Simone Alessio, calabrese ma nato a Livorno, ha vinto il bronzo nel taekwondo nella categoria -80 kg ai Giochi Olimpici di Parigi 2024. Quando lo intervisto le parole che ricorrono di più sono due: rabbia e arroganza. Due parole che a volte, sul tatami, sembrano descriverlo.
A Parigi, Alessio è arrivato con un obiettivo ben chiaro, cancellare la mancata medaglia di Tokyo e salire sul gradino più alto del podio. Alla fine si è dovuto accontentare del bronzo ma questo risultato è riuscito comunque a dargli equilibrio, cancellando un po’ di quella rabbia ma non del tutto l’arroganza, solo sportiva, precisa.
Da Tokyo a Parigi, che percorso è stato?
È stato un viaggio lungo e nel mezzo ci sono state tante emozioni e una grande crescita. La cosa che più porto dietro è la maturazione, sia a livello sportivo che umano. Questo percorso mi ha portato, nel 2022, a essere il numero uno del ranking e a cancellare la delusione di Tokyo. Nel 2022 ho vinto l'Europeo, il Grand Prix a Roma davanti alla mia famiglia che era venuta a vedermi. È stato un anno rabbioso che però mi ha dato tanto. L'avvicinamento a Parigi è stato tumultuoso, perché nel mezzo ci sono stati dei periodi in cui non vedevo neanche un po' di luce: volevo la medaglia ma a fine 2022 avevo perso il Mondiale e alla fine del 2023 ci sono state varie gare che mi hanno portato al limite. La cosa più bella che mi è rimasta è quella di essere riuscito a superare tutti i momenti difficili e di aver portato una medaglia a casa.
Il dopo Tokyo non è stato facile, con tanto di depressione.
Dopo Tokyo sono state indispensabili le persone vicino a me e come hanno percepito quella sconfitta. Sono tornato dal Giappone e Vito [Dell’Aquila, nda] aveva vinto e tutti quanti avevano un pensiero per me, mi dicevano: non ti preoccupare, non ne sei uscito da sconfitto, ma ne sei uscito bene, da atleta con un grande futuro che si riprenderà, non come quello che ha perso. Questo mi ha dato tanta motivazione. Il rosicare, come lo chiamo io, è durato fino alla prima gara in cui ho vinto. La vittoria ti permette di vedere le cose in maniera diversa, ho un rapporto particolare con la vittoria, mi calmo.
Quando ho ripreso a vincere ho rivisto la luce. Poi sì, c’è stata la depressione a fine 2022: non riuscivo a capire che tutto quello che avevo fatto potevo farlo ancora. Ci sono stati vari pensieri e uno tra tutti era: e se non riesco a ottenere quello che voglio, anche facendo tutto bene, come faccio? Questa cosa mi tormentava, tanto che le persone intorno mi dicevano ti stai fasciando la testa su un'altra delusione, non su qualcosa di positivo.
Ho avuto queste sensazioni fino al Mondiale 2023 che poi ho vinto. Da lì ho capito, non per la vittoria in sé, ma perché sono riuscito a superare quel periodo, di poter essere pronto o perlomeno di voler arrivare a fare una preparazione olimpica serena con la determinazione di voler superare qualsiasi ostacolo. Il tutto sta in questo: sono uno che quando ha qualche problema, immediatamente, risponde con rabbia, ma non sempre è la soluzione. Quando il percorso è lungo la rabbia non ti porta a vedere bene le cose. Dopo il Mondiale ho capito di essere pronto a superare tutti gli ostacoli che sarebbero arrivati.
Ai Giochi Olimpici di Parigi hai quasi rischiato che l'epilogo fosse simile, poi, fortunatamente è andata bene, cosa è scattato in te? La rabbia agonistica è venuta fuori?
Sì, è emersa tantissimo perché ho vissuto le stesse identiche sensazioni, le stesse emozioni di Tokyo, anzi forse pure un po' più accentuate. Ero reduce da un percorso atletico e di preparazione di cui ero soddisfatto: quando sono uscito ai quarti mi sono detto che non potevo recriminarmi nulla, non trovavo una risposta, pensavo di aver fatto tutto bene. La penso ancora tuttora in questo modo. Quando sono stato ripescato, ho avuto la rabbia di dire basta, non volevo concentrarmi solo su quello che avevo sbagliato. Ho pensato a combattere: quella è stata la parte che mi ha aiutato di più, come la frase che mi ha detto il mio maestro. Mi ha detto che questa seconda possibilità, evidentemente, me l’ero meritata per tutto il lavoro fatto. Quella frase mi ha fatto risvegliare: prima di entrare a combattere per il ripescaggio ero frastornato dai pensieri, dalla delusione, non riuscivo neanche a esprimermi o a parlare, la sua frase mi ha aiutato.
Tu hai sempre detto che l’obiettivo era l'oro olimpico, quindi come hai vissuto questo bronzo?
Devo dire la verità, per tutto quello che c'è stato, per quello che ho vissuto quel giorno… la delusione, il fatto di poter tornare a casa di nuovo senza medaglia, l'avere parenti che mi sono venuti a vedere e il pensiero di averli, non delusi ma come dire... Io volevo renderli felici, per questo ho vissuto il bronzo in maniera completamente diversa da quello che mi sarei aspettato.
Il bronzo è comunque una sconfitta, perché hai perso un incontro, ma per me è stata una grande vittoria, alla fine quello che volevo ottenere l'ho ottenuto, cioè una medaglia olimpica. L’ho fatto davanti ai miei genitori, ai miei parenti, alla mia fidanzata. La corsa all'oro non è svanita del tutto, perché sono ancora qui a ricercarlo, però è passato in secondo piano. È stata una vittoria che mi ha permesso di soddisfare tante pretese, come essere contento e vedere le persone felici per quello che avevo raggiunto, completando un percorso tanto faticoso.
Hai rivisto il concetto di vittoria come forma di ossessione? La medaglia ha ristabilito un equilibrio?
Sì, assolutamente sì, sono diretto: non ho vissuto per tanto tempo, mi sono precluso tutte le cose che fanno parte della vita perché avevo l'obiettivo di voler vincere, voler arrivare nel miglior modo possibile alle Olimpiadi. La medaglia è un risveglio dall'essermi precluso tutto, spesso preferivo stare tranquillo e buono in stanza invece di andare a fare una passeggiata, per esempio.
L'ossessione sì, c'è stata. Non so dire se sia stata brutta o meno perché, in quella fase della mia vita, mi serviva essere ossessivo. Mi serviva essere determinato, non mi è pesato il fatto di non aver vissuto, però ovviamente è pesato in generale. Quando ti “risvegli”, ti rendi conto delle cose che non hai fatto, che hai perso. Sono una persona molto viziosa, quindi se mi viene il “prurito”, perché in calabrese si dice così, di voler andare per esempio ai Go-kart, faccio di tutto per farlo. All'inizio, quando ho deciso che la mia mente si sarebbe focalizzata solo su una cosa è stato un po' più complicato mettere in ordine tutto. Poi, quando, di settimana in settimana, è diventata una abitudine, questa impostazione si è trasformata in quiete. Quando ho concluso le gare, ho detto: dopo le Olimpiadi mi faccio una vacanza rilassata. Ecco, penso di non essermi rilassato un secondo. Ho fatto di tutto e di più per recuperare quanto avevo “perso”, e che sul momento non avevo concepito come una rinuncia.
Prima dicevi che la vittoria ti calma, che intendi? E cosa è per te la sconfitta?
Parto dalla sconfitta. Mi dà quel senso di non aver completato l'opera, la sconfitta e la vittoria partono da un percorso di lavoro. La sconfitta mi dà un senso di incompiutezza. Sono una persona che non sa perdere, nemmeno alla Playstation. Perdere mi fa scoppiare di rabbia e mi fa tornare il giorno dopo in palestra ad allenarmi per finire quanto non concluso. Invece, la vittoria mi completa, è la consapevolezza di essere riuscito a finire quello che dovevo fare: riesco a essere più lucido a differenza della sconfitta. Lì non vedo le cose belle che ho fatto, magari ho vinto quattro incontri e ho perso un incontro solo, per me quel KO rappresenta tutta una gara. Non vedo tutte le cose belle che ho fatto prima. Il giorno dopo entro in palestra e ripenso solo a quell'incontro. La vittoria mi permette di creare un mare calmo in cui posso osservare tutto ciò che è stato fatto, giusto o sbagliato che sia. La vittoria mi calma.
Se ti dico Los Angeles 2028 a che pensi? Ci sarà il cambio di categoria?
Ho ripreso con molta calma gli allenamenti e non sappiamo bene, per il momento, come impostare il percorso, perché il peso corporeo sale. Inizio a crescere fisicamente diversamente da quanto prima accadeva. Il mio corpo era preimpostato per -80 kg, anche se arrivavo a 90 kg sapevo che dovevo scendere a 80 kg.
A oggi, il periodo di pausa, la fatica che c'è stata, tutta una pesantezza generale, mi porta a dire di stare calmo, adesso non ho voglia neanche di pensare a questo progetto. Sono arrogante, quindi sono sicuro di sapere perfettamente cosa voglio fare in futuro, anche se ora non ci penso, però un pensiero ce l'ho. Credo di cambiare la categoria perché arrivare a 28 anni in 80 kg quando già ne soffro a 24 diventa molto difficile e penso di non poter riuscire a mantenere questo peso.
In ogni caso, se penso a Los Angeles, attualmente, penso solo a tutto quello che c'è stato di bello a Parigi. Tutte le cose belle, anche se c'è stata tanta fatica. Per ora va così: molto probabilmente sarà la mia ultima Olimpiade. Spero che sia un bel finale e dico che comunque vada sarà bello perché sono molto contento di tutto il percorso.
Hai utilizzato il termine arroganza. Tu sei molto sicuro di te, ma come hai costruito questa consapevolezza nei tuoi mezzi? Pensi che ogni tanto questo possa essere un limite?
Ci è voluto tanto, perché l'arroganza mi porta a pensare di avere sempre ragione su tutto, di avere la risposta giusta e le azioni giuste da fare. Tutto nasce dalla fortuna di aver avuto intorno delle persone che, in primo luogo, mi hanno capito e non hanno cercato di cambiare quello che sono e che poi mi hanno saputo indirizzare, dal mio maestro, fino al mio preparatore.
Non ho mai amato faticare, ma adesso ho capito con il tempo che la fatica è la cosa che serve. L'arroganza del dire: io non fatico perché tanto vinco lo stesso, si è trasformata in: voglio faticare perché voglio vincere. La mia mente, in questo momento, è molto chiusa sull'essere atleta. Sono arrogante sul tatami per il resto sono molto umile, ma non in palestra. Le persone vicine a me, mi conoscono e mi hanno fatto capire che possono esserci altre strade rispetto a quelle che ho in mente. Ho capito così che non ho sempre ragione.
Non so se possa essere un contro. La frase che più mi ha fatto mettere questa arroganza davanti a tutto è quando, dopo aver vinto il Mondiale del 2019, dissero che ero solo un fuoco di paglia. Quella frase mi ha spinto a dire: no, ora vi faccio vedere. Il limite arriva nel momento in cui penso di sapere, su questo ho cambiato il mio pensiero. Spesso, mi è capitato di dire: no, è come dico io e basta. E forse diventa un limite nel momento in cui sbaglio. Ho l'intelligenza di non dire nulla quando sono consapevole di non sapere, se dico qualcosa è perché c’è una base alle spalle. Magari ho letto qualcosa, ho verificato una determinata circostanza. Spesso ci si sente forti e grandi quando si ha tutto alla propria portata, le cose cambiano quando hai davanti a te un contesto come le Olimpiadi o un Mondiale. Lì, ti senti piccolo e cerchi aiuto: questo mi è servito.
È in virtù di questa arroganza che ti chiami Prince su Instagram?
Sì, quando ero piccolo facevo il principino, facevo il "so tutto io". Sono il più bello, sono quello più forte, sono il principe e quindi nasce da quell'idea di essere sopra a tutti. Poi adesso l’ho lasciato più per gioco. Mi piace avere quella piccola aura regale, è una cavolata che mi piace mantenere.
Qual è il primo ricordo legato al Taekwondo?
Mio padre che, vedendomi tirare calci ed essere iperattivo, mi disse: vieni, ora ti faccio vedere dove tiri i calci. Ero molto irrequieto e i miei genitori non ne potevano più. Mi portarono in palestra e il primo ricordo è questa scalinata lunga verso la palestra che era sottoterra. Mi sono affacciato e vedevo tutte quelle persone che si allenavano, che tiravano calci, che si muovevano e che erano più grandi di me. Ero grande fisicamente, ma mi ricordo di essere stato molto piccolo mentalmente, ero anche un po' insicuro. Mi intrigava entrare in un mondo che non conoscevo. Poi ricordo anche il primo allenamento, da arrogante, mi sono andato a mettere come primo della fila, il maestro mi ha guardato e mi ha detto: e quando sei entrato, tu? Oggi? Bene, ma vai in ultima fila.
A proposito di quando eri piccolo: in un’intervista hai detto che eri il diverso, l’escluso. Che bambino eri?
Ero uno di quelli che pensava di sapere tutto. Ai bambini non piace quella persona che dice: io so tutto, si fa così, non dovete fare in questo modo. Si creavano vari gruppetti che mi escludevano, ero molto saccente. Molti si allontanavano da me, ma per me non ero io quello che sbagliava ma loro. Questo ha creato tanti problemi a scuola perché non riuscivo a capire che era colpa mia e mi ritrovavo ogni giorno a litigare con qualcuno, a prendere una nota, a fare qualcosa che mi faceva sentire diverso dagli altri. Mi chiedevo come fosse possibile che tutti andassero d'accordo tranne che con me, mi sentivo diverso e questo non era sinonimo di migliore. Tutti facevano tantissimi sport, calcio, danza, nuoto. Io ero l'unico che faceva calcio o taekwondo. C'era un gruppetto alle elementari che faceva basket ed erano i più famosi della scuola. Ero l'unico che non veniva calcolato, ci litigavo sempre. Da bambino non ero proprio facile. Poi lo sport mi ha insegnato le regole, il rispetto, ma soprattutto mi ha aperto il mondo. A otto anni sono andato a gareggiare in Puglia: a quell’età hai visto solo il tuo paesino e hai sentito parlare solo in un modo. Vedere altre persone, altri bambini di altre palestre mi ha aperto la mente. Le prime competizioni in giro, mi hanno fatto capire che c’era altro. Nella mia testa, fino a qualche anno fa, c'era il mondo della vita reale e il mondo del taekwondo. Quando qualcuno della vita reale mi riconosceva come quello del taekwondo, per me si sfasavano i monti. Lì ho compreso come non servisse far casini nella vita reale, perché avevo (e ho) il mio mondo in cui mi divertivo, in cui iniziavo a essere già qualcuno. Era quello che mi dava la soddisfazione di essere riconosciuto in quel momento, quindi anche nella vita reale. Non avevo neanche bisogno che gli altri bambini giocassero con me. Ero già soddisfatto di me. Questo mi ha trasformato.
Ora che i due mondi si sono incrociati, quello reale potrebbe superare quello del taekwondo? Insomma: temi la popolarità?
Devo dirti la verità: io ho una grande fortuna che è la mia fidanzata. Quando vengo riconosciuto da qualcuno, la mia ragazza mi ricorda sempre chi sono, banalmente mi dice: ok, sei famoso, ma sparecchia, non me ne frega niente di quello che c'è fuori. Mi tiene con i piedi per terra e io sono una persona a cui la fama piace. Mi piace essere riconosciuto e guardato. Quando sono a casa, nel mio paese, mi conoscono tutti e non mi dà fastidio, anzi. Non è complesso in generale, non fingo niente. A me non serve essere personaggio, cioè io già lo sono. Quando vado a fare un evento, un'intervista, sono semplicemente Simone Alessio, non sto facendo un qualcosa perché la mia figura d'atleta lo richiede. So di essere così, lo sanno tutti, posso essere arrogante, posso essere anche un po' difficile da capire, ma al tempo stesso, all'interno della mia famiglia, con le persone che mi conoscono, torno con i piedi per terra. Non penso che la fama possa sovrastarmi.
All’inizio dicevi che ti sei quasi annullato per lo sport. Adesso sei tornato a rimpossessarti della tua vita?
Sì, ho ripreso tutto il mio tempo libero, anzi pure troppo perché dovrei anche cominciare a studiare e non l'ho ancora inserito nelle cose da fare. Ultimamente, poi, sta nascendo la passione per il padel. Io e la mia ragazza facciamo coppia e sfidiamo chiunque, anche i nostri amici. Una volta a settimana giochiamo con loro e nel frattempo giochiamo anche con mio fratello e mio suocero che hanno fatto coppia con altri amici. È un hobby che mi permette di fare un qualcosa di sportivo insieme a lei. Le altre passioni sono quasi tutte legate al calcio, come giocare a calcio o alla Playstation, a FIFA, andare a vedere le partite, le mie passioni sono molto, posso dire, limitate su questo.
Hai nominato spesso la tua ragazza, sbaglio o c’era una proposta di nozze poi rimangiata in un’intervista alla Rai dopo la medaglia?
Abbiamo cambiato idea insieme [ride, nda]. Quando mi sono fidanzato quattro anni fa, le avevo detto che dopo Parigi, se avessi vinto una medaglia, le avrei fatto la proposta e poi nel 2026 ci saremmo sposati. Poco prima di Parigi ho sondato il terreno per capire se dovessi farla questa proposta e se non era troppo presto e lei mi ha detto: meno male che l'hai capito, mi sembrava brutto dirtelo. Io ho avuto la fortuna di trovarla, mi ha sempre capito al massimo. È una persona meravigliosa.