Quando Luigi XVI si decide a convocare gli Stati generali la figura del re non è certo in discussione. Lo stesso ricevere i rappresentanti del Terzo Stato in camera da letto, ancor prima che una forma di sovrana indifferenza, era un modo per ribadire che l’ordine era immutabile e che i 174 anni passati dall’ultima convocazione non significavano nulla: il Re continuava a essere il Sole, la sfera celeste dal quale tutto partiva, la testa che dettava gli ordini al resto del corpo.
Eppure si arrivava a Parigi con ben più di qualche mugugno, primo fra tutti la permanenza del “voto per ordine” che permetteva a clero e nobiltà di mettere in minoranza il Terzo Stato. Più numeroso, quest’ultimo chiese che si passasse al “voto per testa”, trovando l’ovvia opposizione degli altri due ordini. Il re, dopo aver a lungo disprezzato queste richieste, fece una cosa curiosa: raddoppiò il numero dei deputati del Terzo Stato, lasciando invariato il voto per ordine.
Fece quello che il duca d’Orleans chiamò “concessione senza oggetto”. Di fatto non serviva a nulla raddoppiare il numero dei deputati se si continuava a votare per ordine. Ma, avvertì il duca, «stia attento, Maestà, perché questa che pure è una concessione senza oggetto rappresenta un cedimento, una crepa nella sfera liscia della Sua graziosa Maestà. E speriamo che questa crepa non sia il primo segnale di un cedimento rovinoso di un regno perfetto e inscalfibile».
Tutto questo, si parva licet, veniva in mente il 17 novembre, quando un regale Novak Djokovic si lasciava battere, senza neanche troppo dispiacersi, dal sovrano detronizzato, Roger Federer, nella seconda partita del Round Robin delle Finals di Londra. La sconfitta, per Djokovic, non significava assolutamente nulla, all’interno di un’annata prodigiosa in cui aveva mostrato ripetutamente quanto potesse essere ampio il suo divario con il resto del regno.
Poco male.
Tre Slam su quattro, e a Parigi solo uno sbalorditivo Wawrinka gli sbarrò la strada; sei Master 1000 su nove e solo perché a Madrid non è andato e nell’agosto nordamericano Murray e Federer hanno approfittato dell’unico periodo di relativo appannamento; sei sole sconfitte, tra cui quella delle Finals. Sconfitta che significava talmente poco che alla fine, quando in palio c’era il titolo, il serbo ha faticato poco per rimettere le cose a posto: sul tennis governa ancora il despota, come da quattro anni a questa parte. L’ancien régime è saldo, anche se nessun Talleyrand tennistico potrà parlare di dolcezza della vita.
Quella partita però è forse la “concessione senza oggetto”, che tende a placare gli schiamazzi del clericale Murray, dell’aristocratico Federer e dei peones come Wawrinka, Nadal, Nishikori, Berdych, e via via tutti gli altri. Può trasformarsi nella crepa del muro che condusse alla ghigliottina un re diventato un qualsiasi Luigi Capeto? In che modo il regno che Djokovic sembra poter governare a lungo potrebbe crollare?
Il vecchio che avanza
Che tipo di problemi ha avuto Djokovic nel 2015? Innanzitutto Karlovic, il primo ad averlo battuto e l’unico fuori dalla Top 5 che ha avuto questo onore. Il croato gioca sostanzialmente su due colpi: il servizio, che in genere è più che sufficiente, e il dritto, che spesso è devastante, se riesce a giocarlo da fermo. In ogni caso è uno che ti prende a pallate, impossibile pensare di trascinarlo in scambi prolungati. Poi c’è Stan Wawrinka, che ha detto lui stesso di aver giocato la partita della sua vita in finale al Roland Garros, cose che accadono una tantum insomma.
Wawrinka non è Karlovic, non gioca su due colpi ma ha una cosa in comune: la capacità di tirare un colpo definitivo, quel terribile rovescio, incrociato o lungolinea, che nelle giornate di grazia neanche Djokovic riesce ad addomesticare. Poi ci sarebbe Murray, che gli ha strappato uno dei pochi “1000” giocando un po’ come Novak, e che ha nel rovescio lungolinea un'arma per destabilizzare il serbo. Infine Roger Federer, sempre sullo stesso tema: poco tempo per pensare, scambio risolto in tre colpi e via.
Sono tutte strategie con livelli di rischio elevatissimi e nel caso di Federer poco proponibili sulla distanza Slam dei 3 su 5. Inoltre la strategia dello svizzero pare funzionare solo quando la partita è meno importante, a giudicare dallo scempio compiuto nella finale newyorkese o dal repentino calo in quella di Wimbledon, dopo aver giocato forse la partita più bella di sempre contro Murray in semifinale. E in ogni caso un motivo ci sarà se Djokovic ha vinto le ultime tre finali Slam contro lo svizzero senza dare mai l’impressione di poter perdere.
Che lo svizzero punti a un 2016 clayless, senza fare tornei sul rosso tranne Parigi, cambierà poco la sostanza. E poi Roger vorrà vincere le Olimpiadi di Rio de Janeiro, l’unico trofeo veramente importante a mancare nel suo palmarès tennistico.
Quante volte ritorna una prestazione del genere?
Allora potrebbe essere Nadal a impensierirlo? Lo spagnolo ha un solo obiettivo: quello di tornare a essere il numero 1 sulla terra battuta. Vuole “la decima”, il decimo trofeo del Roland Garros. Ma il trofeo lo vuole anche Djokovic, visto che è l’unico degli Slam che non ha vinto in carriera. I vari Ferrer, Raonic, Nishikori, Berdych non sembrano in grado di impensierire Djokovic. Da nessuna parte e con qualunque formula.
Sliding doors
C’è stato un momento nel cuore della stagione, a Wimbledon, in cui l’anno di Djokovic avrebbe potuto prendere una piega diversa. Il serbo era sotto di due set contro Kevin Anderson, uno spilungone sudafricano tutto servizio che non era mai arrivato fra i primi sedici in un major. Nole aveva fallito il Career Grand Slam tre settimane prima, quando aveva perso in finale contro Wawrinka a Parigi. Anderson, per più di un paio d’ore, gioca in maniera perfetta: i suoi turni al servizio filano lisci come l’olio e anche in risposta sorprende spesso Djokovic. È perfettamente centrato e domina il numero uno del mondo anche da fondocampo.
Novak si gira spesso verso il suo angolo, dal quale non arrivano risposte, ma solo sguardi che tradiscono un po’ di sconforto. Il dominio vacilla. Poi inizia a far notte, Djokovic vince facile un set, il terzo, e allunga la partita vincendo il quarto, che lo aveva visto sotto nel punteggio. La storia seguente è nota. Avesse fallito anche Wimbledon, non staremmo a scrivere questo articolo chiedendoci chi potrà fermare colui che ha concluso al numero 1 della classifica una delle stagioni più a senso unico degli ultimi quindici anni.
Tirare mazzate da subito e su ogni palla: questa è una buona strategia contro il numero 1 del mondo.
L’idea è che giocare a velocità di crociera, sperando nella giornata storta (magari al servizio, un colpo che gli porta molti punti diretti rispetto a qualche anno fa) non sia la strategia migliore per giocare contro Djokovic.
Quando si gioca contro un tennista più forte, più dotato, la strategia che gli allenatori consigliano è quella di portarlo a giocare fuori dalla sua comfort zone. Allungare i tempi della partita attraverso lunghi palleggi da fondocampo, prendendo rischi dopo che lo scambio si è già allungato di diversi colpi con notevole dispendio fisico—con la conseguente perdita di lucidità mentale—non è portare Djokovic fuori dalla sua comfort zone.
Fare la SABR, cioè l’attacco anticipato in risposta per venire a rete mentre l’avversario sta ancora compiendo il movimento del servizio, non è far tremare le fondamenta del tennis del serbo. Quello che mette Djokovic in difficoltà è trovare dall’altra parte della rete un avversario che non ha paura di prendere i suoi rischi per costruirsi e vincere i punti, ma che soprattutto giochi in maniera sfrontata, irrispettosa, tennisticamente parlando, contro di lui, il numero 1 del mondo. E chi meglio dei giovani può scendere in campo con quel mix di sfrontatezza e “non ho nulla da perdere” ?
La crepa
Ma chi, tra i giovani, è in grado di allargare la crepa del muro? Chi è che può provare a trattare il numero uno del mondo tirandogli addosso tutto quello che ha, in modo da minare le certezze del serbo?
Al torneo di Shanghai Novak Djokovic è riuscito a battere Bernard Tomic in due set. Chi ha visto la partita ricorda una prima frazione di gioco dominata dal talentuoso tennista australiano, uno che tecnicamente ha ben poco da invidiare a chi gli sta davanti in classifica. Tomic è sfrontato, sempre, dentro e fuori dal campo. In Cina stava attraversando un buon momento di forma e giocò contro il numero 1 del mondo prendendolo praticamente a pallate.
Ci volle la straordinaria capacità di farsi concavo o convesso a seconda dei casi (che è forse la migliore qualità di Djokovic) per far girare la partita in favore del serbo, con tanto di rimonta nel primo parziale. Tomic aveva dato tutto, aveva giocato un primo set al 120% delle sue risorse e non era riuscito a vincere. E lo aveva fatto dopo che il giorno prima, anzi: 15 ore prima, era stato in campo tre ore in una partita durissima contro Richard Gasquet. Il secondo set sarà una pura formalità. Però l’australiano aveva fatto vedere come si deve giocare contro Djokovic: affrontarlo a testa alta, e aggredirlo.
Agli US Open Novak Djokovic perse il primo set del torneo al quarto turno contro Roberto Bautista Agut, il tennista spagnolo che gioca con meno spin dai tempi delle racchette di legno. Djokovic vinse il primo set, ma poi Bautista Agut iniziò a giocare in maniera diversa, prendendo molti rischi. Per un’ora si vide un tennis perfetto, con lo spagnolo a cambiare spesso velocità dello scambio sfruttando la forza dei colpi di Djokovic, in anticipo, senza cedere metri di campo ai suoi schemi robotici.
Il numero 1 del mondo perse il secondo set, sfogandosi con la racchetta. Come nel caso di Tomic, a metà del terzo set, dopo che Djokovic aveva recuperato lo svantaggio, Bautista Agut finì la benzina. Come se ogni suo avversario per poter fare partita pari con lui, anche per periodi limitato di tempo, sia costretto ad andare oltre sé stesso, fino allo sfinimento e al suicidio, atletico e mentale.
Se però consideriamo solo il lato tecnico, il set vinto da Bautista Agut è emblematico. Lo spagnolo è indietro nel punteggio, sotto di un break. Fin lì si è limitato a rimettere la palla in campo, subendo l’iniziativa di Djokovic e concedendosi qualche rischio. Quando realizza di essere destinato a perdere anche quel parziale, inizia a giocare con i piedi più vicino alla linea di fondocampo e decide di variare la velocità di palla all’interno dello stesso scambio, cercando di ribaltarne l’inerzia.
Djokovic, in controllo fin lì, si trova improvvisamente a rincorrere la palla in zone di campo scoperte, a cercare di rimettere dall’altra parte della rete le accelerazioni in lungolinea del suo avversario, in quelle zone che lui—come tanti, ma meglio di tanti—lascia scoperte di proposito, perché tirare lì è un azzardo che infrange la prima regola del “tennis percentuale” di oggi.
Bautista Agut fa per un set quello che Federer fa per due set: non ha paura di tenere in mano le redini del gioco e si fa carico della responsabilità di costruirsi il punto, nella maniera più breve possibile.
Tomic a Shanghai: sorprendere Djokovic in lungolinea porta punti, ma non è cosa da tutti.
Kyrgios non ha mai affrontato Novak Djokovic però sembra possedere le armi, a partire dalla sfrontatezza, per dar fastidio a Nole. Al di là dell’attitudine mentale, l’australiano ha le caratteristiche per mettere in difficoltà Djokovic: dal terribile servizio alla capacità di giocarsi il punto in massimo 3-4 scambi, fino al lungolinea di rovescio, in grado di spezzare l’equilibrio di scambi prolungati. Non è impossibile che la prima volta che si incontreranno Djokovic provi a far valere più che il suo gioco la sua solidità, nella speranza che Nick possa, come fa troppo spesso, incartarsi.
E lo stesso Dimitrov, in preoccupante fase involutiva, potrebbe essere un problema per il serbo, se mai si mettesse davvero a giocare qualche metro più avanti. La semifinale di Wimbledon 2014 il bulgaro la ricorderà a lungo, perché è stato a un passo dall’arrivare in finale. Anche in questo caso Djokovic aveva mostrato di soffrire il gioco aggressivo di Grigor, e il rovescio lungolinea aveva fatto molti danni.
L’Hot Spot
Non è un caso che Djokovic soffra questo tipo di tennisti. Il tennis moderno non concede tantissimi modi diversi di vincere una partita. La via, a dire il vero, è una sola: conquistare l’Hot Spot, cioè quella zona di campo a sinistra del giocatore, vicina al vertice sinistro, quello spazio dal quale si può comandare lo scambio colpendo di diritto—e quindi gestire più comodamente le traiettorie alte generate dai top spin degli avversari—invece che col rovescio, specie se lo tiri a una mano. Se poi il rovescio lo tiri a due mani—come fa la maggior parte dei giocatori moderni—riesci a controllare meglio la palla dell’avversario anche quelle poche volte che colpisci di rovescio da quella zona di campo. Infatti, il braccio non dominante, il sinistro nel caso dei destrorsi, permette di chiudere l’esecuzione del colpo gestendo meglio la pesantezza di palla dell’avversario. Per lo stesso motivo risulta più facile colpire in lungolinea di rovescio, specie se non si ha una perfetta stabilità con i piedi in quel momento.
Conquistare quella zona di campo vuol dire, quindi, tenere in mano il pallino del gioco, mettere le mani sul timone dello scambio. Contro Djokovic, il miglior palleggiatore e tennista-difensore del mondo, lasciarsi trasportare dalla corrente del mare non può che portarti alla deriva. Se si vuole arrivare sulla spiaggia, cioè vincere, bisogna governare il mare, bisogna assumersi le proprie responsabilità e guidare la barca da bravo nocchiero senza avere paura della tempesta. Il coraggio dei giovani può aiutare.
Come finì la storia di Luigi XVI, in un fosco mattino di gennaio, è noto a tutti. Per fortuna Novak Djokovic rischia di meno. Molto o poco lo saprà lui. Noi invece sapremo presto se avrà avuto ragione il duca d’Orleans—che fu tra i firmatari della condanna di Luigi Capeto—o se la magnanimità del tiranno serbo non avrà conseguenze drastiche.