Chris Froome ha spostato ancora il limite di cosa si può e cosa non si può fare nel ciclismo. Lo ha fatto domenica vincendo la Vuelta nello stesso anno in cui ha vinto il Tour de France: un record storico, che sembrava intoccabile da quando hanno spostato l’inizio della corsa spagnola a settembre. Prima di lui c’erano riusciti solo Anquetil e Hinault, rispettivamente nel 1963 e nel 1978, ma allora si correva ad aprile, prima del Giro d’Italia, con quasi il doppio del tempo a disposizione per prepararsi.
Neanche questo però sembra avergli fatto guadagnare un po' di calore dei tifosi. Chris Froome continua ad essere il ciclista più odiato dai tempi di Lance Armstrong, e probabilmente lo è anche di più rispetto al texano. Forse perché, per quanto strana possa essere la sua storia, non può comunque competere con l'epopea di un campione del mondo che lotta contro il cancro. O forse perché Armstrong correva in un'epoca in cui lo spettacolo era assicurato da un approccio alle gare più aggressivo (permesso in parte dall'abuso di farmaci). Ed è proprio questa la cosa che tutti odiano di Froome: l'assenza di spettacolarità nelle sue vittorie.
C’è da dire che lui non è l’unico responsabile. Il Team Sky è un coacervo di potenziali capitani capaci di uccidere potenzialmente ogni corsa. Impossibile inventarsi qualcosa da lontano, perché prendono i propri avversari per usura e non appena qualcuno cerca di ribellarsi, provando la fuga, li vanno a riprendere con una facilità disarmante. Impossibile anche attaccarli nel finale, perché se non vengono Poels o Nieve o Landa o Thomas a chiudere, ci pensa Froome con tre pedalate a rientrare. La strategia più saggia è quindi quella di rimanere a ruota, sperando che qualcuno vada alla deriva da solo. Oppure trasferirsi direttamente al Team Sky.
Insomma, se nei Grandi Giri degli ultimi anni è mancato lo spettacolo, la colpa non è di certo, o almeno non solo, di Chris Froome, sempre che sia una colpa quella di ottimizzare la propria strategia di squadra per arrivare alla vittoria. Per dire, all’ultimo Giro d'Italia, da molti criticato proprio per la mancanza di adrenalina, Froome non c’era nemmeno.
Il metodo
Quando si parla delle vittorie di Chris Froome, i suoi detrattori per screditarlo tirano spesso fuori la squalifica al Giro d'Italia del 2010, quando durante la Brescia-Aprica, mentre Ivan Basso e Michele Scarponi scrivevano una delle pagine più belle del ciclismo di questo decennio, venne sanzionato dalla giuria per essersi attaccato a una macchina in salita.
Quella tappa, la penultima di uno dei Giri più duri degli ultimi anni, presentava delle asperità che sarebbero risultate indigeste a chiunque, e allora Froome non era nulla di più che un ciclista giovane e inesperto. Da quel Giro d’Italia, Froome ha avviato un’enorme trasformazione fisica, senza la quale non sarebbe mai arrivato a fare la doppietta di quest’anno. Si impara più dai fallimenti che dai successi, come si dice.
Dal 2010 Froome ha lavorato per far sparire ogni traccia di massa grassa dal suo corpo, così da andare molto più forte in salita. Come uno scultore su un blocco di marmo grezzo, ha scavato le sue braccia e le sue gambe per arrivare lentamente a un risultato ottimale. Un mutamento fisico che ha accompagnato la naturale maturazione anagrafica. Froome al Giro del 2010 aveva appena compiuto 25 anni e non aveva mai fatto grandi esperienze nel ciclismo di primo livello. Per le sue caratteristiche fisiche e tecniche, era normale aspettarsi che il picco della carriera cadesse fra i 28 e i 32 anni (così come è stato per Nibali, un corridore molto simile a Froome per caratteristiche di base).
Ma la vera rivoluzione è stata la frequenza di pedalate. Quando si presenta al Tour de France del 2012, Froome ha già lavorato sodo per riuscire a esprimere un'altissima frequenza in salita: 115-120 pedalate al minuto, contro le 90-100 che si effettuano in media. Questo significa riuscire a salvare la gamba spingendo rapporti più agili e gli consente di essere più efficace quando accelera, perché riesce a concentrare tutto lo sforzo nelle gambe senza dissipare troppa energia, alzandosi sui pedali e spingendo a una frequenza mai vista prima. Il tutto con apparente facilità.
L'esempio più famoso dell'ormai celebre “frullata”, durante la scalata al Mont Ventoux del 2013.
Una tattica molto efficace ma usurante (può provocare una rapida usura delle fibre muscolari), e che infatti Chris Froome ha progressivamente abbandonato a partire dal 2015, pur mantenendo una cadenza di pedalate più alta rispetto ai suoi avversari. È questo stile unico, unito a una potenza lipidica fuori dal normale, ad aver reso Froome il ciclista pazzesco che è oggi. E chissà se ci sarebbe diventato, senza quel Giro del 2010.
Eppure la sua unicità non gli è bastata per diventare un idolo delle folle, che ha amato ciclisti più appariscenti ma magari meno talentuosi. Froome ha continuato a fare quello che sa fare meglio: vincere continuando ad alzare il livello del suo ciclismo, forse nell’illusione che questo avrebbe potuto portargli finalmente un riconoscimento pubblico.
Il dominio placido al Tour de France
Chris Froome si era presentato al Tour de France di quest'anno con i gradi del grande favorito. Non c'era Quintana in prima linea accanto a lui, uscito malconcio dal Giro d'Italia. Contador, all'ultima recita sulle strade di Francia, era il fantasma di se stesso e i giovani avversari non erano ancora all'altezza. Bardet, Aru, Pinot e tutta la compagnia dei ciclisti nati fra il 1990 e il 1992 non si stanno dimostrando in grado di fare quel salto di qualità che ci si attenderebbe da loro, mentre i giovanissimi Miguel Angel Lopez, Egan Bernal, David Gaudu sono ancora troppo acerbi per esplodere e stanno sostanzialmente aspettando che i grandi vecchi si ritirino per emergere.
Nonostante ciò, non c’erano le condizioni ideali per un trionfo di Froome. L'infortunio di Wouter Poels lo aveva privato del suo gregario principale e Mikel Landa si è spesso dimostrato un compagno capriccioso, anche se si è poi sempre sacrificato per la sua squadra. La caduta di Geraint Thomas complicava ulteriormente le cose, lasciando che accanto a Froome nelle tappe più arcigne ci fossero solo uno spento Henao, il vecchio Nieve, con tutti i suoi limiti dettati dall'età, e proprio Landa. Anche la condizione fisica non sembrava delle migliori.
#FreeLanda è l'hashtag che ha spopolato sui social durante il Tour de France.
Anche con tutte queste incognite, comunque, nessuno è mai stato in grado di impensierirlo davvero. Fabio Aru è riuscito a sfilargli la Maglia Gialla per un giorno, ma poi è crollato definitivamente per via dei suoi soliti limiti di tenuta fisica. Bardet ha provato a smuovere le acque ma sempre con poca convinzione e senza che le gambe lo supportassero più di tanto (entrambi alla fine sono arrivati dietro a Rigoberto Uran, ciclista solido e poco più, e questo dice molto sulla distanza che divide i due da Froome).
E così a Froome è bastato limitarsi a gestire il vantaggio per portarsi a casa il suo quarto Tour de France, il terzo consecutivo, senza neanche vincere una tappa. Un dominio placido, che contrasta con la fatica estrema che di solito associamo al ciclismo e che non ha aiutato a scolpirlo nella memoria comune. Il contrario perfetto di una vittoria epica.
La rincorsa alla Vuelta
I detrattori di Froome lo hanno spesso accusato di snobbare qualsiasi altro grande giro che non fosse il Tour. Alcuni hanno persino usato questo argomento per sostenere che Froome potesse vince solo il Tour. Eppure, anche a voler escludere il trionfo di quest'anno, i risultati alla Vuelta dicono chiaramente il contrario: secondo nel 2011, nel 2014 e nel 2016; quarto nel 2012.
In realtà Froome ci ha provato per anni. Nel 2012, dopo un Tour de France da gregario chiuso al secondo posto, si è presentato alla Vuelta per vincerla, senza essere sorretto però dalla tenuta fisica. Nel 2014, dopo il ritiro al Tour durante la tappa del pavé, ha dirottato tutta la sua rabbia sportiva sulla Vuelta, senza successo, in parte per un percorso non troppo adatto alla sue caratteristiche, e d'altra parte per uno straripante Alberto Contador. Anche la Vuelta 2015 sarebbe potuta concludersi con una vittoria se una brutta caduta all'undicesima frazione non lo avesse messo fuori gioco, costringendolo, dopo un lungo calvario, al ritiro. Il 2016 doveva essere l'anno buono, ma ancora una volta Froome non è riuscito a mantenere la giusta condizione nell'arco delle tre settimane e alla fine è stato sconfitto da Nairo Quintana.
Quest'anno Froome aveva probabilmente già pensato la sua preparazione in funzione di una storica doppietta. Grazie al suo team è riuscito a vincere il Tour de France minimizzando lo sforzo fisico, e così si è presentato alla partenza della Vuelta, a Nîmes, in grande spolvero.
Dopo la terza tappa ha già conquistato la Maglia Rossa. Sugli arrivi in cima alle rampe di garage, che hanno caratterizzato il percorso di quest'anno, è sempre stato il più forte del gruppo finché, alla nona tappa, si è totlo finalmente la soddisfazione di alzare le braccia al cielo, staccando tutti i suoi avversari sulla salita di Cumbre del Sol.
Una prima settimana perfetta, corsa sempre all'attacco e puntando a staccare tutti su ogni arrivo. Ogni tappa è stata buona per misurare la febbre ai suoi avversari e sfidarsi verso nuovi limiti, spostando l'asticella delle sue performance ogni volta un po' più in là.
L'unico passaggio a vuoto è arrivato lungo la mulattiera che parte dalle campagne di Bustablado, nel mezzo del nulla della Cantabria, in un’atmosfera orientale che ricordava l’India, complice un santuario dedicato alle vacche del luogo e una pioggia torrenziale simile a quella della stagione dei monsoni.
Contador è partito come al solito da lontano, ai piedi della salita, seguito dal suo nuovo compagno di fughe, Miguel Angel Lopez. La salita è pesantissima, lunga più di 7 chilometri e resa ancora più dura dalla pioggia: Chris Froome l'ha sofferto e in cima è arrivato ad accumulare un ritardo di 1'46” dal vincitore, l'austriaco Denifl, 1'18” da Alberto Contador e 0'42” da Vincenzo Nibali che a quel punto si avvicina così pericolosamente in classifica generale. È il primo campanello d'allarme, soprattutto in vista dell'Alto de l'Angliru all'ultimo giorno.
Tre giorni dopo Chris Froome è risorto. Ai piedi dell'Angliru ha lasciato che Contador s'involasse a vincere la sua ultima tappa in carriera e, nel frattempo, si è preoccupato di controllare i suoi diretti avversari. Ha capito che se Pellizotti fa un'andatura regolare allora probabilmente Nibali non sta così bene. E mentre Zakarin e Kelderman si litigavano l'ultimo posto disponibile sul podio di Madrid, lui ha stroncato tutti ed è partito, salendo di forza e agilità su pendenze che non aveva mai digerito in carriera.
Il giorno dopo, a Madrid, è andato a sprintare per prendersi anche la Maglia Verde della classifica a punti, sublimando il fatto che, in questo momento, nel mondo, non c'è nessuno più forte di lui.
Forse Froome non riuscirà a lasciare la sua impronta nei cuori degli appassionati nemmeno con questa storica doppietta. Froome rimane, nonostante questo incredibile record, uno dei ciclisti più odiati di sempre, un antieroe. Non ha mai potuto dare per scontato il suo talento, ma ha sempre dovuto dimostrare qualcosa, portandosi ogni volta al di sopra delle critiche, sempre nuove. Gli hanno detto che non dà spettacolo, e lui ha attaccato in ogni tappa della Vuelta. Gli hanno detto che vince solo al Tour e lui ha fatto doppietta. Gli hanno detto che non sa andare in discesa e lui ha staccato tutti gli avversari giù dal Peyresourde. Gli hanno detto che non è umano e lui è diventato divino.
Una divinità odiata, fredda, maligna per molti, ma pur sempre una divinità.