Il ciclismo è uno sport popolare ma di nicchia. Per anni, quasi un secolo, è stato anche uno sport specificatamente europeo: europei erano gli appassionati, i ciclisti, le corse, le biciclette di alluminio con il cambio manuale, le camere d'aria avvolte intorno al corpo, le ammiraglie, le moto, le televisioni e le radio.
Potremmo restringere ancora di più il campo a poche nazioni europee. Belgio, Olanda, Francia e Italia. Cinque sole nazioni che per quasi un secolo hanno dominato il ciclismo mondiale (cioè, europeo).
Poi arrivarono gli spagnoli, scattanti scalatori forgiati nelle alture dell'entroterra iberico, capaci di far impazzire a volte le macchine da guerra del resto d'Europa. Per anni senza successo.
Come si diceva una volta, se non puoi batterli unisciti a loro. Così dalla Navarra scavalcò i Pirenei in sella a una bicicletta un contadino di 80 chili per quasi un metro e novanta. Un misto fra Anquetil e Eddy Merckx, senza la grazia del francese e senza la classe del belga.
Miguel Indurain, vincitore di 5 Tour de France consecutivi fra il 1991 e il 1995. Nel suo palmares anche due doppiette Giro-Tour, nel '92 e nel '93.
Nel frattempo altre nazioni cominciavano a capire che qualcosa si poteva fare, che i belgi in fondo sono esseri umani come gli altri, se non fosse che imparano prima a pedalare che a camminare.
Gli olandesi sono tanti, sono bravi, ma non vincono mai nulla. I francesi sono troppo occupati a guardarsi allo specchio per sudare su una bici. Gli italiani vivono da sempre nel mito di Coppi e Bartali e ancora si chiedono chi abbia passato la borraccia all'altro.
Nel 1961, a Fusagasugà, probabilmente la città con il nome più bello del mondo, nel cuore della Colombia, nasce in una casa coloniale Luis El Jardinerito Herrera. Un piccolo uomo cresciuto fra un paio di cesoie e una gita in montagna, che gioca a potare le siepi insieme a suo padre e la sera torna a casa in bicicletta con lui. Nei giorni liberi vanno a pedalare nei monti che affollano il Dipartimento di Cundinamarca, finché un giorno lascia indietro suo padre e se ne va da solo.
Nel 1983 arriva secondo alla Vuelta a Colombia, una corsa a tappe molto seguita da quelle parti, a cui partecipano tutti i più forti ciclisti colombiani. L'anno dopo stravince e arriva la chiamata dall'Europa. Lo vogliono per correre i Grandi Giri, d'Italia, di Francia e di Spagna.
Negli anni successivi arriva 7° al Tour del 1985, 5° nel 1987. Dimostra ai suoi connazionali, dopo il fallimento del beniamino Rafael Antonio Niño, di poter competere con i migliori ciclisti del mondo.
Da quella Vuelta a España del 1987, vinta da Luis Alberto El Jardinerito Herrera davanti a Reimund Dietzen e Laurent Fignon, la storia del ciclismo è drasticamente cambiata.
La statua di Rafael Antonio Niño nel suo paese natale, Cucaita. Per la cronaca: è ancora vivo, sta bene e ha 67 anni.
Il ciclismo si è aperto al mondo, volente o nolente, invaso da una schiera di piccolissimi scalatori andini, con facce squadrate e sorridenti, le mani callose di chi è arrivato fin lì facendo la spola fra una piantagione e una bicicletta. Gli omini del caffè, li chiamavano quelli che ancora faticavano a definirsi loro colleghi.
Il Passato
Per anni i Direttori Sportivi europei hanno pescato in Sudamerica giovani talenti da portare nel ciclismo che conta, con risultati altalenanti. In particolare si diffuse un preciso mito del sudamericano che arriva in Europa: fa una stagione buona, firma il contratto della vita e smette di allenarsi.
È il caso di José Rujano, venezuelano portato in Italia da Gianni Savio. Il suo 3° posto al Giro del 2005 gli valse la chiamata alla Quick Step prima di sparire completamente dai radar.
Savio nei primi anni '90 era direttore sportivo della ZG Mobili-Selle Italia, una piccola squadra italiana in cui corrono giovani interessanti come Andrea Tafi. Nel 1996 la Gaseosas Glacial, un'azienda colombiana di bibite gassate, lo contatta per una sponsorizzazione. La Glacial ha soldi da investire e un buon roster di ciclisti a disposizione da spedire alla corte di Gianni Savio che già negli anni precedenti aveva mostrato un grande interesse nei confronti del ciclismo colombiano, andando a pescare lì tanti giovani prospetti come Nelson Rodriguez e Leonardo Sierra, capaci di vincere qualche tappa al Giro e al Tour.
I rapporti fra Savio e il Sudamerica diventano così ancora più stretti, fino ad arrivare alla nomina di Commissario Tecnico della Nazionale colombiana. Continuerà a collaborare con sponsor colombiani fino al 2006, quando sarà il Venezuela, dopo l'exploit di José Rujano, a finanziare il progetto di Gianni Savio per volontà diretta del presidente Hugo Chavez.
La Colombia si ritrova quindi senza più appoggi in Europa, senza più sponsor disposti a investire nel ciclismo che conta. Con l'elezione a presidente di Juan Manuel Santos nel 2010 le cose cambiano drasticamente. Il nuovo Direttore di Coldeportes, l'Istituto Colombiano dello Sport, Jairo Clopatofsky, inizia una campagna di promozione del ciclismo sul territorio, con importanti finanziamenti alla Federazione che consentono la costruzione di nuovi velodromi e nuovi impulsi alle squadre e alle corse storiche colombiane, su tutte la Vuelta a Colombia che torna agli splendori degli anni '80.
A questo si aggiunge il merito, da dividere fra lo stesso Jairo Clopatofsky e il suo successore Andrés Botero Phillipsbourne, di aver pensato un sistema nuovo per lanciare i giovani colombiani nel ciclismo europeo: la creazione di una squadra finanziata direttamente dal Governo, tramite Coldeportes.
Claudio Corti è un esperto direttore sportivo, senza squadra ma sempre attivo nel mondo del ciclismo. Dopo aver guidato la Saeco e poi la Lampre dal 1997 al 2005, si è dedicato a un progetto rivoluzionario: portare il ciclismo in Africa. O meglio: il ciclismo africano in Europa.
Entra così nella Barloworld, un team britannico con sponsor sudafricano. Fra il 2006 e il 2009 crescono agli ordini di Corti giovani di talento come Chris Froome, Geraint Thomas, Mauricio Soler, oltre ai sudafricani Daryl Impey, Robert Hunter e John-Lee Augustyn. I ragazzini terribili di Claudio Corti sorprendono l'Europa e non solo. Sul lavoro svolto dal DS di Bergamo si posano gli occhi attenti dei dirigenti colombiani che nel 2012 lo chiamano a guidare la nuova squadra, il Team Colombia-Coldeportes.
Quella macchietta rossa nella scarpata è John-Lee Augustyn che cerca di tornare in strada con l'aiuto di un tifoso, durante la discesa del Col de la Bonette al Tour de France 2008. La bicicletta forse è ancora laggiù, da qualche parte cento metri più in basso.
Nella nuova squadra corrono tutti i migliori giovani colombiani, guidati da Fabio Duarte, campione del mondo fra gli U-23 nel 2008. Si mettono in mostra in tante delle più importanti corse del vecchio continente e qualche nome comincia a circolare fra i taccuini dei direttori sportivi delle squadre europee: Esteban Chaves, Jarlinson Pantano, Darwin Atapuma, Rodolfo Torres, oltre ai più giovani Carlos Ramirez, Daniel Felipe Martinez e Juan Sebastian Molano.
Nel 2015 alcune scelte di gestione poco oculate portano alla chiusura della squadra. Ma al di fuori del Team Colombia ruotano altri giovani talenti in grado di competere ad altissimi livelli in Europa. Rigoberto Uran e Nairo Quintana, approdati giovanissimi alla corte di Unzué tramite percorsi differenti, e Fernando Gaviria, velocista cresciuto sulle nuovissime piste volute in Colombia da Governo e Federazione, Carlos Betancur, Sergio Henao, e tanti altri Escarabajos dai soprannomi improbabili.
Il Presente
Negli ultimi anni sono arrivati in Europa tanti giovani di buone prospettive, alcuni con le stimmate del predestinato, altri solamente a rimpolpare le fila di squadre minori a caccia di tappe alpine.
L'apripista di questa nuova generazione di talenti è Rigoberto Ciccio Uran. Nato e cresciuto in un paesino sperduto del Dipartimento di Antioquia, in una famiglia povera che non aveva neanche i soldi per comprargli una divisa. La bici gliela regalò lo zio, appassionato di ciclismo come il padre. Con quella bici Rigoberto Uran iniziò a gareggiare, con buoni risultati fino alla sua prima vittoria, a 14 anni.
Erano anni difficili in Colombia, quelli a cavallo fra i due secoli. I narcotrafficanti insanguinavano le strade fra faide, lotte intestine e regolamenti di conti. Per una famiglia come gli Uran, avere un figlio ciclista poteva significare uscire fuori da quel mondo lì, lasciarsi per sempre tutto alle spalle. Rigoberto Uran sognava di andare in Europa e portarsi dietro tutta la sua famiglia.
Ma nel 2001, tre mesi dopo la sua prima vittoria in sella a una bici, per le strade di Urrao ci fu una sparatoria, l'ennesima, fra narcotrafficanti. Tante vittime anche fra i civili. Una di queste, il signor Uran che tornava a casa dopo il suo turno di lavoro.
«Per mantenere mia mamma e mia sorella ho continuato il lavoro di papà: vendevo biglietti della lotteria per le strade del Paese», sempre in sella alla sua bicicletta. Quando può, gareggia per vincere i premi e arrotondare lo stipendio. Vince su strada ai Campionati Nazionali juniores, su pista ai Giochi Panamericani. Nel 2006 Fabio Bordonali lo chiama in Italia alla Tenax, e Uran non se lo fa ripetere due volte.
Quando ha iniziato a gareggiare era solo un ragazzino che non sapeva neanche cosa fosse una cronometro; gli avevano detto “Vai e pedala a testa bassa fino all'arrivo”. Vince la sua prima gara in Europa nel 2007 alla Euskal Bizikleta, proprio a cronometro. Nel 2008, a 21 anni, si rivela come una delle migliori promesse nel panorama ciclistico ma passeranno ancora quattro anni prima della sua completa maturazione. Nel 2012 arriva 7° al Giro d'Italia, 3° al Giro di Lombardia e si fa beffare da Vinokourov ai Giochi Olimpici di Londra, conquistando però un meraviglioso argento.
Uran si gira verso sinistra, Vinokourov gli scatta sulla destra. Quando Uran se ne accorge è troppo tardi.
Da lì in poi ci si attendeva la definitiva esplosione di un talento annunciato, ma vuoi per i suoi limiti tattici, vuoi per la sua indecisione sul dedicarsi alle Classiche o ai Grandi Giri, Ciccio non ha ancora fatto il salto definitivo per consacrarsi. Nel 2013 e nel 2014 arriva per due volte consecutive secondo al Giro d'Italia. L'anno scorso al Giro ha deluso ma si è messo in mostra nelle classiche italiane di fine stagione, cogliendo un bellissimo terzo posto al Lombardia. Troppo poco per uno che era sbarcato in Europa con aspettative così alte.
E nel frattempo altri Escarabajos più giovani di lui si sono affermati togliendogli spazio e attenzioni.
Uno su tutti: Nairo El Cóndor Quintana. Un piccolo indio con la faccia squadrata, di tre anni più giovane di Uran. La sua carriera è molto più lineare: esplode in Colombia da giovanissimo e convince Unzué a portarlo in Europa con la Movistar nel 2012. S'impone subito anche in Europa vincendo la Vuelta a Murcia e il Giro dell'Emilia, presentandosi al mondo come uno dei migliori scalatori in circolazione. Tanto che l'anno dopo, a 23 anni appena compiuti, scavalca Alejandro Valverde nelle gerarchie di squadra durante il Tour de France 2013 piazzandosi al 2° posto nella generale.
Il mondo è ai suoi piedi: è giovanissimo, è fortissimo, è serio. L'anno dopo trionfa al Giro d'Italia, il primo colombiano di sempre a riuscirci. Da lì in poi inizia la sua sfida personale contro Chris Froome al Tour de France, uscendone per ora sempre sconfitto.
L'anagrafe è dalla sua parte e non è così difficile immaginare Quintana come il primo ciclista non europeo che riuscirà a conquistare la “tripla corona”, Giro-Tour-Vuelta. Il Giro e la Vuelta se li è già portati a casa, e per questo 2017 ha deciso di tentare l'impresa che è riuscita solo a pochissime leggende di questo sport: la doppietta Giro-Tour. L'ultimo fu Pantani nel '98, il primo Coppi nel '49. In mezzo solo Merckx, Anquetil, Hinault, Indurain e Roche.
Forse non ci riuscirà quest'anno, ma il giorno in cui lo vedremo sfilare a Parigi tutto vestito di giallo è sempre più vicino.
La mamma è sempre la mamma...
Certo, non è estroverso come Uran, non sorride come Chaves, non è uomo del popolo come Herrera o Niño, ma è il primo Escarabajo a imporsi definitivamente in Europa, anche se probabilmente non sarà l'ultimo.
Perché se Uran ha aperto le porte dell'Europa ai colombiani e Quintana li ha consacrati a livelli mai raggiunti prima, un altro giovane talento della loro generazione è pronto a seguirli a ruota. Esteban Sorriso Chaves, detto “Il Colibrì”, nato a Bogotà il 17 gennaio 1990. È arrivato in Italia con Claudio Corti nel Team Colombia-Coldeportes. Sembrava dovesse esplodere da un momento all'altro quando un terribile incidente al Trofeo Laigueglia 2013 gli spezzò le ali ritardandone il volo.
Sembrava tutto finito: frattura composta di clavicola destra, mano sinistra, zigomo, seni mascellari e sfenoide. Il braccio destro che non rispondeva più agli impulsi nervosi.
Dopo sette ore di sala operatoria e dodici mesi di calvario, Esteban Chaves torna a gareggiare nel 2014 con la Orica-Green Edge, una squadra australiana che non teme di dare fiducia ai giovani, che sa aspettarli e coccolarli. La squadra perfetta per riprendersi, ritrovare la giusta confidenza con la sua bici e tornare a stupire.
È esploso l'anno scorso al Giro d'Italia quando solo un superlativo Vincenzo Nibali è riuscito a strappargli la Maglia Rosa di dosso all'ultima tappa di montagna con un numero d'altri tempi.
A ottobre ha poi dominato le Classiche italiane di fine stagione staccando tutti sul San Luca al Giro dell'Emilia e dominando il Giro di Lombardia.
Chaves quest'anno si cimenterà per la prima volta con il Tour de France. Difficilmente riuscirà a vincere, ma sicuramente potrà dimostrare definitivamente la profondità e la solidità del movimento colombiano.
Nibali ha appena tolto a Chaves quella che sarebbe stata la sua vittoria più importante. Ma il primo pensiero dei genitori del Colibrì è andare a complimentarsi con lui.
Fino a pochi mesi fa era pensiero comune che la Colombia potesse però produrre solo piccoli e tenaci scalatori. Poi è sbarcato in Europa un uomo con il fisico statuario e due gambe che fanno esplodere l'aria ogni volta che il traguardo si avvicina.
Nel gennaio 2015 Mark Cavendish è in Argentina per rifinire la condizione al Tour de San Luis, pronto a fare la sua solita indigestione di vittorie. Ma a pochi metri dall'arrivo della prima tappa, un tuono con la maglia del Team Colombia gli esplode accanto e lo brucia sul traguardo.
La stessa scena si ripete due giorni dopo. Stessi attori, stesso finale.
Fernando Gaviria ha vent'anni e ha corso sempre su pista in Colombia. Alla sua prima uscita su strada, nel gennaio 2015 al Tour de San Luis, si toglie la soddisfazione di battere in volata il Re degli Sprint, Mark Cavendish. La Etixx-Quick Step non se lo fa sfuggire e lo porta immediatamente in Europa dove in 18 mesi si è già imposto come uno dei migliori sprinter del mondo. Pochi giorni prima del Mondiale di Doha del 2016 ha trionfato alla Parigi-Tours, un'importante classica autunnale francese dedicata alle ruote veloci, con un numero “alla Cancellara”.
Un'azione assurda anche solo da pensare.
Quest'anno, ad appena 23 anni, ha già vinto tappe al Giro d'Italia indossando anche la maglia Rosa e mostrando una potenza e un'esplosività incredibili.
Gaviria è l'esempio vivente di come il lavoro fatto sulla pista sia essenziale per imporsi su strada fra i velocisti. In Colombia sono in tanti a seguire le sue orme, in Europa già da anni i migliori velocisti vengono dalla pista. In Italia, come al solito, stiamo iniziando a capirlo troppo tardi.
Il Futuro
Oltre ai quattro principali attori della scalata al successo del ciclismo colombiano, ci sono tanti piccoli pesci che colgono importanti successi sulle strade d'Europa e tanti altri piccoli Escarabajos pronti a raccogliere la loro eredità. Tanti sono ancora molto giovani e acerbi, come Egan Bernal (classe '97, passato professionista alla corte di Gianni Savio) e Daniel Martinez ('96, passato nel 2015 con il Team Colombia di Claudio Corti, ora alla Wilier Triestina-Southeast).
Uno su tutti si sta già mettendo in mostra con la maglia dell'Astana: Miguel Angel Superman Lopez. Classe '94, giovanissimo per essere già professionista ma con una classe immensa che già l'anno scorso ha messo in mostra per le strade d'Europa con la maglia Astana. Dopo un primo anno di ambientamento, normale per un ragazzo così giovane che viene da un altro continente, nel 2016 si è tolto grandi soddisfazioni dall'inizio alla fine della stagione. Ha iniziato a gennaio al Tour de San Luis battendo il suo connazionale Nairo Quintana in un arrivo in salita e ha chiuso a settembre conquistando con una splendida azione la Milano-Torino.
Nel giugno 2016 ha vinto fra lo stupore generale il suo primo Giro di Svizzera, dopo essere stato sempre coi migliori in salita ma soprattutto battendo tutti a cronometro.
La federazione colombiana da anni stimola i suoi giovani talenti a provare tutte le discipline su due ruote, dalla Mountain Bike alla Bmx passando per la pista. Una formazione che rende gli Escarabajos in grado di passare professionisti molto presto, già pronti ad essere competitivi su tutti i terreni. Non è un caso che uno come Sergio Henao, apparentemente il più classico degli scalatori, abbia dichiarato pochi anni fa di voler vincere la Parigi-Roubaix. Uno che qualche mese fa è stato in grado di portarsi a casa la Parigi-Nizza battendo Sua Maestà Alberto Contador.
Dobbiamo scrollarci di dosso l'idea di essere irraggiungibili. La Colombia ci ha osservato per anni, ci ha studiato e ha capito e migliorato i nostri metodi di allenamento.
L'anno scorso gli Escarabajos sono esplosi definitivamente, conquistando il podio al Giro d'Italia con Esteban Chaves (7° Uran, 9° Atapuma), il 3° posto al Tour de France e la vittoria alla Vuelta con Nairo Quintana (3° posto per Esteban Chaves). E poi ancora Miguel Angel Lopez al Giro di Svizzera e alla Milano-Torino, Quintana al Catalunya e al Romandia, Chaves al Giro dell'Emilia e al Lombardia, Gaviria alla Parigi-Tours.
All'appello mancano solo le Classiche del Nord e il Tour de France. A quel punto sapremo che il ciclismo ha una nuova capitale, un nuovo padrone. Forse, come si faceva negli anni '70 con i belgi, inizieremo a modificare i percorsi per cercare di non farli vincere.
Non servirà, come non servì con Eddy Merckx e Roger De Vlaeminck.