Gli ultimi trenta secondi dei quattro minuti di recupero di Ecuador-Argentina, gara finale del girone di qualificazione al Mondiale 2018, sono un concentrato di emozioni. Messi, l’autore della tripletta che ha ribaltato l’iniziale e fulmineo vantaggio degli andini (ribaltando anche il pronostico della vigilia che vedeva gli argentini con un piede già fuori dal Mondiale), appoggia una punizione a un compagno, che nella ricerca di un cross guadagna un corner. Sulla panchina, i giocatori inscenano una pañolada albiceleste, le maglie come bandiere. Messi, vicino alla bandierina del calcio d’angolo, consegna finalmente la palla all’arbitro.
È il fischio finale, la Selección è al Mondiale e il primo compagno ad abbracciare Leo è il numero 20, Leandro Paredes, che dieci minuti prima ha sostituito Di María. È una scena molto bella, che nasconde venature di dolcezza: stretti insieme, soli, percorrono una ventina di metri, verso il centro del campo, schivando gli ecuadoriani che si avvicinano per complimentarsi. A un certo punto Messi china il capo sul petto di Paredes, come a cercare un’intima protezione, o almeno un po' di conforto.
Foto di Juan Ruiz (Getty).
Ottobre è stato un mese abbastanza indimenticabile per Leandro Paredes: oltre alla qualificazione mondiale ci sono stati il passaggio della fase a gironi di Europa League con due partite d’anticipo (e un gol al Rosenborg) e la proclamazione di giocatore del mese dello Zenit. Trenta giorni di successi, macchiati soltanto dalla sconfitta con la Lokomotiv Mosca che è costata allo Zenit, momentaneamente, la testa della classifica.
«Sto molto bene qua, ma poi sicuramente arriverà il freddo e sarà qualcosa che non ci farà tanto piacere», mi dice quando ci sentiamo telefonicamente, a cavallo tra la trasferta di Trondheim e quella di Kazan. In fondo è in Russia solo da pochi mesi. L’applicazione Meteo del mio iPhone dice che in Tatarstan, mentre chiacchieriamo, la temperatura è a -1°.
Poche ore più tardi sarà già a Mosca per un’amichevole strana e importante, soprattutto per lui e gli altri argentini dello Zenit: Rigoni, Mammana e Kranevitter. Nell’Argentina che affronterà la Russia nel rinnovato stadio Luzhny, nello stesso giorno in cui se le cose fossero andate leggermente peggio avrebbe dovuto affrontare la Nuova Zelanda per il play-off, quattro dei sei giocatori under 25 convocati da Sampaoli giocano per lo Zenit San Pietroburgo. «Sarà meglio per me, che almeno non dovrò farmi 14 ore di volo», scherza Leandro.
L’infiammazione al tendine rotuleo che ha costretto Lucas Biglia a dare forfait potrebbe spalancargli le porte della titolarità. Sarebbe una perfetta congiunzione astrale se potesse essere proprio lui a indossare la cinco dell’Albiceleste, e scendere in campo in Russia nella posizione in cui, stando alle parole di Fernando Redondo, avrebbe giocato Cristo, se solo Cristo avesse giocato a pallone.
Ogni rivelazione è irreversibile
Leandro Paredes ha appena 23 anni ma nella sua carriera, dal Boca Juniors allo Zenit, è cambiato molto, diventando un giocatore per certi versi nuovo. «Sicuramente si è evoluto moltissimo il mio stile di gioco da quando ero al Boca a quando ho iniziato a giocare nel ruolo in cui gioco ora». In realtà Roberto Mancini nell’ultimo mese lo ha spesso utilizzato nella posizione di mezzala con compiti creativi, una posizione che aveva ricoperto a metà del suo percorso. Il “nuovo ruolo” a cui Leandro allude, che oggi sente suo ma in cui gioca ormai da qualche anno, è quello di playmaker basso, regista. Quello che nell’accezione più puramente argentina possiamo definire, appunto, di cinco.
«Quando l’allenatore mi ha detto per la prima volta che avrei giocato così ho avuto un po’ di paura; non pensavo potessi essere in grado di fare quello che mi chiedeva. Ma mi è bastato un po’ di tempo per adattarmi: oggi mi trovo così bene che non credo vorrei mai tornare indietro». L’allenatore ovviamente era Marco Giampaolo, ai tempi dell'Empoli, e il modo in cui Paredes confessa di essere inizialmente impaurito dal nuovo ruolo non è scontata nell’auto-narrazione dei calciatori contemporanei, sempre molto, molto, preoccupati di apparire sicuri di sé. «Giampaolo mi ha fatto crescere tantissimo come persona, prima che come calciatore. Soprattutto mi ha incoraggiato quando ho iniziato a giocare nel nuovo ruolo. Quando stai vivendo un cambiamento pensi sempre di sbagliare, di avere paura, di non essere in grado. Lui mi ha insegnato ad avere fiducia in me stesso».
Così come Michelangelo diceva che non c’è concetto, per un artista, che un marmo solo in sé non circumscriva, alla stessa maniera Giampaolo ha visto nella tecnica di Paredes, nella sua visione delle linee di passaggio, nella predisposizione alla verticalità e nel suo gioco di prima o a due tocchi, le potenzialità di un grande playmaker che ancora non sapeva di esserlo.
Ad Empoli Paredes è diventato un giocatore da 2.2 key pass per partita, sempre al centro della manovra (nella stagione di Empoli toccava in media, per ogni match, lo stesso numero di palloni di Daniele De Rossi o Borja Valero), che ha affinato la precisione nei passaggi brevi ma anche in quelli lunghi, cresciuti in maniera direttamente proporzionale all’attitudine verticale delle squadre in cui si è trovato a giocare: nello Zenit, quest’anno, ha effettuato più di 7 lanci lunghi per partita, secondo tra i giocatori di posizione soltanto a Fernando dello Spartak Mosca.
Allora la posizione naturale di Paredes è quella di enganche, dove ha iniziato a giocare, oppure quella di playmaker, in cui ha trovato la sua consacrazione? «Ora come ora non mi vedo più a giocare enganche.Mi trovo troppo a mio agio come sto giocando ora».
Mancini e la Russia
Per Paredes uscire dalla propria comfort-zone non è mai stato un problema. Ha lasciato San Justo, capoluogo del distretto La Matanza, nell’area metropolitana della Gran Buenos Aires, quando era ancora un ragazzino per aggregarsi alle giovanili del Boca Juniors. A vent’anni ha scelto l’Italia: la Roma, anche per favorirne l’ambientamento, lo ha ceduto in prestito al Chievo Verona, prima, e ancora all’Empoli, due stagioni dopo. A ventidue anni ha deciso di mettersi alla prova in Russia.
«Il tipo di gioco che ho trovato qui è molto diverso da quello che conoscevo, perché le squadre ti aspettano arroccate in difesa: è veramente diverso rispetto all’Italia, dove invece tutti cercano di attaccarti, di giocarsi la partita». Mi chiedo se per far bene fuori dall’Argentina, tanto in Russia come in Italia, trovarsi all’interno di una microcomunità di connazionali sia una condizione necessaria. «Aiuta tantissimo, ma non solo me: tutta la mia famiglia. Alla fine sono loro che passano la maggior parte del tempo da soli, noi siamo tutta la settimana in giro, ad allenarci, a viaggiare. Stare insieme, per loro, rende la vita di tutti i giorni più facile. Però aiuta anche me, indirettamente, perché per stare bene in campo devi vivere una situazione di serenità a casa: e se io vedo i miei familiari tranquilli, allora riesco a concentrarmi di più». Gli chiedo se abbia influito, nella sua scelta, il fatto che ci fossero altri argentini nello Zenit. «A essere sincero non tanto, perché sono stato io il primo ad arrivare, a fare il primo passo».
Mammana, Rigoni, Driussi e Kranevitter l’avrebbero raggiunto di lì a poco. L’arrivo dell’ex centrale di centrocampo dell’Atlético Madrid è coinciso con l’ennesimo cambio di posizione di Leandro. Da doble pivote in coppia con Erokhin o Kuzyaev, dopo l’ingresso in pianta stabile nella formazione dello Zenit di Kranevitter è tornato a giocare mezzala. In questa posizione è andato a segno, e ha fornito assist ai compagni: l’avanzamento in campo gli ha regalato la possibilità di mettere alla prova le sue incredibili doti balistiche.
Il primo gol con la maglia dello Zenit è una summa della sua estetica calcistica.
Anche se la barriera respinge il suo tiro, la palla finisce per tornargli sul destro, chiamandolo alla conclusione precisa, forte, ad effetto. Come a suggerire che non ci si deve scoraggiare, di fronte a qualcosa che non riesci a portare a compimento al primo tentativo.
«In realtà mi trovo bene in tutti ruoli del centrocampo, perché l’importante è trovare la giusta posizione, giocare e fare bene». Per aiutarlo a districarsi nella comprensione del suo posto al centro della mediana Mancini gli fa recapitare spesso (è successo anche contro il Rosenborg, e con il Rubin Kazan) dei papelitos, dei foglietti consegnati durante una sostituzione in corsa. «Mancini è un allenatore che lavora moltissimo sulla tattica, oltre che sugli altri aspetti. È più che altro uno con la cultura del lavoro, a cui piace lavorare. È vero, ogni volta che entra un compagno mi invia disposizioni per aiutare la squadra». «Ma non c’è scritto niente di particolare: giusto la posizione che mi indica di occupare in campo».
El Heredero
Paredes ha vissuto l’insegnamento di Giampaolo a giocare la palla velocemente come una rivelazione, soprattutto perché in Argentina era cresciuto tenendola troppo tra i piedi, almeno rispetto agli standard europei: «Giampaolo mi ha aperto gli occhi: al Boca mi piaceva tenere la palla incollata ai piedi a lungo, per tanto tempo, e lui mi ha spiegato che quando giochi da play-basso non te lo puoi permettere, devi giocare più a uno o a due tocchi. Non lo dimenticherò mai, e anche adesso cerco di giocare sempre come mi ha insegnato lui».
In quanto a possesso prolungato del pallone e rallentamento dei ritmi di gioco, Leandro Paredes ha avuto un’educazione sentimentale privilegiata. È cresciuto con il mito di un calciatore che rappresenta l’archetipo di questo tipo di visione del calcio, Juan Román Riquelme, del quale è stato compagno di squadra al Boca Juniors - oltre che suo erede per diretta proclamazione del “Mudo”. Quando nel 2012 Riquelme decise di lasciare il Boca lasciò in eredità a Paredes una Diez particolarmente pesante.
«È stato qualcosa di molto speciale per me: era il mio idolo e sentirgli dire quelle parole è stato davvero un sogno. L’ho ringraziato, ovviamente, non solo per quello ma anche per quanto ha fatto nel mio processo di inserimento. Da quando ho iniziato ad allenarmi con la prima squadra mi ha sempre fatto sentire a mio agio, all’altezza». Ma non ci si sente schiacciare come sotto un macigno, quando il giocatore più importante nella storia del tuo club ti lascia a galleggiare in questo mare magnum di aspettative? «In realtà la stagione successiva è stata la mia migliore: ho giocato quasi tutte le partite, molto bene, poi mi sono infortunato gravemente (una frattura che l’ha tenuto fuori dal campo per tre mesi; nel frattempo Riquelme era tornato e Leandro gli aveva riconsegnato la maglia numero Dieci, NdA). E al mio rientro ho deciso di andare via».
Quando deve parlare dell’influenza che ha avuto Riquelme sul suo stile di gioco dà una risposta ricca e priva di retorica: «Mi ha insegnato a leggere il gioco, perché lui aveva una maniera perfetta di vedere il gioco. Spesso mi hanno mosso le stesse accuse che muovevano a lui: mi dicevano che fossi lagunero, uno che si eclissava troppo spesso dalla manovra e che amava troppo tenere la palla tra i piedi. Ma Riquelme mi diceva: “Se te la passo ora e tu la perdi, poi dobbiamo tornare tutti di corsa indietro; allora è meglio che la tengo io, così faccio respirare la squadra”. Era molto intelligente, in questo».
Il gusto calcistico di Paredes
Tracciare l’influenza di alcuni dei più importanti “diez” del calcio argentino sul calcio di Paredes è una maniera come un’altra per ricostruire una mappa del suo rapporto con il calcio, ma anche con le personalità che la sua carriera gli ha permesso di affiancare. Gli propongo di fare un gioco: dirmi come l’hanno ispirato, o se gli hanno suscitato sentimenti contrastanti, giocatori come Borghi, Bochini, Messi o Maradona.
«Ora che ho la possibilità e la fortuna di giocare con Messi dico che cercherò di imparare quanto più posso da lui, perché secondo me sto giocando con il miglior giocatore della storia del calcio. Uno che vorrei avere sempre in squadra con me: è l’avversario che mi ha messo più in difficoltà in assoluto», dice Leandro, anche se Messi da avversario - se si escludono gli allenamenti - l’ha affrontato una volta sola, per venti minuti scarsi, nel Trofeo Gamper del 2015.
«Borghi invece l’ho visto poco giocare, ma è stato lui che mi ha fatto esordire in prima squadra, al Boca. Mi ha fatto crescere molto: mi ha chiamato a 15 anni, facendomi sentire tranquillo, a mio agio. Poi mi ha detto, dopo qualche allenamento: devi tornare a scuola, perché io avevo mollato completamente gli studi. Non l’ho vissuta come una bocciatura, sapevo che lo stava dicendo per il mio bene.».
Nell’ideale Pantheon di Leandro c’è posto anche per un altro numero dieci. L’esatto opposto, forse l’antitesi, dell’idea di calcio profetizzata da Riquelme: Francesco Totti. «È stato uno dei più forti a giocare di prima: vedevo lui e pensavo fosse davvero uno dei più forti in assoluto. Non c’è un perché preciso: le ragioni sono tutte nella carriera che ha avuto, nella sua traiettoria. Lo capisci solo guardandola tutta insieme perché è così mitico. E poi fuori dal campo è una persona straordinaria, che ti aiuta sotto ogni punto di vista. Gli auguro davvero il meglio per la sua nuova carriera da dirigente».
Nel novero delle figure mitiche per l’immaginario di Leandro Paredes, molte figure non sono per nulla scontate. Ci sono Kobe Bryant, certo; Roger Federer e Michael Jordan, «atleti che ho sempre ammirato, perché sono mostri sacri, leggende che non puoi non ammirare». Ma poi ci sono calciatori, soprattutto, nella cui venerazione si possono vedere i cardini della sua estetica e del suo gusto calcistico.
Abbiamo fatto lo stesso gioco dei “diez” applicato ai “cinco”, il punto evolutivo del suo stile di gioco. Gago, Mascherano, Giunta, Verón e Redondo. «Gago ho avuto la fortuna di giocarci insieme, lo adoro per come gioca sempre avanti, e di prima. Verón anche, con in più una facilità di calcio che gli invidio. Mascherano è uno che gioca in maniera un po’ diversa da me, complementare: bravissimo a rubare palla, sempre sul pezzo. Ma il massimo era veramente Redondo: il play-maker perfetto, che faceva giocare la squadra, sapeva dribblare… Un giocatore perfetto. Mi ispiro tantissimo a lui».
Gli chiedo se secondo lui Redondo, nel calcio di oggi, così intenso e rapido, avrebbe potuto dire la sua. «Non solo sarebbe stato il migliore nel suo ruolo: sarebbe stato uno dei migliori al mondo. È l’ideale del centrocampista moderno». «Come Modrić», aggiunge. «E sai anche chi metto, nel mio Pantheon? Daniele De Rossi». Paredes ne fa soprattutto una questione di mentalità: «Daniele è uno che mi ha insegnato che non si deve mollare mai. Che ci si deve allenare ogni giorno a cento all’ora».
Roma
Nell’italiano di Paredes non è difficile sentire l’inflessione romana, che a tratti sovrasta persino l’accento argentino. «Oggi mi trovo benissimo qua, però mi piacerebbe un giorno tornare a Roma. Ho vissuto tre anni fantastici: la gente, la città, tutto. Mi piacerebbe davvero, un giorno, tornare».
«Quando mi hanno detto dell’interessamento dei giallorossi sapevo che era solo l’inizio: non ti accontenti mai di quello che senti dire, sai che se vuoi prenderti quelle cose, allora devi dimostrare tantissimo». A Roma lo ha fortemente voluto Walter Sabatini, «uno che rispetto tantissimo perché è un grande professionista e non mi dispiacerebbe tornare a lavorare con lui, un giorno».
Anche se poi, a Roma, l’idillio è durato poco, sicuramente meno di quanto i tifosi - specie sull’onda della strepitosa annata empolese - avrebbero sperato. Impiegato pochissimo da Garcia nella prima anonima stagione, di più da Spalletti: «Mi sono sempre trovato benissimo con lui: però poi ha firmato per l’Inter, e ho capito che anche io sarei dovuto andare via perché il nuovo allenatore non mi avrebbe dato la continuità e la fiducia di Spalletti». Questo, nonostante a Roma si sia invece spesso detto che il giocatore non piacesse al tecnico. In realtà Paredes aveva le caratteristiche perfette per il play basso che Spalletti ha descritto con le sue parole uno che “sa far giocare la palla a tutta la squadra”. «Il problema è che eravamo in tre, e quei due che stavano al mio fianco (De Rossi e Strootman, NdA) stavano giocando benissimo. Era dura togliere uno di loro».
Il sogno dei Mondiali
Per partecipare al bel gioco che Sampaoli vorrebbe instillare alla Selección in vista del Mondiale prossimo, Leandro Paredes dovrà dimostrarsi all’altezza delle aspettative e continuare il percorso costellato di ottime prestazioni che ha inaugurato in questi mesi in Russia. Quando parla di Sampaoli smentisce il luogo comune di un uomo ossessionato dalla tattica: «Non è fissato con la tattica. A Sampaoli piace solo moltissimo giocare, e che venga giocato un bel calcio».
Il tecnico lo ha inserito da subito tra i convocati, facendolo esordire contro Singapore - gara nella quale Paredes, a due settimane dal suo compleanno, avrebbe anche segnato il primo gol con l’Albiceleste.
[SELECCIÓN MAYOR] Con clase y precisión, @LParedss abrió el pie y definió para el cuarto gol argentino ante #Singapur. pic.twitter.com/VX5LZcpNh9
— Selección Argentina (@Argentina) 13 giugno 2017
«Una giornata indimenticabile, perché uno sogna tutta una vita di giocare in Nazionale. Riuscirci lo stesso giorno in cui fai anche gol è stato un sogno». Da quella partita non è più sceso in campo, se non negli ultimi sei minuti (più il recupero) dell’ultima gara, contro l’Ecuador, nella quale l’Argentina ha strappato un biglietto fin troppo sudato per la Russia. In mezzo c’è stato il primo match-ball fallito, contro il Perù, alla Bombonera: una partita intrisa di epica e mistica, nella quale hanno giocato sia il “Pipa” Benedetto che Gago, poi infortunatosi, da “padroni di casa”.
Gli chiedo se non gli è dispiaciuto almeno un po’ non partecipare a quella mistica. Chissà se sarebbe stato emotivamente pronto. «Un po’ mi è dispiaciuto non scendere in campo; avevo tanta voglia di tornare a giocare in quello stadio, dopo tanti anni. Però è andata così».
Di certo poteva andare decisamente peggio: l’Argentina è stata davvero vicina se non proprio all’eliminazione, almeno a una complicazione imprevista del percorso. «Ma sinceramente non abbiamo mai pensato all’eliminazione come a una possibilità reale. Eravamo consapevoli che c’era il rischio, ma se avessimo creduto in noi, nella squadra, in tutto quello che succedeva al suo interno, sicuramente ce l’avremmo fatta».
L’Argentina, in Russia, ci sarà. A giugno, chiaramente, ma anche già sabato 11 novembre. Messi e Mascherano sono arrivati a Mosca qualche giorno prima della partita. Ad accoglierli c’era un imponente servizio d’ordine, guardie del corpo e teste di cuoio. Negli ultimi tempi sono girate, sul web, raccapriccianti immagini di Messi con la divisa arancione dei prigionieri del Daesh, che ha minacciato operazioni terroristiche durante la kermesse dell’anno prossimo. Mi chiedo come viva un calciatore un’ingerenza così grande. «Sicuramente fanno un bel po’ paura le cose che si leggono sui giornali, sui siti. Non lo so cosa può succedere, cosa succederà. Noi cerchiamo di stare tranquilli, e poi speriamo non succeda nulla. In realtà non influisce sul nostro rendimento in campo».
Prima del Mondiale, sulla strada per conquistarsi una maglia, nel primo semestre del 2018 Leandro Paredes dovrà lottare su più fronti: c’è una Pre’mer-Liga da conquistare, e l’Europa League. In ballo c’è l’Albiceleste, ma anche il futuro. Paredes però non ci pensa: è focalizzato sul momento di relativa grazia che sta vivendo, e se gli chiedo di gettare l’occhio oltre la staccionata vede solo una linea, all’orizzonte.
«Vorrei tornare a giocare in Argentina, un giorno. Ma non quando non ce la faccio più: voglio tornare al massimo quando avrò trent’anni, ancora competitivo». Per un giocatore come lui, che ha lasciato Buenos Aires molto presto, e che ha ancora ventitré anni, sembra una prospettiva lontanissima nel tempo. Ma sono sicuro che a Brandsen 805 avranno la costanza e la pazienza di attenderlo. Ogni erede, prima o poi, torna a reclamare il suo trono.