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Chi ha bisogno di José Mourinho?
10 dic 2017
Il tecnico portoghese arriva alla sfida con Pep Guardiola nella sua versione più conservatrice di sempre.
(articolo)
14 min
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Al secondo anno di gestione, Mourinho può dire di aver già raggiunto un obiettivo: a dicembre, prima del derby, il Manchester United sembra essere l’unico avversario credibile del Manchester City nella corsa al titolo in Premier League. Un po’ anche per demerito delle altre concorrenti: il Chelsea è fragile e scoperto in alcuni reparti; il Liverpool sembra troppo poco equilibrato per ottenere risultati con continuità; l’Arsenal di Wenger è il solito imprevedibile Arsenal di Wenger e, soprattutto, è a otto punti di distanza dallo United e addirittura 15 dal City; ancora peggio il Tottenham, che aveva cominciato benissimo ma è troppo dipendente dagli stati forma di Alli e Kane e al momento è addirittura fuori dai primi cinque posti.

Le due squadre di Manchester si incontrano domenica in un derby che dovrebbe essere il più sentito degli ultimi anni. Tutto sembra essersi sistemato nel verso giusto nella narrazione dell’ennesima sfida tra Mourinho e Guardiola, la rivalità che più di tutte nel calcio contemporaneo è riuscita ad incarnare gli opposti archetipici di questo sport.

Il Manchester City è dominante e spettacolare, basato sul gioco di posizione: gestione tirannica del possesso, pressing alto, riconquista immediata del pallone, passaggi corti, ricerca dell’uomo dietro le linee di pressione. Il Manchester United, all’angolo opposto del ring, è invece cinico e spietato, inglese nella peggiore delle accezioni: rinuncia al possesso, difesa bassa, fisicità nei duelli individuali, lanci lunghi, cross, transizioni.

La squadra di Guardiola ha il miglior attacco, quella di Mourinho la miglior difesa.

Persino la percezione delle due squadre all’esterno è all’opposto. Il Manchester City è amato dagli appassionati e dalla stampa, esaltato persino dagli avversari. Il Manchester United è criticato per essere noioso e fin troppo speculativo, il suo allenatore puntualmente deriso sui social.

Mourinho, insomma, è nella condizione che ha dimostrato di preferire da sempre: non solo ha la possibilità di riaprire il campionato ai danni di Guardiola, a cui può infliggere la prima sconfitta stagionale in campionato, con una squadra che è la sua nemesi, aprendo una prima crepa nelle sue sicurezze, ma arriva anche alla sfida da odiatissimo underdog.

Come ogni grande villain che si rispetti, Mourinho sembra essere tornato alla ribalta dopo un lungo periodo di letargo, dopo l’esonero doloroso al Chelsea e una prima stagione scialba in maglia rossa alle spalle; e lo ha fatto esattamente nel momento in cui il suo rivale di sempre sembra non aver più alcun ostacolo sulla via del successo.

Da dove viene questo United

L’incipit della stagione 2017/18 del Manchester United è datato in realtà 24 maggio, il giorno della finale della scorsa edizione di Europa League. La squadra di Mourinho veniva da una stagione di molto al di sotto delle aspettative, in cui aveva vinto comunque due trofei, anche se minori: il Community Shield e la League Cup (in finale contro Leicester e Southampton). In campionato però era finita addirittura sesta, a 24 punti dalla vetta. Per l’allenatore portoghese, la sfida contro l’Ajax a Stoccolma era diventata l’unico modo per dare un senso ad un’altra annata fallimentare e, soprattutto, entrare in Champions League.

La finale va come ci si aspetta: tra le due squadre non c’è partita: l’Ajax apparentemente gioca meglio, con un calcio più brillante e propositivo, ma vince lo United. In molti criticheranno Mourinho per la prestazione della sua squadra, ma l’impressione innegabile di superiorità e controllo ha spinto qualcuno a lodarlo usando la retorica della sfida tra uomini e ragazzini. Al fischio finale Mourinho viene portato in trionfo dai giocatori, piange, si rotola a terra abbracciandosi con il figlio, per una competizione che a febbraio diceva di non voler nemmeno giocare, se avesse potuto.

Quando viene consegnata la coppa alla squadra, si inserisce nelle celebrazioni facendo il gesto del tre con la mano per indicare i tre trofei vinti in stagione. La maggior parte dei suoi giocatori lo ignora, alcuni sventolano a loro volta la mano con le tre dita alzate.

Nell’intervista post-partita sembra stanchissimo e svuotato: ha la camicia sgualcita e le occhiaie profondissime che gli solcano il viso. «Ci sono molti poeti nel calcio, ma i poeti non vincono molti trofei», dice riferendosi a Bosz, un allenatore alla sua prima finale europea, con alle spalle solo la vittoria in Serie B olandese con l’Heracles.

Poi, quando l’intervistatore gli chiede se ne è valsa la pena, dopo una competizione così lunga, lui risponde: «Sto per dire una cosa egoista, ma adesso sono in vacanza. Punto. Non voglio sapere niente di calcio, non voglio vedere le amichevoli delle Nazionali, non voglio vedere niente, sono in vacanza». Sembra essersi tolto un macigno dalle spalle.

La stagione appena conclusa, che lui stesso definisce “la più difficile” della sua carriera, l’ha visto cercare di impiantare senza grandi risultati dei princìpi di calcio più propositivo, per poi ripiegare, tatticamente e strategicamente, su soluzioni sempre più speculative: «Abbiamo preferito questo che finire quarti, o terzi, o secondi (in campionato)», dice Mourinho dopo la finale di Europa League.

Col finire della stagione tutti i giocatori più associativi o creativi della rosa vengono messi ai margini o lasciati andar via già dalla primavera: Schweinsteiger a marzo firma per i Chicago Fire, in MLS (Mourinho successivamente dirà di essere dispiaciuto per come l’ha trattato), Carrick, nonostante il rinnovo estivo, viene messo fuori dai titolari fin da subito (molto prima dei gravi problemi di salute che l’hanno afflitto nelle ultime settimane), Rooney torna all’Everton. Al loro posto arrivano Lukaku, Matic e Lindelof, per una squadra che forse dovrebbe avere una categoria di peso a parte rispetto al resto dei club europei, ma che mantiene due soli fuochi creativi: Pogba e Mkhitaryan.

Ad agosto, però, l’idea di una squadra distruttrice e reattiva, incubo dei “poeti del calcio”, mostra i primi segni di inadeguatezza: il Manchester United perde la Supercoppa Europea per 2-1 contro il Real Madrid, dimostrando un’inferiorità inesorabile, e questa volta sono i giocatori di Mourinho a fare la figura dei ragazzini. Dopo la partita l’allenatore portoghese se la prende con l’arbitro e le presunte simulazioni di Cristiano Ronaldo.

Oltre il pragmatismo

La sconfitta in Supercoppa Europea non ha cambiato le idee di Mourinho, che forse mai come quest’anno sembra intenzionato a plasmare la propria squadra intorno a princìpi di gioco speculativi, non con l’intento pragmatico di ottenere vantaggi sull’avversario ma come precisa scelta ideologica sull’identità della squadra.

Come ha notato Barney Ronay sul Guardian, ci sono stati dei momenti in stagione in cui un allenatore veramente pragmatico avrebbe scelto approcci diversi, magari uno stile più offensivo o di semplice possesso. E invece Mourinho quest’anno ha mantenuto una fedeltà dogmatica verso le sue idee, come se si fosse auto investito della missione religiosa di sconfessare sul campo anche i princìpi più basilari del gioco di posizione.

Il Manchester United, in questo senso, è una squadra che sembra voler negare molte delle ultime evoluzioni del calcio degli ultimi anni: il portiere non contribuisce mai alla costruzione bassa e rilancia sempre lungo; i centrali di difesa lasciano letteralmente il pallone ai mediani in fase di impostazione o, se vengono pressati alti dagli avversari, lanciano direttamente verso la prima punta, che cerca con le spizzate di servire in profondità gli inserimenti delle ali; le rare volte in cui lo United arriva sulla trequarti costruendo dal basso, le ali e la punta tagliano alle spalle della difesa avversaria nella speranza che uno dei giocatori creativi della squadra trovi la verticalizzazione giusta; i terzini danno ampiezza solo per cercare il cross.

Il Manchester United, semplicemente, non è interessato a costruire il gioco in maniera pulita, ad ottenere dei vantaggi posizionali sull’avversario muovendo il pallone. La squadra di Mourinho è ultima, tra le grandi squadre della Premier, per possesso medio e passaggi riusciti a partita (rispettivamente 51% e 393.5 a partita) e prima, con la sola esclusione del Tottenham, per lanci lunghi e cross (rispettivamente 64 e 22 a partita).

Non che sia sterile o che abbia effettivamente problemi a creare occasioni da gol: alla fine, in Premier League, lo United è quarto per xG prodotti e secondo per gol segnati. Stupisce comunque vedere una squadra con una divisione dei compiti così rigida nell’epoca della fluidità dei ruoli e della fine dei moduli.

Il Manchester United è una squadra fordista: ci sono dei giocatori (la maggior parte) deputati a difendere, altri a creare gioco (principalmente Pogba, che si muove sempre in direzione del pallone per ricevere e poi inventare qualcosa), altri a superare l’uomo e ripartire in velocità, e altri ancora a finalizzare le azioni da gol (sostanzialmente solo Lukaku, primo in Premier per xG prodotti).

Ashley Young: uno degli uomini simbolo di questa squadra.

Le indicazioni sono poche e semplici: si cerca di prendere l’avversario di sorpresa in transizione o con il gioco lungo passando per vie centrali, se non ci si riesce si allarga il campo con i terzini per cercare il cross e sfruttare la superiorità fisica in area, che d’altra parte lo United può vantare contro quasi tutte le squadre che affronta, soprattutto sui calci piazzati (che è una delle grandi armi offensive di questa squadra: finora ben 8 gol segnati su palla inattiva, nessuno meglio della squadra di Mourinho in Premier).

Il resto è lasciato alle capacità individuali dei giocatori: Rashford per superare il diretto avversario, di Pogba di trovare il filtrante alle spalle della difesa avversaria, Lukaku per battere il portiere. Non è un caso, in questo senso, che lo United sia la squadra che tenta più dribbling in Premier (19.5 a partita), con ben tre giocatori sopra i 2.5 dribbling riusciti ogni 90 minuti (cioè Pogba, Martial e Rashford).

I giocatori sono quasi portati a sbrogliare da soli le situazioni, a rompere gli equilibri e determinare così le fortune della squadra. Chi non ci riesce con continuità viene emarginato, come Mkhitaryan che, dopo un grande inizio di stagione (è ancora il primo giocatore dello United per Expected Assists), è finito in panchina dopo essere stato accusato da Mourinho di “sparire” durante le partite.

Difensivista?

Il fatto che lo United non sia minimamente interessato al possesso e che quindi giochi per gran parte del tempo sotto la linea del pallone contro le grandi squadre porta all’equivoco che quella di Mourinho sia una squadra molto organizzata in difesa (equivoco rafforzato dall’attuale primato del Manchester United nella statistica dei gol subiti).

Ma in realtà lo United difende esattamente come attacca, e cioè con pochi compiti tattici e un pesante affidamento alle qualità fisiche e tecniche dei propri giocatori. L’indicazione generale è quella di abbassarsi sotto la linea del pallone per formare due linee compatte davanti all’area di rigore e difendersi posizionalmente. Si aggredisce in avanti solamente quando il possesso avversario diventa difficoltoso, per esempio quando un giocatore riceve spalle alla porta.

Quando l’avversario gestisce il possesso nella sua metà campo, lo United adotta poi un sistema di marcature quasi del tutto a uomo, con i difensori che escono in maniera molto aggressiva tra le linee per impedire le ricezioni fronte alla porta degli avversari, e le ali che seguono i terzini fino alla linea di difesa. Questo atteggiamento ha portato ad avere una gestione dell’ampiezza inusuale, con fasi di difesa posizionale in cui la difesa era molto stretta per chiudere lo spazio tra le linee e il centrocampo larghissimo per prendere i terzini in ampiezza.

La strana gestione della larghezza del campo da parte dello United, con la difesa strettissima a coprire il centro e il centrocampo larghissimo a difendere l’ampiezza. Qui Darmian esce aggressivo su Salah che è venuto tra le linee, ma alle sue spalle non scala nessuno e si libera Wijnaldum.

Il Manchester United, in sostanza, se ne frega della protezione collettiva di determinate zone di campo, come gli spazi di mezzo, e cerca di trasformare la sua fase difensiva in un enorme uno contro uno, in cui diventa vitale la capacità dei singoli giocatori di non farsi saltare dall’avversario.

La schermatura degli spazi di mezzo diventa ancora di più un problema col 3-4-1-2: con Young e Valencia schiacciati sulla linea di difesa, Pogba e Matic devono coprire da soli l’intera larghezza del campo.

Solo in questo senso si può capire la preferenza di giocatori tecnicamente rudimentali ma fisicamente dominanti come Jones, Smalling, Valencia e Young, rispetto a giocatori più complessi ma meno capaci di annullare l’avversario nei duelli individuali, sia di terra che di aria.

Ovviamente, un sistema di questo tipo basa la sua solidità sulla gestione perfetta delle scalate in marcatura e sul dominio degli uno contro uno. Basta che a un avversario riesca un dribbling o che una squadra riesca a manipolare il sistema di marcature dei “Reds” che il Manchester United rivela tutta la sua fragilità.

L’illusione del controllo

Così, quella sensazione di controllo del contesto, di ineluttabilità del successo che le squadre di Mourinho hanno sempre restituito all’esterno, sembra quest’anno solamente presunta a posteriori, e ottenuta con grande fatica. Il Manchester United è infatti una squadra molto fragile, molto più di quanto il dato sui gol subiti non dica.

Lo United è addirittura undicesimo in Premier League per xG concessi, dietro al Burnley, avendo subito fino ad adesso circa dieci gol in meno di quanto ci si poteva ragionevolmente attendere data la qualità delle occasioni concesse agli avversari (9 gol subiti rispetto ai 19.18 xG concessi). I “Reds” subiscono 4.2 tiri in porta a partita: meglio solo di Watford, Bournemouth, Stoke, Southampton, Leicester, Crystal Palace, Everton, West Ham e Swansea.

Se oggi Mourinho può vantarsi di avere la miglior difesa del campionato, lo deve quasi del tutto a David De Gea, che sta attraversando una stagione al di fuori di qualunque normalità.

Il portiere spagnolo è primo per distacco per Expected Goals parati in stagione e contro l’Arsenal, all’ultima di campionato, ha eguagliato il record di parate in una singola partita negli ultimi dieci anni di Premier League. In quella partita, la squadra di Wenger è riuscita a segnare una sola volta dopo aver avuto azioni da gol per una pericolosità offensiva equivalente a 4.6 Expected Goals.

La prestazione irreale di De Gea contro l’Arsenal.

Anche fuori dal campo, Mourinho sembra meno capace, quasi meno interessato, a manipolare il contesto mentale per esercitare il proprio controllo sugli avversari, entrargli sotto pelle per minarne le certezze. L’allenatore portoghese in conferenza stampa è diventato più cupo e impegnato a giustificarsi di fronte alle critiche, invece che attrarle con il suo carisma magnetico per ergersi a scudo della squadra.

A fine ottobre, dopo aver battuto il Tottenham inaugurando il 3-4-1-2 che sta utilizzando sempre più spesso, si è girato verso la telecamera mettendosi il dito di fronte alla bocca, zittendo gli spettatori. Nel post-partita, però, invece di alzare ulteriormente i toni, ha deciso di gettare acqua sul fuoco, chiedendo ai suoi detrattori di calmarsi, come se fosse stanco di dover giustificare se stesso ogni volta.

Dopo la scialba vittoria col Benfica in Champions League per 1-0, sempre con lo spirito del martire, l’allenatore portoghese, attaccato per uno stile troppo refrattario, ha dichiarato che: «Difendere non è un crimine».

Solo pochi giorni fa i giornalisti, forse nostalgici del vecchio Mourinho, hanno cercato in tutti i modi di tirargli fuori una qualche dichiarazione polemica contro Guardiola, che non era stato squalificato per essere entrato in campo dopo una vittoria all’ultimo minuto al St. Mary’s di Southampton. Mourinho era stato squalificato proprio per quella ragione a settembre, ma invece di cogliere la palla al balzo si è rifiutato di rispondere alla domanda se pensasse che ci fossero delle regole diverse per l’allenatore catalano.

È stato Pogba a provare a scalfire la sicurezza del Manchester City con i metodi che erano una volta dell’allenatore portoghese, augurando un infortunio ad uno degli uomini chiave della squadra di Guardiola.

Mourinho sembra ormai aver bisogno dei giocatori più di quanto loro abbiano realmente bisogno di Mourinho, sia fuori che dentro il campo.

È aggrappato alle loro qualità, persino alle loro dichiarazioni, nella ricerca di un successo che è sempre stato fondamentale nella sua narrazione di se stesso e della sua legacy. E nel farlo sembra essere diventato l’ombra di se stesso, ultimo profeta di un calcio distopico che non ha nemmeno più l’ambizione del pragmatismo.

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