Ancora una volta penso sia tutta colpa di mio padre. O merito, se preferite. Come tutti i figli unici cresciuti con una madre ultra-apprensiva, mio padre è il mio idolo. Nonostante fossi solo un bambino, quel giorno me lo ricordo davvero bene. Forse perché vidi per la prima volta mio padre andare sopra le righe, esaltarsi, agitarsi ed emozionarsi davanti a un 25 pollici Sony a tubo catodico (ancora perfettamente funzionante) come non l’avevo mai visto fare prima. O forse perché dall’altra parte dei cristalli c’era un carabiniere di San Pietro di Cadore che aveva appena fatto il culo al più grande fondista di tutti i tempi. L’Italia aveva appena scritto una delle più grandi imprese sportive nella storia delle Olimpiadi Invernali. Anzi, probabilmente la più grande. Non ve la ricordate?
Maurilio De Zolt, Marco Albarello, Giorgio Vanzetta e Silvio Fauner
L’Olimpiade Invernale è alla sua XVII edizione; siamo a Lillehammer, Norvegia, ed è il 1994. Come tutte le imprese epiche però non siamo in un luogo qualunque. Il Birkebeineren Skistadion è preso d’assalto da giorni per avere un posto in prima fila a quello che si prospetta come il momento più importante delle Olimpiadi per i norvegesi: il giorno del fondo con la staffetta 4x10km. 200mila persone hanno fatto richiesta di un biglietto. I posti dentro lo stadio sono 31mila. Altre 75mila anime si calcola siano stipate lungo il percorso. Insomma, quasi 110mila persone sono presenti. Qualcuno si è persino arrampicato sugli alberi. Ogni più importante carica nazionale si è assicurata un posto sulle tribune; re compreso, ovviamente. E come non potrebbe essere stato altrimenti, siamo al Birkebeineren skistadion…
Il Birkebeineren skistadion è per i norvegesi un luogo magico, e per i discendenti della Famiglia Reale una sorta di “località storica”. La leggenda racconta infatti che nel XIII secolo, Håkon Håkonsson, un neonato designato a riunificare la Norvegia e meglio noto successivamente come re Håkon IV (1217 – 1263), era in pericolo di morte, minacciato da una guerra civile che tormentava il paese. Fu allora che due Birkebeiner(due guerrieri della fazione che poi prese il potere), muniti naturalmente di sci da fondo, per mettere in salvo il futuro re affrontarono durante una tempesta di neve il percorso che porta da Lillehammer a Østerdalen, nascondendo il bimbo e salvandogli la vita. Insomma, secondo la leggenda se la Norvegia si riunificò progredendo poi in ciò che conosciamo oggi è anche grazie allo sci di fondo. Non sorprendetevi quindi se ancora oggi il Birkebeinerrennet—la gara di fondo che si tiene ogni anno per celebrarne il ricordo—è una delle manifestazioni più importanti del Paese.
Delle 14 squadre che prendono parte alla staffetta la Norvegia non è solo la favorita, è qualcosa di più. Da due anni i norvegesi, nel fondo, hanno vinto praticamente tutto. Hanno sbancato alle Olimpiadi di Albertville del 1992 portandosi via tutti gli ori, e si sono replicati, portando via di nuovo tutte le medaglie più preziose, ai Mondiali di Falun del 1993. Insomma, la staffetta norvegese che si presenta alle Olimpiadi di casa è il Dream Team di Michael Jordan che gioca la finale al Madison Square Garden, è il Brasile di Pelé al Maracanà, è il vanto e l’orgoglio di una nazione che con gli scarponi ai piedi ci nasce. A fianco delle strade asfaltate in Norvegia ci sono le corsie per i fondisti. Un utilizzo invernale dell’estiva versione “pista ciclabile” in una nazione che fa dell’ecosostenibilità uno dei suoi credo da sempre. Insomma, per un’ampia percentuale dei 4 milioni di norvegesi lo sci di fondo non è uno sport, è il mezzo di trasporto. E Sture Sivertsen, Vegard Ulvang, Thomas Alsgaard e Bjørn Dæhlie sono i loro più straordinari rappresentanti.
E l’Italia? Beh l’Italia non è così male. Gli azzurri vengono da un secondo posto ai Mondiali e da tre/quattro anni sono diventati una realtà nello sci fondo, ma più che giocarsi un nuovo, strepitoso argento contro la Finlandia di Mika Myllylä non sembrano destinati a poter fare. Non oggi. Non davanti ai 110mila del Birkebeineren skistadion e non con una staffetta che anagraficamente ha già preso paga ancor prima di salire sugli sci.
Prima frazione: l'età non conta
In prima frazione infatti, la più delicata per gli azzurri, il ct Vanoi ha schierato Maurilio De Zolt. Fisico minuto e tanto cuore, De Zolt è un personaggio che persino i norvegesi hanno imparato a conoscere e ben volere. Sì perché Maurilio non è un esattamente il prototipo dell’atleta qualsiasi; né tantomeno quello dell’uomo comune. De Zolt ha scritto e rappresentato una storia tutta sua, come solo i fuoriclasse hanno saputo fare. Basti pensare a questo: Maurilio entra in Nazionale all’età di 27 anni, quando nel resto del mondo gli atleti di questa disciplina iniziano a intravedere il traguardo della carriera da professionisti. Ma De Zolt è un tipo particolare, certamente speciale, un arcigno montanaro con tutti gli usi e costumi annessi. Lo sa bene Vilje Sadehariu, il commissario tecnico della Nazionale ai tempi delle Olimpiadi di Sarajevo (1984), un finlandese che arrivò nella squadra italiana e provò a importare un regime militare a base di pane nero, latte, patate e a proibire gli alcolici; Maurilo, che come “dieta” aveva sempre avuto vino, grappa, carne ai ferri e cacciagione, prese il diktat come un insulto alla tradizione e fece le valige il giorno stesso. Servì una mediazione per riportarlo indietro e quella mediazione arrivò puntuale, anche perché “il frizzantino” non infierì mai sulle prestazioni di De Zolt. Anzi! Durante i festeggiamenti per i suoi 60 anni (settembre del 2010) dichiarò testuale: «Me ne sento trenta di anni, non di più. Fisicamente sto bene ed è dal 1992 che non vado dal medico: sempre meglio un buon calice di prosecco che una pastiglia, siamo tutti d'accordo, spero». Dev’essere stata questa la chiave della sua incredibile carriera perché la mattina del 22 febbraio 1994 la carta d’identità di Maurilio, vigile del fuoco nato a San Pietro di Cadore, è inflessibile: con i suoi 43 anni è l’atleta più anziano presente alle Olimpiadi. E come se non bastasse De Zolt ha uno dei compiti più complicati: lui, pattinatore, deve provare a tenere il ritmo di Silversten nei primi 10 km di spinta previsti solo in passo alternato. Sture Silvestren è il campione del mondo in carica della 10km in questa disciplina. I piani del ct Vanoi per arrivare a medaglia sono chiari: De Zolt dovrà provare a passare al cambio con un massimo di 30 secondi di svantaggio dal norvegese. Maurilio, quella mattina, nel -18 °C di una soleggiata Lillehammer, vola. Fisicamente più leggero rispetto al norvegese e al finlandese, De Zolt perde terreno in tutti i tratti in discesa dove è il peso a farla da padrone. In salita, però, è uno spettacolo. Maurilio si inerpica sui binari in pendenza con un passo due volte più agile degli avversari, ma soprattutto è spinto dallo stesso spirito che lo porterà 16 anni più tardi a quel tipo di dichiarazioni nel giorno del suo sessantesimo. Insomma, De Zolt tiene per 8 km abbondanti il gruppo di testa e, al passaggio di testimone, l’Italia è a 10 secondi dalla coppia Silvestern-Myllylä. Il "vecchiaccio", soprannome che aveva in squadra, ne aveva fatta un’altra delle sue.
Seconda frazione: col cuore in mano
Marco Albarello, che nella seconda frazione avrebbe avuto il compito di rimontare, ha Vegard Ulvang nel suo campo visivo. Più di quello che si aspettavano tutti, certo, se non fosse che a racchettare per la Norvegia c’è una leggenda in materia. Ulvang è stato il dominatore delle Olimpiadi di Albertville con tre ori nella 10km, 30km e nella staffetta 4x10. Quel giorno, però, Ulvang gareggia con una motivazione in più: ricordare la tragica scomparsa del fratello/allenatore Ketil. Il 13 ottobre del 1993, Ketil, di ritorno da una lezione di fitness tenuta nella scuola del paese più vicino, decide a metà strada di scendere dalla macchina degli amici e di percorrere l’ultimo pezzo di strada correndo. Ketil è un tipo temerario e dopo aver affrontato le più pericolose avventure proprio con Vegard—avevano attraversato insieme sugli sci Groenlandia e Tibet tanto per intenderci—non si fa certo spaventare da qualche raffica di vento. Non tra le sue terre. Non a casa sua, anche se siamo al confine con la Russia e vicino al Circolo Polare Artico. Eppure Ketil, questa volta, non farà più ritorno a casa. Il giorno in cui Vegard scende in pista Ketil è ancora disperso. Lo troveranno 7 mesi dopo, conservato perfettamente dai ghiacci di un torrente. La mattina del 22 febbraio '94 Marco Albarello gareggia quindi per rimontare 10 secondi a un mito del fondo con il cuore spezzato. A metà percorso il 33enne di Aosta li ha già ripresi. Come De Zolt, Albarello sembra viaggiare sui binari della pista dando l’incredibile impressione che l’età sia un concetto relativo in uno sport di fatica come il fondo. Gli avversari sono più giovani e hanno già vinto tutto, ma il passo di Albarello nella neve norvegese è tanto agile quanto potente. Dopo averli ripresi, infatti, Marco prova addirittura a staccarli. Al passaggio del testimone l’Italia transita prima con qualche decimo di secondo su Norvegia e Finlandia. Ma la gara è ancora lunga e anche se si inizia ad avere la percezione che qualcosa di magico stia per accadere, la distinta dice che per la Norvegia mancano Alsgaard e Dæhlie.
Terza frazione: restare in scia
Già, Thomas Alsgaard. Il ragazzino. La Norvegia in terza frazione schiera “la promessa”. Il virgolettato è d’obbligo perché Alsgaard ha solo 22 anni ma è fresco dell’oro conquistato nella 30km solo qualche giorno prima. È un esordiente, ma va fortissimo. Il norvegese fa del ritmo e dell’attacco le sue caratteristiche e dopo qualche metro Giorgio Vanzetta se n’è già accorto. Ancora una volta la carta d’identità è impietosa con gli azzurri: il fondista di Cavalese, figlio d’arte, ha 34 anni, 12 in più del suo diretto avversario. Ma anche in questa frazione i documenti restano solo dei pezzi di carta per burocrati. Sì perché nonostante l’avvio minaccioso di Alsgaard con uno sprint più da arrivo in volata che da partenza di frazione, Vanzetta conferma da subito le sue caratteristiche: lui non è un atleta da grandi fughe, ma se è in giornata dategli da tenere un ritmo e vi porterà fino al traguardo. E oggi, Giorgio, è decisamente in giornata. Nonostante per tutta la frazione Alsgaard tenga la testa del gruppetto e tenti di fare il vuoto, Vanzetta non perde un metro. L’attacco portato dallo scatenato Alsgaard in avvio di frazione è infatti sedato sul nascere e, più che una pura dimostrazione di egual forza fisica, la reazione di Giorgio arriva come una mazzata psicologica al giovane norvegese che appena fuori dal rettilineo d’uscita dallo stadio è già ripreso. Non allungherà più. Dopo 30 km di fatiche l’Italia è ancora appaiata alle più forti. Ora, però, c’è Bjørn Dæhlie.
Quarta frazione: sconfiggere il mito
Con Bjørn Dæhlie la digressione è obbligatoria. Se cercate su Wikipedia accanto alla voce atleta troverete “cultural icon”. Sì perché più che una persona “reale” in quanto umano tangibile, esistente e registrato a un'anagrafe, la vita di Bjørn Dæhlie sembra essere uscita da un racconto della mitologia greca. Otto medaglie d'oro olimpiche e dodici complessive, nove medaglie d'oro mondiali e diciassette complessive, sei Coppe del mondo con 43 vittorie e 72 podi. Bjørn Dæhlie è l’atleta di sci nordico più vincente dalla storia. Non citarlo, alla vigilia di ogni Olimpiade invernale, è praticamente impossibile. Il nome di Dæhlie compare puntuale in tutte le infografiche che in questi giorni pullulano quotidiani e siti web sportivi: i suoi otto ori rappresentano infatti un record mai eguagliato nella storia dei Giochi Olimpici Invernali. Insomma, dal lato sportivo il norvegese è stato in grado di incarnare imprese uniche: dalla sua prima partecipazione all’Olimpiade di Albertville nel 1992 con tre ori e un argento all’ultima di Nagano ’98 quando replicò identico bottino; ma soprattutto dove riuscì a 31anni nella clamorosa vittoria della massacrante 50km (arrivato al traguardo Dæhlie cadde come colpito da un proiettile esattamente un centimetro dopo la linea d’arrivo, dichiarando successivamente che quella fu per lui la gara più dura di sempre. Nel video si vede come Dæhlie dopo aver lottato contro il cronometro per arrivare davanti allo svedese Niklas Jonsson rimanga incosciente a terra per più di un minuto). Ma “Bjørn Dæhlie” non è solo sport. Una volta levati gli scarponi e posati gli sci per dei problemi alla schiena che gli impedirono di partecipare all’Olimpiade di Salt Lake City, la vita del norvegese ha continuato a mietere successi anche lontano dalle piste innevate. Nel campo immobiliare e dell’edilizia ad esempio è un businessman di successo: si calcola che i suoi investimenti gli abbiano fruttato ad oggi più di 250 milioni di corone (circa 30 milioni di euro). Nel campo delle attrezzature sportive: Bjørn Dæhlie ha fondato la sua linea tecnica che tra gli appassionati riscuote un vasto successo non tanto per una questione di logo o brand quanto per la qualità del prodotto. Come inventore: Bjørn Dæhlie ha collaborato con la Salomon nella creazione del Salomon Nordic System (SNS), un particolare attacco per lo sci da fondo che si differenzia dai precedenti sistemi NNN e NIN. Come testimonial di svariate pubblicità in Norvegia e, infine, come personaggio televisivo di successo: ha fatto parte del programma Gutta på tur, una sorta di Linea Verde norvegese con Dæhlie e i suoi compagni d’avventura impegnati nella scoperta di luoghi tipici nella Scandinavia (e del mondo: la puntata girata in Tanzania vinse nel 2000 il Gullruten award, “l’oscar” della TV norvegese). Insomma, con un curriculum del genere non vi sorprenda l’esito del sondaggio proposto da Verdens Gang. Ai lettori del quotidiano norvegese fu chiesto di nominare il “norvegese del XX secolo”. Dæhlie arrivò terzo dietro l'esploratore e umanista Thor Heyerdahl e la prima donna ‘Primo Ministro norvegese’, Gro Harlem Brundtland. In fila dietro di lui gente del calibro di Fridtjof Nansen, vincitore di un Premio Nobel per la Pace; Roald Amundsen, il primo uomo a raggiungere il Polo Sud; e il signor “L’urlo”, al secolo Edvard Munch.
Quando parte la quarta frazione Dæhlie ha 26 anni ed è un’autentica furia. Una forza della natura. Tre ori ai Mondiali di Falun. Tre ori alle Olimpiadi di Alberville. Dæhlie è già una divinità nazionale. In bacheca ha la Coppa del mondo del '92 e del '93 e al collo in questa Olimpiade si è già messo un oro e un argento. Insomma, se la Norvegia è il Dream Team dello sci di fondo Bjørn Dæhlie è il suo Michael Jordan. Pronti-via e in meno di 2 chilometri il norvegese impone un ritmo devastante. Isometsä, l’ultimo frazionista della squadra finlandese, si stacca praticamente subito. Ma non Silvio Fauner. Silvio, con i suoi 25 anni, è il più giovane della staffetta azzurra e in un paio di appuntamenti in Coppa del Mondo è anche riuscito nell’impresa di battere Dæhlie allo sprint. Già, lo sprint. La tattica di Fauner e degli azzurri è una sola: considerando l’impossibilità di staccare uno come Dæhlie, l’unica reale speranza è provare a rimanere agganciati ai suoi sci per beffarlo in volata. Fauner, durante la consegna di un premio, dichiarerà 15 anni dopo: «Nella mia testa avevo studiato la gara da giorni». Al passaggio dentro lo stadio dei 35km il pubblico accoglie i due atleti con un boato di sorpresa: i norvegesi non si spiegano infatti come Dæhlie, uno abituato a gareggiare da solo, abbia ancora attaccato agli sci un italiano. A 2 km dall’arrivo, allora, il norvegese prova uno dei suoi devastanti attacchi in salita. Nulla. Fauner risponde ancora e Dæhlie, stizzito, si gira chiaramente verso Silvio rompendo il ritmo e chiedendogli di tirare. I due fondisti sono quasi fermi e la telecamera è costretta a staccare perché i due atleti sono usciti dal campo visivo, ma quando la regia torna a inquadrarli da un’altra postazione ci si accorge come quella di Bjørn Dæhlie fosse l’ultima disperata tattica per evitare l’arrivo in volata: il norvegese prova infatti l’azione di rabbia (forse un po’ sporca) nella discesa che porta all’ingresso del Birkebeineren skistadion ma Fauner è una calamita e addirittura passa Dæhlie all’interno piazzandosi in posizione di vantaggio per la volata finale.
Descrivere gli ultimi 400 metri a parole è quasi un insulto alle immagini. I pochissimi italiani presenti, tra cui Alberto Tomba, hanno l’onore di assistere a 30 secondi che rappresentano la sublimazione dell’impresa sportiva. Sì perché le paure di Dæhlie si materializzano per osmosi come brividi lungo la schiena del pubblico norvegese che, quando vede Fauner dominare la volata e tagliare il traguardo davanti al Mito, prima reagisce con qualche secondo di surreale silenzio ma poi scoppia nell’applauso: la Norvegia infatti non ha perso, ha semplicemente vinto l’Italia. Nei giorni successivi al successo è lo stesso Fauner a dichiarare come lui e i compagni di staffetta furono continuamente fermati da cittadini pronti a congratularsi per ciò erano riusciti a conquistare. La sportività dei norvegesi fu ripagata 4 anni dopo a Nagano 1998, quando in una voltata ancor più tirata furono 5 cm dello sci di Alsgaard—questa volta in ultima frazione—a beffare Fauner di una seconda, clamorosa, impresa.
Ma quel 22 febbraio 1994, di fronte a duecentomila spettatori—dieci volte gli abitati di Lillehammer e due volte quelli della capitale Oslo (Ivana Vaccari della Rai e Mattia Chiusano di Repubblica diedero queste cifre comprendendo anche tutti coloro che avevano intasato l’area attorno al circuito)—un norvegese su 21 fu costretto ad assistere stupefatto allo show di 4 ragazzi provenienti dal Paese del Sole venuti a vincere nel tempio del fondo. L’oro della 4x10 maschile a Lillehammer 1994. O, se preferite, “La più grande impresa italiana nella storia delle Olimpiadi Invernali”.