. Davanti a oltre quarantamila persone i faraoni giocano contro la squadra di casa per la qualificazione ai Mondiali in Brasile dell’anno successivo, ma la partita non ha storia. L’Egitto perde senza opporre resistenza. Il 6-1 finale è umiliante, ma lo è ancora di più l’immagine di una squadra allo sbando, disorganizzata e priva di volontà nonostante il talento di alcuni suoi uomini. Lo specchio fedele di quello che è oggi lo stato del calcio egiziano.

Al Cairo il dramma nazionale cede presto spazio al dibattito sulle ragioni che lo hanno causato. Ci si chiede come sia possibile che la Nazionale più titolata del continente, sette volte vincitrice della Coppa d'Africa, sia finita così in basso. E per capirlo non è possibile ignorare quello che è successo in Egitto, fuori dal calcio, negli ultimi anni: le rivolte della primavera araba del gennaio 2011, la caduta di Mubarak, l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani e, infine, la restaurazione guidata dai militari.

Settantaquattro

Mentre il popolo egiziano tentava inutilmente di cambiare il corso della propria storia, per poi ritrovarsi al punto di partenza, a calcio si è giocato poco o nulla. Il primo febbraio 2012 a Port Said si è disputata la partita tra Masry e Ahly, passata alla storia per i sanguinosi scontri tra i tifosi di casa e quelli arrivati dal Cairo, con la polizia che non ha mosso un dito per fermare il massacro. A detta delle famiglie delle vittime, le forze dell’ordine volevano vendicarsi della partecipazione degli stessi ultras alle rivolte di piazza di un anno prima. I morti alla fine sono stati settantaquattro, come il numero che porta oggi sulle spalle il viola Mohamed Salah, il più grande talento del calcio egiziano, proprio in ricordo di quel massacro.

Da quel momento le partite del campionato egiziano si sono giocate a porte chiuse. Gli spalti sono stati riaperti solo lo scorso gennaio, in via sperimentale, e subito richiusi un mese dopo, in seguito ai nuovi e sanguinosi scontri avvenuti al Cairo l’8 febbraio. In quell’occasione 20 persone sono rimaste uccise nella carica della polizia, mentre tentavano di forzare l’ingresso dell’Air Defence Stadium per assistere alla partita tra Zamalek ed Enppi.

Dagli oltre ventimila spettatori di media fatti da Ahly e Zamalek nell’ultima stagione pre-rivoluzione, si passa a zero. L’impatto, anche economico, è devastante, come sottolineato dalla stessa Federcalcio egiziana (Efa): lo scorso aprile i rappresentanti della Lega hanno incontrato l’allora ministro dell’Interno Mohamed Ibrahim per chiedere la riapertura degli stadi. Ma per il momento, tolta la parentesi di gennaio, i cancelli restano chiusi.

Nel frattempo, il campionato va avanti, ma a singhiozzo. Quella in corso, iniziata a settembre, è la cinquantottesima edizione dell’Egyptian Premier League, la prima regolare dopo anni, con venti squadre e un girone unico. Lo scorso anno il campionato si è disputato in una nuova formula che prevedeva due gironi, allo scopo di ridurre le occasioni di conflitto. Prima ancora, per due anni di seguito, la stagione è stata interrotta a metà, a causa di tensioni politiche e violenze varie.

Calcio e Stato

L’assetto societario dei club egiziani non aiuta a risolvere i conflitti. Almeno una metà delle squadre della massima serie sono legate più o meno direttamente all’apparato statale, all’esercito o alla polizia, e le fortune dei singoli club dipendono da quelle dell’istituzione di riferimento. La parabola più significativa è quella dell’Enppi, legata a doppio filo a quella dell’ex ministro del Petrolio Sameh Fahmy.

L’acronimo del club sta per Engineering for the Petroleum and Process Industries, che denomina uno dei più grandi gruppi del Medio Oriente nel campo degli idrocarburi, controllato totalmente dalla compagnia statale Egyptian General Petroleum Corporation. L’azienda viene fondata nel 1978, e la squadra di calcio nasce due anni più tardi. Ma l’ascesa avviene solo in tempi recenti e si deve a Fahmy, ministro dal 1999 al 2011. È lui che per primo decide di investire milioni di petroldollari nella squadra di calcio aziendale.

I risultati sono quasi immediati: alla fine del campionato 2002/03 arriva la prima storica promozione dell’Enppi in massima serie, negli anni successivi vengono ingaggiati alcuni dei più costosi giocatori della storia del calcio egiziano, come Amr Zaki e Ahmed Elmohamady, entrambi poi finiti a giocare nella vera Premier League, quella inglese. La squadra intanto arriva seconda nel campionato del 2004/05 e l’anno successivo sfiora la vittoria della Champions League africana.

Il termine dell’era Mubarak, però, segna anche la fine delle fortune del ministro Fahmy che viene processato per corruzione e condannato a 15 anni in primo grado. Con la stessa rapidità con cui era asceso ai vertici nazionali l’Enppi ritorna nell’anonimato.

L’anomalia Ahly

L’Ahly sta provando a smarcarsi da questo modello. Di gran lunga la più vincente e seguita squadra egiziana, con 50 milioni di tifosi stimati e una media di circa 23mila spettatori per partita, avrebbe sicuramente i mezzi per camminare con le proprie gambe.

Proprio in queste settimane “la squadra africana del ventesimo secolo” (definizione della Confédération Africaine de Football) sta pensando di creare una società per azioni che ne faccia il primo club indipendente, in linea con gli standard previsti dalla FIFA per i club professionistici. Il piano prevede anche la costruzione di un nuovo stadio, di un complesso sportivo e di infrastrutture varie, necessarie per attirare nuovi investitori.

Anche se non è un’operazione facile. Prima bisogna attendere che il parlamento approvi la nuova legge sullo sport (presentata lo scorso anno) il cui articolo 43 consentirebbe, appunto, alle società sportive di creare società per azioni e raccogliere capitali sul mercato azionario. Ma ancora più difficile è pensare che il nuovo regime si liberi a cuor leggero di un simbolo nazionale come l’Ahly. Tutti i presidenti egiziani, da Nasser (che fu nominato anche presidente onorario) a Mubarak, hanno tifato Ahly e attraverso il club, e il calcio in generale, hanno cercato di garantirsi la popolarità nei momenti di crisi e rafforzare l’identità nazionale.

Scontri di potere

Proprio Ahly e Zamalek, i due club più importanti d’Egitto, negli ultimi mesi si sono trasformati in un ulteriore terreno per lo scontro di potere in atto nel Paese. Il protagonista, in questo caso, è Taher Abouzaid, il primo ministro dello Sport, nominato dopo il colpo di stato contro i Fratelli Musulmani. Quello di Abouzaid non è il classico profilo da burocrate: alle spalle ha una buona carriera da calciatore sia con la maglia dell’Ahly che quella della Nazionale.

Pochi mesi dopo la sua nomina Abouzaid decide di rimuovere i membri dei consigli di amministrazione di Ahly e Zamalek, per rimpiazzarli con persone di fiducia. La scusa era quella di voler avviare una “purificazione” (tathir) dei due club, citando anche la presunta vicinanza con i Fratelli Musulmani, adesso fuori legge in Egitto.

Lo scontro più duro Abouzaid lo ha avuto con il presidente dell’Ahly di quel periodo, Hassan Hamdi. Tutto verteva sui soldi delle tv: il ministro aveva in mente di vendere collettivamente i diritti della Egyptian Premier League alla Ertu (Egyptian Radio and Television Union, la tv di Stato) per 10 milioni di dollari per un anno, mentre Hamdi aveva già un accordo individuale con i libanesi di Future Media grazie a cui il suo club avrebbe ottenuto da solo 5,8 milioni, pari al 60 per cento dell’intera torta.

Il tentativo di rimuovere Hamdi non ha avuto successo, perché le polemiche alimentate dal presidente dell’Ahly hanno spinto il premier ad interim Hazem al-Beblawi a rovesciare la decisione del ministro. Gli è andata meglio con lo Zamalek, dove è riuscito a rimuovere il presidente eletto, Mahmoud Abbas, e a preparare il campo a un suo uomo di fiducia. Il prescelto in questo caso è stato Mortada Mansour, un tipico esponente del vecchio regime, capace di superare indenne i rivolgimenti degli ultimi anni e di ritrovare poi una poltrona di prestigio come quella dello Zamalek, dove è approdato il 28 marzo 2014.

Mansour si è guadagnato sul campo un onore del genere, costruendosi nel tempo una vera fama da controrivoluzionario. «Quello che è accaduto il 25 gennaio (2011, ndr) è stata una cospirazione» e il 25 gennaio è stato «il giorno peggiore nella storia dell’Egitto», ha dichiarato più volte dal canale satellitare Al-Faraeen. Tra i suoi “meriti” c’è anche quello di avere organizzato la cosiddetta “Battaglia dei cammelli”, in cui le forze leali a Mubarak irruppero in piazza Tahrir, il 2 febbraio del 2011, attaccando i manifestanti e lasciando sul campo una decina di morti e centinaia di feriti.

Nella sua veste di presidente dello Zamalek, Mansour si fa portatore, nel calcio, della “guerra al terrore” lanciata dal nuovo presidente al-Sisi contro ogni forma di opposizione ai militari, che si tratti dei Fratelli Musulmani, di militanti di sinistra o di omosessuali.

Il nemico giurato di Mansour diventano gli ultras dello Zamalek, meglio noti come Ultras White Knights (Uwk), una delle frange più calde del tifo egiziano, oltre che uno dei gruppi protagonisti delle rivolte del 2011. Dal rovesciamento del regime Mubarak in poi, gli Uwk diventano un soggetto politico in piena regola, oltre che un ostacolo per la normalizzazione voluta dai militari.

«Non sono tifosi, ma criminali», dichiara Mansour, che tra tante denunce di millantate aggressioni riesce a ottenere la condanna e la carcerazione di diversi ultras. Non così lontano dai discorsi che si fanno in Europa.

Restaurazione e rinascita

E il calcio egiziano non poteva non risentire di questi conflitti. La Nazionale dell’Egitto, la prima tra quelle africane a partecipare a una Coppa del Mondo nel lontano 1934, è diventata il simbolo del declino. Solo cinque anni fa, alla vigilia della rivoluzione del gennaio 2011, si trovava al 9° posto del ranking mondiale della FIFA, davanti anche all’Italia. Merito di un decennio di successi internazionali coronato dalle tre Coppa d’Africa consecutive (2006, 2008 e 2010). Da allora non ha fatto che scendere posizioni fino a sprofondare al 75° posto nel marzo 2013, per poi attestarsi ora al 51.esimo posto.

L’umiliante sconfitta in Ghana di un anno e mezzo fa è solo la manifestazione più evidente di un tracollo tuttora in corso, a cui tenterà di porre un freno il nuovo ct Héctor Cúper.

Paradossalmente, la restaurazione avrebbe dovuto rappresentare la garanzia di una rinascita: restando fedeli al modello già utilizzato dai predecessori, nell’ottica dei militari la grandezza dell’Egitto non può che andare di pari passo con quello della sua Nazionale di calcio e dei suoi club. La riapertura degli stadi al pubblico, a inizio anno, e la candidatura per ospitare la Coppa d’Africa del 2017 erano stati i segnali lanciati dal regime per celebrare il prossimo ritorno del calcio egiziano ai vecchi splendori. Gli scontri del Cairo dello scorso 8 febbraio, però hanno fatto fare retromarcia alle istituzioni. E pochi giorni più tardi, anche in conseguenza della rinnovata tensione sui campi da calcio, è arrivato un ulteriore segnale di resa: l’annuncio ufficiale della rinuncia a ospitare la Coppa d’Africa.

Se ancora non fosse stato chiaro prima, adesso non ci sono più dubbi: la rinascita del calcio egiziano è ancora lontana.

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