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La fine di Bolt?
16 lug 2015
Usain Bolt è rimasto il più possibile lontano dai riflettori, ma tra poche settimane comincia il Mondiale della resa dei conti con i suoi rivali di sempre.
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La stagione dell’atletica è entrata nel vivo: mancano 40 giorni ai Mondiali di Pechino, con nove prove di Diamond League già disputate. Tra sorprese e infortuni, conferme e delusioni, i nomi noti sono usciti allo scoperto. Le rivalità si delineano e si inizia a intuire dove riporre le speranze per un nuovo record del mondo, ma un nodo non si è ancora sciolto: che fine ha fatto Usain Bolt? Che ne è del più forte velocista del mondo, in grado di strapazzare primati e avversari fino a diventare praticamente invincibile?

Finora, il fenomeno giamaicano ha corso i 100 metri solo una volta nel 2015 e il suo tempo, 10’’12, è lontanissimo dai suoi standard. Basta pensare che al momento, nelle liste mondiali stagionali, è al sessantesimo posto. Va meglio nei 200 metri, dove la vittoria nel meeting di Ostrava in 20’’13 gli ha permesso di inserirsi in quindicesima posizione. Ma per uno abituato a scendere sotto i venti secondi da oltre dieci anni non può bastare. E un bruttissimo segnale è arrivato dalla settima tappa della Diamond League, disputatasi a New York il 13 giugno scorso. Su quella stessa pista, sette anni fa, aveva ottenuto il suo primo primato mondiale: 9’’72 nei 100 metri; stavolta invece ha corso nel mezzo giro e il risultato è stato mediocre: il 20’’29 finale gli è stato appena sufficiente per vincere, chiudendo per un soffio davanti a un ventenne di nome Zharnel Hughes, che molti considerano suo possibile erede (il fatto che abbiano lo stesso allenatore, Glen Mills, alimenta la suggestione).

Insomma, Bolt è tornato dagli Stati Uniti con una delle gare peggiori degli ultimi anni, corsa nello stesso stadio dove aveva cominciato a imporsi al mondo, mentre alle sue calcagna finiva uno che molti considerano in grado di prendere il suo posto in un futuro che non è chiaro quanto sia lontano.

New York, 13 giugno: Bolt vince a fatica i 200 con una delle prestazioni peggiori della sua vita.

I pretendenti al trono

Mentre il “Fulmine” arranca, alle sue spalle la competizione è feroce, soprattutto nei 100 metri. Finora, sono scesi sotto i 10 secondi addirittura 24 atleti: non era mai successo nella storia. Ma quelli che annusano la possibilità di vincere l’oro sono molti meno, mentre i rivali di Bolt sono sempre gli stessi tre. Erano gli sprinter più forti al mondo prima che arrivasse il giamaicano e, dopo anni nell’ombra, stanno nuovamente affilando le armi: nelle ultime sette stagioni hanno lottato per le posizioni di rincalzo, oggi sanno di avere un’occasione irripetibile prima che la loro giostra si fermi.

Quello che finora è rimasto più nascosto è Tyson Gay. Lo scorso anno è rientrato da una squalifica per doping che è costata l’argento alla staffetta americana di Londra 2012 e che, secondo molti, era destinata a determinare l’addio alle gare di uno dei protagonisti dello scorso decennio. Ma quest’anno, appena si è rimesso le chiodate, ha corso i 100 metri in 9’’88. Poi è sceso a 9’’87, che gli è valso il sesto posto nelle classifiche stagionali.

Non un granché, ma c’è un dettaglio che molti sottovalutano: Gay è stato l’ultimo atleta a sconfiggere Bolt in una finale olimpica o iridata, otto anni fa. Ai Mondiali di Osaka 2007 il giamaicano ottenne le prime medaglie della sua vita nei 200 e nella 4x100, due argenti ottenuti alle spalle dell’americano. In una gara dove conta molto l’elemento psicologico, questo può avere il suo peso.

La grande prova di Gay nei 200 di Osaka 2007.

Meglio di Gay, un 9’’81 che gli vale il secondo posto in graduatoria, ha fatto un altro giamaicano: Asafa Powell. Ora lo ricordano in pochi, ma prima del 2008 Powell era considerato l’atleta più veloce del mondo. Dopo Bolt, è probabilmente lo sprinter più talentuoso degli ultimi dieci anni. Autore di due record mondiali (9’’77 nel 2005 e 9’’74 nel 2007), ma condannato dai nervi fragili a occupare posizioni di rincalzo nelle gare che contavano, Powell vide i riflettori su di lui spegnersi con l’arrivo del connazionale più giovane. Per lui vale lo stesso discorso fatto per Gay: pizzicato dall’antidoping due anni fa, fu squalificato per 18 mesi (poi ridotti a sei) e sembrava difficile che potesse tornare.

Invece, oggi il giamaicano viene allenato dal fratello (ed ex velocista) Donovan. E i risultati sono ottimi: nel giro di due mesi, è sceso sotto i 10 secondi sei volte, l’ultima il 14 luglio (9’’87 a Lucerna). Powell, pur essendo stato uno dei grandissimi della sua epoca, non ha mai vinto un oro individuale e questa è la sua ultima occasione. Il titolo sarebbe il coronamento di una carriera nel corso della quale è sceso oltre ottanta volte sotto i dieci secondi, più di chiunque altro nella storia. Quest’anno gli manca ancora la grandissima prestazione, ma è convinto che arriverà: «Se continuo ad allenarmi e rimanere in salute posso fare meno del mio primato, il 9”72 del 2008 a Losanna», ha detto a fine maggio. Obiettivo che considera irrinunciabile, visto che a Pechino «si vincerà con 9’’60».

Ma il pericolo numero uno di Bolt è lo statunitense Justin Gatlin, che più di tutti sembra poter interpretate il ruolo del fantasma che riemerge dal passato. Gatlin ha vinto la finale olimpica di Atene 2004, quando in pista c’era ancora Maurice Greene e il record del mondo era 21 centesimi più alto di oggi. Si è ripetuto l’anno successivo vincendo l’oro mondiale a Helsinki. Poi è arrivata la mannaia: una squalifica per doping di quattro anni, così alta perché era recidivo. Era già la seconda volta che Gatlin risultava positivo e da quel momento di lui non si è più sentito parlare.

Tornato nel 2010, ha passato due stagioni in ombra. Poi, nel 2012, ha portato a casa da Londra il bronzo olimpico, correndo in 9’’79: mai prima d’allora era andato così forte. L’anno successivo è arrivato dietro a Bolt ai Mondiali di Mosca. La stagione scorsa è stato il più veloce del mondo con 9’’77, nuovo primato personale. Quest’anno è già sceso a 9’’74, oltre ad aver fermato due volte il cronometro a 9’’75. Si tratta dei tre migliori risultati della sua vita e dei tre migliori crono del 2015. Molti mugugnano, perché un atleta beccato due volte dopato che ottiene il miglior tempo personale a 33 anni legittima qualche dubbio. La IAAF, federazione mondiale di atletica leggera, ha addirittura cambiato il regolamento per impedire che venga selezionato come atleta dell’anno. Complessivamente Gatlin è rimasto fuori per doping per 5 anni, tanto che molti ne chiedono la radiazione a vita.

Lui tira dritto, forte del fatto che non è certo l’unico (ex) dopato presente nel circo dell’atletica mondiale, e si candida a riprendersi la leadership mondiale dieci anni dopo la sua ultima vittoria. Gatlin proverà a vincere sia nei 100 che nei 200, dove è attualmente il dominatore assoluto. Ai Trials statunitensi, il 29 giugno, ha corso il mezzo giro in 19’’57, diventando il quinto duecentista più veloce di sempre. E anche qui si tratta del suo miglior risultato di sempre. Non solo: i migliori quattro risultati del 2015 su questa distanza sono tutti suoi. L’avversario più vicino è Isiah Young, che è arrivato a 19.93.

I 200 metri con cui Gatlin, definito dalla telecronista "controversial character", ha stabilito il suo nuovo personale e messo una seria ipoteca sui Mondiali 2015.

Gli outsider

Oltre ai tre rivali di sempre, ne sta esplodendo un altro: si chiama Trayvon Bromell, viene dalla Florida, ha vent’anni e lo scorso anno ha battuto il record del mondo juniores correndo in 9’’97. Il 25 giugno, con 9’’84, ha impressionato il mondo e si è piazzato al terzo posto nelle graduatorie stagionali. Particolarmente significativo è stato il fatto che abbia ottenuto questo tempo nelle batterie dei Trials americani, cioè delle gare che selezionano gli statunitensi che poi andranno ai Mondiali: in mezzo a una platea di avversari di altissimo livello, si è qualificato alla finale demolendo il proprio personale e, nella gara decisiva, è arrivato secondo alle spalle del miglior Tyson Gay della stagione, guadagnandosi un posto per Pechino. L’anagrafe gioca a favore di Bromell, che potrebbe tirare un brutto scherzo ad atleti che seguiva in tv da bambino.

Meno speranze ha il fiore all’occhiello dello sprint europeo, il francese Jimmy Vicaut, che il 4 luglio, a 23 anni, è sceso a 9’’86, eguagliando il record europeo di Francis Obikwelu. Con Christophe Lemaitre appannato, il volto della velocità d’Oltralpe è lui, ma per quest’anno sembra avere ancora una marcia in meno degli altri, anche rispetto a Bromell. Stesso discorso per l'atleta di Trinidad Keston Bledman, anche lui 9’’86 nel 2015, che non pare essere in grado di puntare all’oro.

La stagione più difficile

Sui 200 metri, il discorso è molto più semplice per Bolt. Dovrà vedersela con Gatlin, e se il giamaicano tornerà in forma la questione si risolverà tra loro due. Se invece Bolt non torna ad alti livelli per l’americano la gara sarà una passerella trionfale. Al momento, non esiste nessuno in grado di batterlo. Bolt, per la prima volta in carriera, rischia seriamente di capitolare. E la fine della sua dittatura nella velocità potrebbe compiersi proprio a Pechino, dove sette anni fa nacque la sua leggenda.

Il suo appannamento, però, non è iniziato nel 2015. Sono passati quasi due anni dall’ultima volta che l’uomo più veloce di tutti i tempi si è espresso ai suoi livelli: nel 2014, il suo miglior risultato della stagione sui 100 è stato 9’’98, appena sufficiente a metterlo in quindicesima posizione nelle liste mondiali dell’anno. I 200 non li ha nemmeno corsi. Bolt il cannibale, abituato a stravincere, è scomparso da un pezzo, tormentato dagli infortuni. E non è detto che lo rivedremo, perché a 29 anni e dopo un periodo difficile è dura tornare. Certo, come dimostrano gli esempi di Gatlin, Powell e Gay, negli ultimi anni la longevità degli sprinter è cresciuta molto. Ma se questi ultimi sono atleti in cerca di rivincita dopo anni di squalifiche e decine di sconfitte, Bolt è un dominatore. Ha vinto tutto due o tre volte e ha migliorato altrettante volte i record mondiali di tre gare diverse. Per Bolt sarà più difficile che per gli altri, anche semplicemente perché è andato più forte di tutti.

Bolt sembra rendersene conto, nelle sue prime uscite è sembrato non solo fuori forma e in difficoltà, ma anche molto preoccupato. Se fino all’inizio della stagione si diceva sicuro di scendere velocemente sotto i dieci secondi e pronto, in prospettiva, a migliorare i suoi record del mondo (in particolare quello dei 200, dove il suo sogno è scendere sotto i 19 secondi), col passare delle settimane il sorriso sulle sue labbra si è spento. Dopo la sconfortante prestazione di New York, ha spalancato le braccia: «Comincio a preoccuparmi. In allenamento sto lavorando bene, poi, però, in gara non riesco a eseguire. Non è un problema fisico. Non mi chiedete cos’è che non va: non lo so».

Da quel momento Bolt non è più sceso in pista. Ha saltato i Trials giamaicani, dove era prevista una sua partecipazione sui 100. Ha saltato i meeting di Diamond League a Parigi e a Losanna, ufficialmente per problemi a una gamba. Ha promesso che tornerà a Londra il 24 luglio: «Non vedo l’ora», ha assicurato: se davvero ci sarà gareggerà per la prima volta dopo 41 giorni di assenza. Ma le dichiarazioni più inaspettate le ha fatte parlando degli avversari. Ha definito lo stop di un solo anno per Tyson Gay «la cosa più stupida che abbia mai sentito», affermando che secondo lui il suo rivale avrebbe dovuto essere squalificato a vita. Posizione legittima, ma non è da oggi che Bolt corre contro atleti trovati positivi all’antidoping, e in passato non aveva mai fatto un attacco così frontale sul tema, limitandosi a stravincere in gara (anche perché è già capitato e gli ricapiterà di correre le staffette con dei compagni di squadra risultati positivi).

Anche con Gatlin, che ha accuratamente evitato in pista, non se le è mandate a dire. «Quando conta, mi sono sempre fatto avanti e ho dimostrato di essere il migliore. Gatlin parla tanto, ha dimostrato che sta andando forte e di essere pronto, per cui sarà una bella sfida ai Mondiali. E mi piace da matti competere quando c'è gente che parla tanto, perché se poi non accompagni le parole con i fatti fai la figura dello stupido».

Dal canto suo, non è che Gatlin resti ad ascoltare in religioso silenzio. Tra tutti i suoi avversari è quello che più di tutti sta provando a fargli saltare i nervi, anche perché sa che al momento l’uomo da battere è lui. «Se vuole, sa dove trovarmi—aveva detto poche ore prima di fare il primato mondiale stagionale sui 100 a Doha, il 15 maggio—. Parigi, 4 luglio, nei 200. Sarebbe meglio di Mayweather-Pacquiao, certo più divertente, anche se con un budget ben inferiore». E non è un caso che Gatlin abbia fatto riferimento ai 200: quella è da sempre la disciplina preferita di Bolt. Sul mezzo giro fece il suo primo primato mondiale, quando ancora non aveva 17 anni, nel 2003: il suo 20’’13 è ancora la miglior prestazione di tutti i tempi tra gli Allievi. È l’unico al mondo a essere sceso sotto i 20 secondi prima di avere compiuto 18 anni: l’impresa gli è riuscita nel 2004, con un 19’’93 che da allora è record mondiale juniores. I 100 sono una gara in cui tutto può succedere, si può sempre sperare nel caso. Sfidare Bolt nei 200, invece, significa volerlo battere nel giardino di casa sua.

Quella volta in cui Gatlin ha battuto Bolt, al Golden Gala di Roma.

Che Bolt rischi la prima sconfitta mondiale lo sanno anche gli sponsor. Probabilmente questo è uno dei motivi per cui il giamaicano sta limitando le gare al minimo sindacale, al di là degli acciacchi: come marchio, lui vale in quanto simbolo di imbattibilità. E dato che, secondo Forbes, i suoi introiti si aggirano sui 21 milioni di euro per il solo 2015, è meglio non giocarsi il suo mito ora che rischia sconfitte pesanti.

La strategia del basso profilo non è una novità per Bolt, che da anni limita il numero di uscite proprio per evitare di usurarsi. Ma se negli anni scorsi poteva sembrare una tattica per far lievitare il prezzo delle sue partecipazioni ai meeting, e gli infortuni hanno fornito valide giustificazioni, quest’anno sembra che l’obiettivo sia difendere l’imbattibilità fino alla resa dei conti. Finché non corre, finché non incontra i suoi avversari in pista, non rischia di essere battuto. Al limite, può arrivare a giocarsi tutto ai Mondiali di Pechino. Ma c’è addirittura chi teme che, per evitare una sconfitta, Bolt possa decidere di fermarsi per tutto il 2015 e rinunciare a Pechino. Soprattutto se non sarà in condizioni di forma perfette.

Probabilmente Bolt è entrato nella fase calante. Infortuni, sazietà, stanchezza: i motivi sono diversi, ma il risultato è che il suo regno non è più inattaccabile. I suoi avversari sanno che stavolta non si corre per il secondo posto. Quella marcia in più che una volta aveva su tutti probabilmente non c’è più, o almeno quest’anno non si è ancora vista. Alle Olimpiadi di Rio 2016, Bolt faticherà come non mai: per uno abituato a stravincere non è facile trovarsi in una gara contendibile. Bisognerà vedere quanto reggerà di testa, ora che non è più inavvicinabile atleticamente. Ora che non sembra più di un altro pianeta, ora che è finita l’epoca del fenomeno, deve dimostrare di essere anche un campione. Se ci riuscirà sarà la sua impresa più grande.

Vivere per la finale

È una missione impossibile? No. E non tanto perché parliamo di un uomo capace di ottenere 9’’58 nei 100 e 19’’19 nei 200: quei tempi Bolt non li farà più, probabilmente. Ormai appartengono a un’altra epoca della sua vita da atleta. Il motivo per cui non è sfavorito nemmeno ora che sta passando il biennio più difficile della sua carriera recente è che il giamaicano non è solo un talento, ma anche un agonista formidabile. Era molto difficile accorgersene quando sbaragliava gli avversari e si divertiva a fare il buffone ai blocchi di partenza, ma Bolt sente le competizioni in cui ci si gioca la medaglia. E il meglio di sé lo dà sempre quando c’è da vincere l’oro. Al contrario di Powell, che è “solo” un talento e soffre di crolli nervosi ogni volta che arriva in finale (basta vedere le sue occhiaie sulla linea di partenza), Bolt si esalta in quelle situazioni. E, cosa non scontata in atletica, ai Mondiali e alle Olimpiadi ottiene sempre le sue migliori prestazioni stagionali.

L’ammonimento a Gatlin sul fatto che «quando conta, mi sono sempre fatto avanti e dimostrato di essere il migliore» è verificabile piuttosto facilmente. Quando corre per il titolo Bolt dà sempre il meglio di quello che ha quell’anno. Su 15 finali iridate od olimpiche a cui si è qualificato tra il 2008 e il 2013, ha vinto 14 volte. In sette occasioni ha fatto il record del mondo, in sei il primato mondiale dell’anno, in una si è limitato a ottenere il personale stagionale. Nel 2008 arrivò alle Olimpiadi di Pechino da fresco recordman mondiale dei 100 grazie a un 9’’72 ottenuto a fine maggio. In finale scese a 9’’69, correndo gli ultimi metri a braccia alzate. Nei 200 spinse fino alla fine e sconfisse nella sua sfida a distanza Michael Johnson, il cui primato resisteva dal 1996: 19’’30 contro 19’’32. Pochi giorni dopo arrivò il record mondiale nella 4x100: 37’’10.

Il record nei 100 a Pechino 2008.

Nel 2009, prima dei Mondiali di Berlino, il miglior tempo stagionale nei 100 era quello di Gay, 9’’77. In finale l’americano scese addirittura a 9’’71, un tempo che fu insufficiente anche solo a rimanere nella scia del fulmine: 9’’58 e record di Pechino spazzato via. La replica arrivò nei 200: anche qui Gay era il leader stagionale, ma non si presentò ai blocchi. Bolt coronò la sua cavalcata in solitaria con il nuovo record del mondo, 19’’19. Il terzo oro arrivò nella staffetta 4x100, anche se il 37’’31 finale fu “solo” primato dei campionati mondiali.

Nel 2011, ai Mondiali di Daegu non ci doveva essere storia: mancavano Gay e Powell, infortunati. Gatlin fu eliminato in semifinale. Per la prima volta libero da avversari ingombranti, Bolt fece falsa partenza nei 100, proprio nell’anno in cui entrava in vigore la regola della squalifica diretta: come se la mancanza degli avversari gli avesse fatto perdere la concentrazione. Vinse l’allora ventiduenne Yohan Blake, un giovane giamaicano di cui si sarebbe sentito parlare in seguito. Nei 200, infuriato per il primo oro mancato dal 2008, Bolt sbaragliò la concorrenza con 19’’40, miglior tempo mondiale provvisorio del 2011. Poi, nella staffetta 4x100, guidò la Giamaica al nuovo record mondiale: 37’’04. Passò qualche settimana e, in una delle ultime uscite stagionali, Blake corse un 200 e nonostante un tempo di reazione da bradipo (265 millesimi) fece segnare un tempo clamoroso: 19’’26.

Ancora oggi, quella gara rappresenta l’unica occasione in cui un atleta si è avvicinato a meno di un decimo da uno dei record mondiali di Bolt. Con quel tempo, Blake è stato l’unico a sottrarre a Bolt un primato mondiale stagionale negli anni delle Olimpiadi e dei Mondiali tra il 2008 e il 2013. Era nata una rivalità stellare, in vista delle Olimpiadi di Londra 2012.

Blake per poco non raggiunge Bolt.

Nell’anno olimpico, Blake gli inflisse due sonore sconfitte ai campionati giamaicani: 9’’75 contro 9’’86 nei 100 e 19’’80 contro 19’’83 nei 200. Gare vere, dove Bolt aveva spinto. Molti pensarono che l’uomo più veloce del mondo avesse trovato qualcuno in grado di sconfiggerlo alle Olimpiadi. Forse lo temette anche lui. Era la prima volta che si trovava sotto pressione dal 2008. Lui rispose con due gare mostruose: a Londra, nei 100, mentre Blake correva di nuovo in 9’’75, scese fino a 9’’63, secondo miglior tempo della storia, a soli cinque centesimi dal suo record di tre anni prima. Sui 200, in una finale meravigliosa, sconfisse di nuovo il suo avversario più pericoloso: 19’’32 contro 19’’44. Anche qui, il crono finale rappresentava il miglior crono mondiale stagionale. Poi, in staffetta, corse l’ultima frazione per la Giamaica e ottenne l’ottavo record mondiale all’aperto della sua carriera: 36’’84.

Da quello di rottamatore, Blake fu declassato al ruolo di erede. Ma le cose non sono andate nemmeno così, perché “The Beast” (soprannome affibbiatogli per i carichi di allenamento che si infligge) cadde in una spirale di infortuni da cui si sta rialzando solo ora. Invece Bolt, nel momento in cui si era maggiormente sotto pressione, rispose con tre prestazioni che, al di là del risultato cronometrico, rappresentano forse il meglio che ha fatto vedere sotto il profilo sportivo in tutta la sua carriera.

Il 2013 ha visto un’altra tripletta nel segno di Usain: ai Mondiali di Mosca, è stato oro nei 100 con 9’’77, oro nei 200 con 19’’66 e oro nella 4x100 con 37’’36. In tutti e tre i casi, si è trattato del miglior crono mondiale dell’anno. Ma per la prima volta non ha ottenuto nemmeno un primato del mondo. Non gli era mai successo di andarsene da una rassegna iridata senza aver spostato più in là nemmeno un limite. Non solo: non gli era mai successo di correre una finale dei 100 sopra i 9’’70, né ci aveva mai messo più di 19’’40 per terminare una finale dei 200. Ovviamente, a Mosca nessuno ha parlato di crisi. Quando uno stravince tre gare, facendo le migliori prestazioni mondiali stagionali e distruggendo la concorrenza, la parola “crisi” non esiste. Ma vista a due anni di distanza, quella settimana è stato il primo sintomo di normalità di Bolt. Rimaneva irraggiungibile per gli altri, ma non più stellare. Che nel 2013 fosse già iniziato l’appannamento è evidente anche da un altro fatto: dopo la finale di Londra, e quindi comprendendo l’annata 2013, Bolt è sceso solo quattro volte sotto i 10 secondi.

La resa dei conti

Sembra difficile che Bolt continui a correre dopo le Olimpiadi di Rio de Janeiro, anche se ha detto di essere intenzionato ad arrivare ai Mondiali di Londra 2017. Trent’anni, per uno che ha vinto tutto due o tre volte, sono una buona età per smettere. Soprattutto se si vuole chiudere da imbattuti: qualcuno più forte di te, nello sport, arriva sempre. Se non arriva, presto o tardi sarai tu a essere più lento di lui. Molti atleti hanno continuato a correre in età avanzata, ma non avevano un mito di invincibilità da difendere. Bolt questo lo sa bene. Certamente non si aspettava che a rischiare di fargli le scarpe potessero essere avversari che lui stesso aveva pensionato, sette anni fa. Forse questo potrebbe dargli nuovi stimoli: perdere contro una nuova leva ci può stare, è sempre stato così; perdere contro i dominatori di un’epoca precedente alla sua sarebbe un inedito contro tutte le leggi dello sport.

Se non ci saranno intoppi, a fine agosto si sfideranno quattro dei cinque sprinter più veloci di sempre: Bolt, Gay, Powell e Gatlin. L’unico assente della top 5 sarà il convalescente Blake, sostituito da Bromell. L’ultima volta che questi atleti si sono sfidati risale alle Olimpiadi di Londra, la gara più veloce di tutti i tempi, quando in sette atleti scesero sotto i dieci secondi e l’unico a mancare l’obiettivo, Powell, non ce la fece perché si infortunò in corsa. Ma all’epoca si trattava di una sfida a due tra Bolt e Blake. Stavolta, il duello andrà in scena solo nei 200 tra Bolt e Gatlin, mentre per i 100 sarà un poker a cinque. In quattro hanno già iniziato a scoprire le carte: tre sono alle mani finali e cercano di portare a casa qualcosa di ciò che hanno perso negli ultimi sette anni, uno è seduto al tavolo per la prima volta e già prova a scrivere la storia. Poi c’è un quinto giocatore che, le carte, le nasconde. Forse bluffa. Forse aspetta di pescare qualcosa. Oppure chissà, in realtà sta aspettando perché vuole tenere nascosto il suo jolly. Un jolly a forma di fulmine, l’unica carta che da sette anni fa saltare qualunque banco.

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