Nel corso dei millenni, l’uomo ha sempre cercato di definire concettualmente degli andamenti per ingabbiare il succedersi degli eventi, alla ricerca di tratti comuni che identificassero periodi più o meno lunghi di tempo. In quasi tutti gli ambiti dello scibile umano è possibile trovare una teoria dei cicli, da quelli della cosmogonia buddista ai cicli economici, passando per l’anaciclosi di Polibio e i corsi e ricorsi di Giambattista Vico. L’arte non fa eccezione, con movimenti sempre pronti a superare il passato, reinterpretarlo, riutilizzarlo. Le avanguardie dell’inizio del XX secolo sono servite proprio come momento di ricostruzione e rinnovamento. Ed è con il Manifesto tecnico della pittura futurista, ad esempio, firmato nell’aprile 1910 da Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Balla, che il dinamismo e la simultaneità sono diventati i concetti fondamentali dell’avanguardia artistica: “Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente”.
Anche nel calcio si vivono spesso lunghi cicli tecnici. Non quelli legati ai singoli allenatori, bensì alle tendenze di base di un movimento calcistico. Basta pensare alla ricostruzione del calcio tedesco nel primo decennio del nuovo millennio, alle difficoltà brasiliane dell’ultima decade, alla grande evoluzione del calcio iberico: tutte testimonianze recenti di percorsi calcistici che esulano dalle singolarità di squadre o allenatori. In quest’ottica è interessante notare che quasi esattamente 100 anni dopo il Manifesto Futurista, quegli stessi concetti di movimento e simultaneità hanno iniziato ad essere elaborati e praticati in modo massiccio anche sul campo da calcio. Nel giro di poco più di due anni, da metà 2008 al 2010, nuovi grandi allenatori prendono il centro del palcoscenico: Pep Guardiola al Barcellona, Mauricio Pochettino all’Espanyol, Jurgen Klopp al Borussia Dortmund, mentre Thomas Tuchel lo sostituisce alla guida del Mainz e Jorge Sampaoli sta per sedere sulla panchina dell’Universidad de Chile. Allenatori accomunati da alcuni principi tanto basilari quanto rivoluzionari: simultaneità delle varie fasi di gioco, dinamismo continuo, volontà di imporre la propria strategia in campo.
L’innesco dell’avanguardia è la promozione di Guardiola ad allenatore della prima squadra del Barça, una sorta di “Bringing It All Back Home” che all’inizio sconvolge il pubblico calcistico, come l’album di Bob Dylan ha fatto con il suo pubblico introducendo per la prima volta dei suoni elettrici: un disco, in un certo senso, troppo nuovo per i suoi contemporanei. Allo stesso modo, il Barça di Guardiola suona una musica totalmente nuova rispetto alle squadre venute prima e a quelle a lui contemporanee, che però si basa sulla grande eredità tattica olandese-catalana di Cruyff. Da quel momento niente sarà più come prima: i moduli diventano “numeri di telefono”, che servono solo a fotografare un momento statico all’interno di un flusso; le varie fasi (offensiva, difensiva e le due transizioni) diventano passaggi di un unico momento continuo, si confondono e si intersecano l’uno con l’altro; il dominio del possesso palla serve a disordinare l’avversario e ordinare la propria squadra, permettendo ai giocatori di essere in posizioni ideali per la riconquista del pallone appena perso: l’azione ideale composta da 15 passaggi, affinché tutti possano partecipare e avanzare compatti; si difende in avanti, non tornando indietro; e quando schiera Messi falso nueve, portandolo al proprio massimo livello di gioco, Guardiola afferma: “Il nostro centravanti è lo spazio”. Oggi è difficile ricordarsi quanto sono sembrate provocatorie quelle parole, ma il loro valore di rottura non va dimenticato.
PER I GRAFICI: qui il movimento deve essere con Busquets in mezzo ai due difensori centrali, i due terzini salgono a centrocampo, Iniesta leggermente più avanti di Xavi e Messi che arretra dietro le due punte Henry e Eto’o. GRAFICO 1 INIZIO, GRAFICO 2 FINE
DIDASCALIA Il primo Barça di Guardiola: è solo dal celebre Real Madrid-Barça 2-6 (e poi con la finale di Champions League 2009) che Messi diventa falso nueve, scambiando la posizione con Eto’o (mentre Busquets lentamente prende il sopravvento su Yaya Touré)
In un altro campionato europeo, quello tedesco, l’avanguardia è molto più attenta al controllo degli spazi, rispetto a quello del pallone. È un calcio reattivo, in cui si pensa a contrattaccare l’avversario e a riconquistare il pallone, eppure può essere considerato come un altro filone dello stesso grande movimento tattico: quello di un calcio offensivo intraprendente, in cui si vuole prendere il sopravvento sull’avversario. Il Borussia Dortmund di Jurgen Klopp diventa l’emblema di una filosofia di gioco votata a ritmi altissimi, con una pressione infernale per la riconquista dei palloni persi nella trequarti avversaria: il cosiddetto gegenpressing (in italiano tradotto con riaggressione), da Klopp definito “Il miglior playmaker”. Riconquistare il pallone mentre l’avversario sta per dare avvio alla transizione offensiva permette di colpirlo mentre la linea difensiva è disorganizzata: per questo l’azione deve concludersi il prima possibile, per non permettere all’avversario di riprendere le posizioni. Una rivisitazione in chiave moderna di alcuni principi della Nazionale olandese di Michels, ma anche del Milan di Sacchi, che in alcune occasioni specifiche applicava già una versione di gegenpressing (come nelle semifinali contro il Real Madrid nel 1989) prima che il termine diventasse di uso comune.
Quello di Klopp è un calcio iper-verticale, in cui gli spazi sono addirittura creati dall’avversario che si scompone, ma che prevede un’applicazione maniacale della propria squadra, altissima sul campo e con posizioni ed inneschi del pressing ben definiti.
PER GRAFICI: si muove per diventare il secondo grafico, cioè l’aggressione del portatore avversario, rappresentato dal pallino bianco (dovrebbe essere un pallone graficamente)
DIDASCALIA
Dopo due stagioni necessarie a ricostruire la squadra e implementare i principi del gegenpressing, il Borussia Dortmund di Klopp vince la Bundesliga nel 2010-11
Nel frattempo, dopo aver raggiunto il vertice massimo dell’innovazione tattica con Sacchi, il calcio italiano ha elaborato e proseguito una scuola ricchissima ma che lentamente si è specchiata su se stessa, fino a perdere il senso di ciò che stava succedendo al di fuori. E così il gegenpressing, il juego de posición (gioco di posizione), gli half-spaces (spazi di mezzo), la periodizzazione tattica, a quel punto sono strumenti, concetti e metodologie sviluppati nel resto d’Europa, ma non nel campionato italiano, che rimaneva il migliore nell’escogitare il particolare, nell’elaborare il dettaglio, perdendo però la visione più ampia su identità tattica e strategia di gioco. Ma la rivoluzione era iniziata: bisognava solo aspettare l’integrazione nella solidissima, e ostile ai cambiamenti, cultura calcistica italiana.
Manifesto tattico
Il fondo forse è stato toccato nella stagione 2010-11, una delle peggiori per i club italiani in Europa: in Champions League una sola squadra arriva ai quarti di finale, in Europa League addirittura l’unica squadra a qualificarsi per i sedicesimi è il Napoli, che viene eliminato. Gli esoneri si susseguono incessantemente, ben 13 a fine stagione, e ad essere colpiti sono soprattutto gli allenatori che elaborano progetti tecnici (tra cui Ventura, Giampaolo, Gasperini, Benitez): la Serie A torna ad essere il campo di battaglia della grande scuola speculativa, con Mutti, Reja e Colomba.
Le partite diventano grandi incontri di scacchi tra squadre alla ricerca di un errore dell’avversario: una tattica quasi sempre negativa, un calcio reattivo che, al di là di poche eccezioni, viene fotografato anche dalle statistiche. La prima riguarda il numero dei gol segnati, solo 955 in stagione, record negativo nei campionati a 20 squadre. A rappresentare questa attenzione smodata, quasi un’ansia, nel non commettere errori, c’è il Chievo di Stefano Pioli, re degli 0-0: otto in tutta la stagione, circa il 20% delle partite disputate. Il Chievo dimostra come si possa disputare un buon campionato di Serie A puntando su pochi accorgimenti: difesa serrata della zona centrale del campo, con chiusura delle linee di passaggio (record di intercetti medi - 21,2 - per 90 minuti) e falli sistematici per chiudere ogni spazio (secondo per numero medio di falli), poche azioni nella trequarti avversaria (27% del totale), preferenza per le verticalizzazioni e per il gioco lungo, così da attaccare le seconde palle (quart’ultimo per numero medio di passaggi corti) e cercare spesso il cross (secondo per numero medio di cross per 90 minuti). In questo modo il Chievo arriva undicesimo, quinto peggior attacco del campionato (38 gol segnati) e quarta miglior difesa (40 gol subiti): una squadra che sa cosa fare, cioè rischiare il meno possibile.
COSTANT DIVENTA ESTERNO SINISTRO E SI FORMA UN 4-4-1-1, CON MOSCARDELLI DIETRO A PELLISSIER
DIDASCALIA
Il Chievo 2010-11 usa un falso trequartista per schermare la zona centrale e avere mobilità per le transizioni; i tre centrocampisti sono tutti in grado di coprire e inserirsi; le fasce sono bloccate e la difesa della zona centrale è affidata a una coppia solida fisicamente.
La strategia di gioco dei clivensi è reattiva, ma altre squadre in quel campionato hanno dato dimostrazione di voler puntare su un calcio pienamente speculativo, senza idee di fondo propositive che ne strutturassero l’identità in linea con il resto d’Europa. Come il Lecce allenato da De Canio, che puntava a transizioni veloci con le punte molto mobili (Jeda, David Di Michele, Edward Ofere), possesso medio ridotto al minimo e con pochissimi passaggi corti (record negativo in entrambi i casi), elevato numero di tiri concessi in area di rigore (56%, secondo peggior dato della Serie A). Insomma, il Lecce concedeva l’ingresso in area come un padrone di casa apre il salone ai suoi ospiti, per crearsi spazi utili a veloci transizioni offensive.
La seconda statistica chiave per capire quel periodo di passività tattica è il PPDA, un indice utilizzato per valutare la capacità di una squadra di pressare - un indice che, in sintesi, esprime il numero di passaggi che una squadra concede all’avversario per ogni azione difensiva, ovvero quanti passaggi una squadra lascia fare alle sue avversarie prima di effettuare un intervento che ponga fine al possesso - che raggiunge nella stagione 2010-11 il suo valore più alto in Serie A delle ultime sei stagioni. Significa, quindi, che si concedono più passaggi, e che in media le squadre aspettano e non vanno a caccia del pallone. È un campionato passivo, ma l’avanguardia è già pronta: sarà la stagione 2011-12 a buttare giù un manifesto che arriva fino ai nostri giorni e ci aiuta a capire anche la nuova Serie A. È arrivata l’ora di un calcio più offensivo, più dinamico e più propositivo. “Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido.”
Ma per portare il cambiamento nel nostro campionato c’è bisogno anche di nuovi allenatori, capaci di pensare fuori dagli schemi soliti: allora c’è Vincenzo Montella al Catania, alla sua prima vera esperienza dopo i pochi mesi in giallorosso; al suo posto, nella Roma c’è Luis Enrique, scuola Barça, per esportare i principi del gioco di posizione; c’è Eusebio Di Francesco, alla prima stagione in A, che però dura poco alla guida del Lecce; e soprattutto c’è Antonio Conte, che torna in Serie A dopo la breve apparizione nell’Atalanta 2009-10. Ad accompagnarli, c’è anche Massimiliano Allegri alla guida del Milan e Roberto Donadoni nel Parma, due allenatori che cercano gli equilibri delle loro squadre senza diventare passivi.
La stagione 2011-12 è il punto di flesso di una rivoluzione che arriva fino ai nostri giorni. Da quel momento, a cambiare non sono semplicemente le disposizioni in campo, i principi da adottare, gli strumenti tattici: anche concetti che pensavamo di conoscere bene si trasformano per assumere nuovi significati. Proprio la Juventus di Antonio Conte, in quella stagione, rappresenta il cambio di paradigma. Arrivato in Serie A con la fama di dogmatico del 4-2-4, Conte impiega pochi mesi per capire quale modulo si adatti meglio ai suoi principi, con i giocatori a disposizione: la Juve si sistema con il 3-5-2 per la prima volta in trasferta contro il Napoli a fine novembre 2011. Per paradosso è un accorgimento strategico tagliato sull’avversario. Negli ultimi mesi della stagione, Conte capisce che quel sistema è il migliore per la sua rosa e lo utilizza sistematicamente: 20 gol fatti e solo 2 subiti nelle ultime 8 giornate.
GRAFICI: qui il movimento potrebbe essere quello di mandare in avanti gli esterni, sulla linea di attacco, e creare un 3-3-4, con Vidal e Marchisio dietro ma visibilmente negli half-spaces.
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La prima versione della difesa a tre di Conte (2011-12): il segreto è nel rombo
Conte vuole disordinare gli schieramenti avversari creando spazi tra i giocatori, e il nuovo sistema sembra perfetto. La circolazione bassa del rombo di costruzione (tre difensori più il regista) permette di creare distanze verticali nell’avversario, con le linee cioè che si distanziano e si slegano; l’avanzamento dei due esterni di fascia serve ad attaccare con la massima ampiezza, creando così spaziature orizzontali nella difesa avversaria.
La difesa a tre permette non solo una perfetta uscita del pallone dalla difesa, ma anche l’innesco dei meccanismi offensivi automatici, grazie alle fionde del vertice basso, Leonardo Bonucci, e del vertice alto, Andrea Pirlo. In fase difensiva, finalmente, questo sistema non serve ad occupare l’area di rigore, ma ad andare in avanti: l’ecosistema tattico della Juventus di Conte si basa sull’aggressività immediata per riconquistare il pallone appena possibile, bloccando i punti di riferimento offensivi e chiudendo immediatamente le linee di passaggio.
Mantenere la superiorità numerica e posizionale nell’inizio azione, creare migliori spaziature in difesa per coprire gli spazi di mezzo, occupare meglio l’ampiezza in entrambe le fasi: i vantaggi di questa nuova interpretazione proattiva della difesa a tre appaiono evidenti. La Juve di Conte entra nella modernità tattica perché asseconda la tendenza del gioco di posizione a spostare la costruzione della manovra da dove era sempre stata, a centrocampo, fino al reparto arretrato; e al tempo stesso riesce a implementare alcuni moderni strumenti di reazione, come il gegenpressing.
GALLERIA DIFESA A TRE CONTE
Prima di allora, la versione italiana della difesa a tre negli anni Novanta-Duemila trasmetteva caratteristiche diverse, principalmente di attesa e reazione: il Napoli di Walter Mazzarri, forse la miglior interpretazione di questo sistema, tendeva ad accogliere l’avversario nella propria metà campo per chiudergli ogni spazio e spingerlo a sbilanciarsi. Un calcio diretto, abituato a giocare transizioni veloci in un campo grande, con un gioco sempre molto verticale; e necessariamente un sistema che allunga la squadra sul campo, in cui a brevi fasi di aggressione alta seguono lunghi momenti di attesa difensiva, con un sistema di marcature decisamente orientato all’uomo. Uno schieramento pensato non per ottenere superiorità numerica in tutte le fasi dell’azione, ma per ridurre gli spazi per gli avversari (chiudendo anche gli half-spaces) e invogliarli ad avanzare sul campo e poi attaccarli alle spalle.
Anche l’Empoli 2007-08, guidato da Gigi Cagni, saltuariamente utilizzava un sistema con tre difensori puri: proprio in quella stagione partecipava per la prima volta nella sua storia a una competizione europea, la Coppa UEFA. Al primo turno, però, vengono spazzati via dallo Zurigo, che vince 3-0 la partita di ritorno. Quel Empoli era in campo con un 5-4-1 il cui unico scopo era chiudere gli spazi per l’avversario: non concedere profondità, assorbire gli inserimenti dei quattro offensivi avversari, creare compattezza in zona centrale. Era la stessa idea di squadra che aveva raggiunto uno storico piazzamento europeo nella precedente stagione, certo. Non è una questione di risultati, ma di principi.
PER I GRAFICI Maggio e dossena che sia alzano e si abbassano a formare una vera linea a 5, con Hamsik che scala (a sinistra di Inler, che diventa centrale e Gargano diventa mezzala destra) e diventa un bel 5-3-2 netto
DIDASCALIA
Il Napoli di Mazzarri: un’altra interpretazione molto efficace della difesa a tre, nel solco della tradizione italiana. I due centrocampisti fanno da schermo davanti alla difesa, la linea aspetta spesso in difesa posizionale con l’arretramento dei due esterni.
Nel cambiamento proattivo della Serie A delle ultime stagioni, la difesa a tre diventa uno strumento per controllare il gioco e sovrastare l’avversario con il pallone: un ritorno a quella che era un’abitudine tattica degli anni ‘90 (il Parma di Nevio Scala), ma con una reinterpretazione italiana della variante olandese con i rombi di costruzione, diffusa da Cruyff nella sua epoca da allenatore del Barça. In molti cominciano a vedere questo sistema come un modello di equilibrio e la utilizzano con prospettive diverse: oltre a Mazzarri al Napoli, nella stagione 2011-12 Giampiero Ventura arriva al Torino e adotta questo sistema per ottenere più sicurezza in difesa posizionale e coprire meglio gli spazi nella propria metà campo. Nella stagione successiva, però, si arriva a una nuova interpretazione grazie alla Fiorentina di Montella, che utilizza una serie di principi tattici tipici del juego a.
Controllo del pallone
L’idea di giocare a calcio attraverso una fitta ragnatela di passaggi non è nuova: dal “combination football” della Scozia nelle ultime tre decadi del 1800, passando per la “passovotchka” della Dinamo Mosca di Boris Arkadiev degli anni ‘40, fino all’Olanda di Rinus Michels. La sistematizzazione del gioco di posizione, però, va ben oltre l’idea del possesso palla per il possesso palla. Con un processo che inizia con la guida tecnica di Cruyff al Barcellona, il sistema si evolve e si perfeziona con l’epopea di Van Gaal all’Ajax, per arrivare alla sua massima espressione di nuovo con i catalani allenati da Guardiola (tra l’altro discepolo di entrambi gli allenatori).
In breve, il gioco di posizione non si caratterizza per l’idea di controllare il pallone, che in realtà è solo uno strumento e non un fine: si vuole controllare la palla perché permette di ordinare la squadra, disordinare l’avversario e costringerlo a subire il piano di gioco, senza poter implementare la propria strategia. Per dirla con le parole di Juanma Lillo, allenatore tra i più importanti teorici del calcio di posizione, ora assistente di Sampaoli al Siviglia: “Il gioco consiste nel generare superiorità alle spalle delle singole linee di pressione avversaria. Tutto è più facile se l’uscita del pallone dalla difesa è fluida”. Per Guardiola, invece, la distinzione è ancora più facile: si definisce gioco di posizione, e non di possesso (in spagnolo l’assonanza crea quasi uno slogan: “es un juego de posición, no de posesión”), perché bisogna sapere come posizionarsi quando si ha il pallone e sapere dove pressare quando ce l’ha l’avversario.
GRAFICI: Gago scende tra i due centrali; Rosi e Taddei si alzano a centrocampo; Pjanic si alza sulla trequarti; Borini diventa seconda punta vicino a osvaldo. Così si nota anche mancanza di ampiezza e movimenti
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Lo schieramento della Roma 2011-12 travolta a Bergamo: in attacco la squadra non ha ampiezza e si fatica a creare superiorità posizionale contro una difesa schierata.
In un sistema di gioco così caratterizzato, i giocatori sono disposti a differenti altezze e lungo tutti i corridoi di gioco per creare linee di passaggio e sfruttare gli spazi di mezzo; è fondamentale la creazione di triangoli di passaggio (in modo che un giocatore abbia sempre due compagni vicini, e quindi due opzioni di gioco) e se possibile anche di rombi (tre compagni, tre opzioni); giocatori, posizioni e pallone devono muoversi in modo coordinato, e le zone di campo e i relativi compiti devono poter essere occupate e svolti da giocatori diversi all’interno della stessa partita. Un sistema molto meno dogmatico di come appare, che richiede però una preparazione meticolosa. Difesa e attacco non sono momenti separati: è l’idea offensiva e proattiva che condiziona anche la maniera di difendere. In sostanza, una squadra che utilizza i principi del gioco di posizione può difendere bene solo se ha attaccato bene, muovendosi in modo compatto e mantenendo le giuste distanze. E proprio nella stagione 2011-12 un allenatore cresciuto nella scuola catalana, Luis Enrique, prova ad applicare questi principi in Serie A.
Nonostante le buone intenzioni, l’innesto non funziona benissimo, sia per la rigidità dell’asturiano (che utilizza sempre e solo la difesa a 4, con De Rossi impegnato nella Salida Lavolpiana), sia per la rosa costruita un po’ alla rinfusa, durante la transizione della nuova proprietà americana. Il gioco associativo della Roma non raggiunge mai la sistematizzazione necessaria affinché funzioni a dovere, ad eccezione di un ottimo periodo invernale (5 vittorie di fila). I giallorossi non riescono soprattutto ad elaborare la fase di riconquista del pallone e si espongono spesso a devastanti transizioni offensive avversarie.
GALLERIA GIOCO ASSOCIATIVO ROMA (TUTTE POSITIVE MAGARI TRANNE LE ULTIME 2 O L’ULTIMA IN CUI FAI UN ESEMPIO DI COME NON FUNZIONA)
A dirla tutta, la squadra di Luis Enrique diventa quasi una degenerazione dei principi del calcio associativo: si gioca per controllare il pallone ma senza avere idee chiare su come creare superiorità posizionale, il possesso diventa davvero fine a se stesso. Nella partita contro l’Atalanta di Stefano Colantuono, maestro delle seconde palle e del calcio reattivo, la Roma perde 4-1 mostrando un grande campionario di errori. La linea difensiva sembra avere problemi di lettura delle situazioni, addirittura provando a salire quando l’avversario è libero di passare il pallone a un compagno. Peggio ancora, la squadra non si dispone bene con il pallone e non disordina quasi mai l’avversario: i giocatori in possesso sono spesso privi di opzioni di passaggio, a causa della mancanza di rotazione continua delle posizioni. Il 2-0 segnato da Denis è l’emblema di questo problema: prima Marquinho e poi Gago non hanno opzioni di passaggio e si fanno rubare il pallone da Marilungo sulla trequarti. Il servizio immediato per Denis manda l’Atalanta a un 2 vs 2 che finisce con il gol. La Roma attacca male e quindi difende male: esperimento fallito. Ma i principi del calcio di posizione introdotti e pronti per essere italianizzati.
Nella stagione successiva (2012-13) tocca alla Fiorentina di Vincenzo Montella mostrare una versione più efficace. Dopo una stagione al Catania, in cui già si erano visti molti degli strumenti tattici che lo caratterizzano, Montella rimette il pallone al centro del progetto tecnico viola, ripristinando quasi un filo diretto con l’ultima Fiorentina di Prandelli.
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La difesa a tre che diventa a quattro quando Alonso scala in difesa e i suoi compagni scivolano verso destra. A centrocampo il quadrato magico regala superiorità posizionale e opzioni di passaggio. In fase offensiva, i due esterni garantiscono la massima ampiezza mentre Kalinic attacca la profondità: l’avversario è davanti a un grande dilemma, come difendere contemporaneamente in orizzontale e verticale?
Con un atteggiamento meno diretto e verticale rispetto ai bianconeri di Conte, i viola di Montella, spesso schierati con il 3-5-2 (in alternativa con il 4-3-3) usano la circolazione del pallone dal basso per ordinare in primis la propria squadra, così da arrivare compatti nei pressi dell’area avversaria, e solo in quel momento provare triangolazioni e cercare la profondità. Anche in questa versione l’idea è di riconquistare il pallone chiudendo le linee di passaggio: senza una particolare aggressività ma semplicemente con la superiorità numerica nella zona del pallone. Tra gli esterni più usati c’era Joaquin, una vera ala d’attacco; mentre sulla sinistra Pasqual aveva il compito di basculare e formare una linea difensiva a 4 in fase di difesa posizionale.
La difesa a tre, in sostanza, interpreta anche il ruolo il cavallo di Troia, che introduce i principi del gioco di posizione in Italia: giocatori ad altezze diverse, la ricerca di un’ampiezza che apra gli half-spaces, la ricerca continua dell’uomo libero, soprattutto in zona centrale, e la creazione della superiorità numerica alle spalle della linea di pressione avversaria: tutti strumenti che sia Conte che Montella hanno usato e usano massicciamente e che iniziano a diffondersi sempre più in Serie A. La difesa a tre diventa, quindi, una grande sintesi di come la fase difensiva e offensiva siano semplicemente due momenti indivisibili e da studiare insieme: si attacca per preparare la riconquista del pallone, si difende per poter attaccare di nuovo.
Il dinamismo dei concetti si esprime nel dinamismo delle posizioni e quindi dei moduli, che non sono più gli affreschi cui eravamo erroneamente abituati: i numeri e le immagini riescono a immortalare solo un momento specifico senza descrivere più come prima un’intera squadra. Le due fasi diventano un unicum e il modulo è solo un tentativo di rappresentare il movimento. L’equivalente calcistico della scultura di Boccioni “Forme uniche della continuità nello spazio”: difficile distinguere la figura dal paesaggio che la circonda.
In questo contesto, Paulo Sousa, che subentra a Montella dalla stagione 2015-16, emerge come emblema del dinamismo tattico: difficile usare un modulo per definire la sua Fiorentina. 3-2-4-1, 3-4-2-1, 3-4-1-2, 4-3-3 sono tutte interpretazioni all’interno di una singola partita e dipendono dalle fasi di gioco. I numeri non riescono più a descrivere le squadre, servono le idee. Nella Fiorentina di Sousa il controllo e la minimizzazione del rischio sono gli obiettivi principali, attraverso diversi strumenti tattici. I viola cercano la superiorità numerica in ogni fase di avanzamento della palla, attraverso rombi e quadrilateri in grado di offrire linee di passaggio al portatore. Una delle grandi novità è che non solo si difende in avanti, ma a volte si difende anche con il pallone: il possesso in questo caso serve a minimizzare il rischio difensivo ed evitare rischiose transizioni offensive avversarie.
GALLERIA IMMAGINI: difesa a 3 Montella + PAULO SOUSA
Controllare tempo e spazio
Per cambiare il calcio italiano non bastavano le idee e gli allenatori: alla fine è pur sempre l’orchestra a suonare. Anche tra i giocatori, quindi, i segni del cambiamento sono stati lenti ma inevitabili: oggi, i giocatori della Serie A hanno caratteristiche diverse rispetto a quelli di dieci o venti anni fa. Il cambiamento dei ritmi del calcio, più aggressivo e più dinamico, paradossalmente non ci ha regalato solo giocatori mutanti, fortezze fisiche con uno strepitoso controllo del pallone. Per contrasto ci ha finalmente permesso di apprezzare un certo tipo di calciatori, che prima venivano masticati e sputati dalla durezza della Serie A. All’aumentare del dinamismo e della velocità del gioco, cioè, è corrisposto un aumento di giocatori in grado di fermare il tempo.
Come scrive Valdano nel libro “Fútbol: El Juego Infinito”, “nel calcio ci sono tre tipi di velocità: quella fisica dello spostamento da un posto a un altro [...]; quella mentale (che permette di scegliere la migliore tra molte possibilità quasi come un riflesso automatico; nel calcio, pensare rapidamente o prima di ricevere il pallone è diventato un fattore decisivo) e quella tecnica (che si chiama precisione, ed è la più importante di tutte [...]: se controllo il pallone con un solo tocco sono rapido; se passo con un solo tocco rendo la mia squadra rapida)”.
La sintesi di queste qualità mentali e tecniche è rappresentata da Sergio Busquets, il centrocampista centrale del Barcellona. Dopo l’esordio nella squadra blaugrana, il 13 settembre 2008, Cruyff ne fece un ritratto perfetto e premonitore: “Con il pallone, rende facile ciò che è difficile, riuscendo a far uscire il pallone dalla difesa con al massimo due tocchi; senza palla, ci dà una lezione, quella di posizionarsi al posto giusto per intercettare un passaggio e di correre solo il necessario a riconquistare un pallone”. Busquets è un calciatore che non mostra grandi doti atletiche in campo ma sa sempre cosa fare: cresciuto nelle giovanili del Barça, in cui il gioco di posizione viene da sempre insegnato (per arrivare a giocare nella prima squadra, un ragazzo della cantera blaugrana passa per circa 10.000 ore di allenamento con la stessa metodologia: esattamente come nella regola esplicitata da Malcom Gladwell nel libro “Fuoriclasse. Storia naturale del successo”), fa del posizionamento un’arte. Si abbassa tra i centrali per l’inizio azione; si alza per creare un triangolo quando un altro centrocampista entra nella sua zona; si muove in avanti per accorciare la squadra o scala in posizione difensiva in caso di transizione difensiva già avviata. La sua rapidità è tecnica perché, come ha detto il suo ex compagno Xavi, “Busquets fa tutto in unico tocco: controlla il pallone, osserva la disposizione dei compagni ed effettua il passaggio”.
Anche in Serie A, grazie al cambiamento tattico, hanno finalmente attecchito i giocatori con velocità mentale e tecnica spiccate. Per valutare questo sviluppo in prospettiva, basti pensare all’andamento storico dei giocatori spagnoli (che corrispondono per cultura maggiormente all’identikit sopra tracciato) in Italia, e in particolare a fine anni ‘90 inizio 2000. Mendieta, Helguera, De La Peña sono nomi simbolo di un fallimento: giocatori di altissimo livello tecnico, con grande successo nella Liga ma anche nelle competizioni internazionali, e che nel contesto tattico italiano sono sembrati smarriti, addirittura bidoni. Persino Guardiola, uno dei migliori registi nella storia del calcio spagnolo, è risultato adeguato solo per una squadra che puntava alla salvezza come il Brescia. Passato alla Roma di Capello nella stagione 2002-03, riuscì a giocare solo 202 minuti in 18 partite: praticamente niente. Troppo lento, si disse.
MOVIMENTO BORJA VALERO
Con lo sviluppo di un calcio propositivo e sempre meno reattivo, il controllo della partita diventa fondamentale: bisogna quindi riuscire a controllare i tempi del gioco, aumentare e abbassare i ritmi, aiutare la squadra a ordinare le posizioni con la circolazione del pallone. La vendetta del giocatore rapido mentalmente e tecnicamente è impersonificata da Borja Valero: un giocatore dinamico ma non veloce, eppure in continuo movimento per creare linee di passaggio. Non è un regista, non è un trequartista: è un faciliatore di gioco, è un tecnico delle luci che capisce quando alzare o abbassare l’intensità. Il segreto di Borja Valero sta tutto nel primo controllo, ai limite della perfezione, che gli consente di effettuare il passaggio quasi in unico momento: in questo modo, quindi, non solo è rapido, ma rende rapida la sua squadra. Per questo Borja Valero, arrivato nella Fiorentina nel 2012, è tutt’ora una delle eccellenze del nostro campionato, dal punto di vista tecnico e tattico.
Alla dimensione tecnica, però, va aggiunta quella fisica: in un calcio che ha bisogno di controllo, i due aspetti si intersecano sempre di più, anche in Serie A. Fino a non molto tempo fa, i giocatori in grado di dominare fisicamente non costituivano un vero vantaggio competitivo nel nostro campionato. Ne sa qualcosa Patrick Vieira, scartato da un Milan stellare a soli 19 anni, gli stessi di Pogba alla sua prima stagione nella Juventus. Per Pogba, adesso al Manchester United, la superiorità fisica è un elemento che gli permette di controllare il tempo del gioco: tenere il pallone a distanza dall’avversario, attaccare gli half-spaces, riconquistare palla a seconda del momento della squadra. Inizialmente utilizzato da Conte come regista, Pogba si è evoluto sino a diventare un giocatore in grado di svolgere bene le quattro fasi di gioco, tanto che è persino difficile paragonarlo ad altri giocatori del passato, come appunto Vieira, un grande centrocampista difensivo ma meno completo.
MOVIMENTO POGBA
Con la partenza di Pogba alla fine della sua stagione migliore, quella 2015-16, la Juventus e la Serie A perdono un elemento fondamentale: non è solo una questione di forza ma di saper utilizzare il proprio corpo come strumento sia tattico che tecnico. I giocatori molto forti fisicamente, in Serie A, hanno avuto successo solo quando la loro tecnica individuale li ha aiutati ad assecondare i movimenti: Luca Toni copriva il pallone come pochissimi altri e usava il suo fisico come strumento di posizionamento rispetto all’avversario. Quando queste qualità così diverse riescono a emergere nello stesso giocatore, allora quella squadra ha un vantaggio competitivo: perché i giocatori solo forti fisicamente in Serie A non hanno mai avuto la stessa rilevanza che in Premier League o in Bundesliga.
Perso Pogba, quindi, si apre un vuoto che può essere riempito da altri giocatori ultra-moderni: un esempio è lo sviluppo di Koulibaly, difensore in grado di sovrastare fisicamente e tecnicamente ogni avversario, ma ancora disattento in alcune letture di gioco. Giocatori che una volta sarebbero stati bollati come poco adatti al contesto tattico italiano, adesso possono fare la differenza: in un calcio in cui bisogna saper fare tutto, saper gestire la propria superiorità fisica può determinare un vantaggio competitivo.
Anche la capacità di riassumere più fasi di gioco e più ruoli è ormai diventata un elemento chiave per i giocatori d’élite del nostro campionato, e persino il ruolo di centravanti cambia. Abituati a numeri 9 che erano grandi predatori d’area (Inzaghi) e/o supereroi incontenibili fisicamente (Batistuta), abbiamo visto cambiare l’abito del centravanti sotto i nostri occhi. Gonzalo Higuain è il nuovo modello di centravanti universale. A inizio carriera, nel River Plate, viene usato come ala e seconda punta; al Real Madrid la situazione non cambia e Gonzalo diventa l’uomo che attira i difensori fuori posizione per Cristiano Ronaldo. Nel Napoli di Benitez allungava le difese avversarie per gli inserimenti delle tre mezzepunte; con Sarri a volte si travestiva da falso centravanti per portare gli avversari fuori posizione.
MOVIMENTO HIGUA
Higuain è un falso centravanti, in effetti. Falso rispetto a quelli del passato. Nessuno aveva un set di movimenti e di giocate così completo. Higuain detta i tempi di gioco, i movimenti ai compagni, ma al tempo stesso è dotato della stessa superiorità intellettuale del predatore d’area che anticipa gli eventi e del supereroe che distrugge le porte avversarie. Non ha il talento di altri grandissimi attaccanti, ma sa fare tutto, ha sviluppato il suo gioco conoscendo l’importanza di tutti i movimenti e della squadra; soprattutto ha imparato a gestire i suoi limiti. E così se fino a qualche anno fa sembrava che il calcio giocato ad alto livello potesse fare a meno del numero 9, oggi Higuain si ritrova, inaspettatamente, a incarnare l’idea stessa di attaccante moderno, su cui gli allenatori e i club europei più moderni cercano in ogni modo di mettere le mani (Lewandoski, Benzema, Luis Suarez sono esempi eccellenti).
Piccole grandi
Ma per capire l’entità del movimento di cui stiamo parlando dobbiamo fare riallargare l’inquadratura. Il cambiamento offensivo e proattivo della Serie A non è arrivato solo nelle grandi squadre, che puntano soprattutto al controllo delle varie fasi di gioco, ma anche alle cosiddette piccole. Anzi, le squadre con minore risorse si propongono con sempre maggiore convinzione addirittura come potenziale avanguardia, a dimostrazione che il calcio italiano sta andando avanti, e il ciclo storico è nella fase della ripresa.
Nella storia dell’Empoli, la Serie A è una recente novità: la prima partecipazione risale al 1986-87. Ci fu poi il grande balzo con Spalletti, dalla Serie C alla A in due stagioni dal 1995 al 1997; e addirittura nel 2006-07 il raggiungimento della qualificazione alla Coppa UEFA con Cagni. L’anno successivo però l'ebbrezza europea fece spazio alla delusione della retrocessione (con Malesani chiamato a rimediare a stagione in corso, senza successo). Da quella stagione, l’Empoli ha dovuto aspettare fino al 2014 per tornare in Serie A, ed ha avuto bisogno di un avanguardista d’eccezione: Maurizio Sarri.
GRAFICI: io farei vedere prima lo schieramento normale, poi farei apparire tutti i rombi
DIDASCALIA
I rombi dell’Empoli: necessari per garantire sempre maggiori opzioni di passaggio, tagliare le linee, occupare la zona centrale del campo e mantenere le distanze corrette, rimanendo sempre compatti nella zona del pallone
Tutti i movimenti degli undici giocatori dell’Empoli visto in Serie A nella stagione 2014-15 rispondevano all’elaborazione di uno stile di gioco propositivo, volto a determinare le condizioni della partita e non a subirle. La linea difensiva è alta e si muove in base al pallone: quando l’avversario gioca in orizzontale o indietro, la linea sale; quando si gioca in avanti, allora si abbassa. Questo atteggiamento serve a mantenere la squadra sempre compatta, in modo da aggredire l’inizio azione avversario e avere sempre densità nella zona del pallone. Ma l’aggressione dell’avversario è un’idea costante di tutta la squadra, e per farlo l’Empoli di Sarri accorciava il campo. Ovviamente la compattezza nella zona del pallone espone il lato di campo opposto, la zona debole, ma è un rischio da correre: normalmente l’avversario non riesce ad aprire il gioco sull’altra fascia. Caratteristiche ben evidenti anche nel Napoli allenato da Sarri dopo l’addio a Empoli.
L’Empoli si assicurava una circolazione rapida del pallone grazie al rombo: più linee di passaggio, circolazione più orientata alla profondità. I due attaccanti avevano il compito di muoversi molto e allargare le difese avversarie, per permettere l’inserimento del trequartista o delle mezzali. Con Giampaolo prima e Martusciello adesso, questa strada non è stata abbandonata, bensì rinforzata: l’Empoli è sul punto di definire una sua identità tattica stabile, come fosse una grande squadra europea in cui giocatori e allenatori vanno e vengono, ma i principi di gioco non si toccano.
La possibilità di uno stile di gioco così studiato, organizzato e implementato di avere la meglio su una grande squadra piena di individualità è emersa chiaramente in un Roma-Empoli della stagione 2014-15. La squadra di Rudi Garcia, associativa e proattiva almeno sulla carta, ma in realtà in involuzione tattica, coperta dalla capacità dei singoli di cambiare il contesto della partita. Quando a inizio febbraio, però, l’Empoli di Sarri si presenta all’Olimpico, il dislivello è evidente: sono i toscani a giocare il ruolo della grande. Con una pressione alta sull’inizio azione, Sarri manda in tilt il primo possesso romanista: i lanci lunghi finiscono nel nulla, visto che tutta la squadra azzurra si alza compatta, con la linea difensiva addirittura sul centrocampo. La capacità di accorciare il campo nella zona del pallone conduceva spesso i giallorossi in un imbuto senza soluzioni di passaggio, a causa anche degli scarsi movimenti sulla trequarti.
E poi c’è il rombo: con dei meccanismi di pressing scarsamente organizzati, quasi individuali, la pressione della Roma risultava vana: ogni portatore di palla empolese aveva sempre a disposizione un compagno libero per la ricezione. Con tre tocchi in verticale l’Empoli arriva facilmente in area, procurandosi un rigore e un’espulsione: alla fine ottiene solo un pareggio dovuto anche all’espulsione di Saponara, il trequartista che si inserisce negli spazi centrali aperti dai movimenti ad uscire delle punte.
Il Futurismo non si diffuse solo nei grandi centri come Milano, Firenze, Roma e Napoli, ma ebbe anche grandi momenti provinciali. Il Manifesto del movimento futurista viene pubblicato da Marinetti per la prima volta sulla Gazzetta dell’Emilia, nel 1909. Passati poco più di 100 anni, a pochi chilometri di distanza il dinamismo dell’avanguardia calcistica si è presentato in Serie A grazie al Sassuolo.
GRAFICI: Anche con il Sassuolo partirei dal 4-3-3 standard e poi farei il movimento con le catene di fascia, con Missiroli che si allarga e Magnanelli che si avvicina al portatore (Vrsaljko): le frecce tratteggiate sono i passaggi (da Vrsaljko a Missiroli che serve indietro Magnanelli che verticalizza per il taglio di Berardi). Sennò si possono evidenziare i vari triangoli, per non fare una cosa complicata.
DIDASCALIA
Sassuolo 2015-16: il triangolo come elemento basilare del gioco. L’azione tipo con cui sfruttarli prevede (prendendo ad esempio la catena di destra) l’allargamento di Missiroli, con Magnanelli che si avvicina al portatore Vrsaljko. Dal terzino la palla si muove in verticale su Missiroli che che serve indietro Magnanelli, subito pronto a verticalizzare per il taglio di Berardi.
Di Francesco è uno dei maestri di una grande tendenza della Serie A: il grande ritorno del 4-3-3. Una volta considerato il miglior modulo solo da Zeman, che parlava di perfetta occupazione geometrica del campo e di triangoli di progressione in campo, il nuovo 4-3-3 del Sassuolo rielabora molti concetti in chiave ancor più propositiva. Una squadra vorticosa, rapida, quasi meccanica per la ripetitività di certe giocate mandate a memoria, che utilizza le catene di fascia come treni contro gli avversari. La superiorità sulle fasce serve per far salire il pallone dal portiere e poi ripartire dal centro: le verticalizzazioni immediate per i tagli in zona centrale delle due ali d’attacco devono sembrare al pubblico del Mapei Stadium qualcosa di simile alla serata futurista mantovana del 1911, con le performance di disordine e declamazioni nel Teatro Sociale.
Anche quando è senza palla il Sassuolo non rinuncia ad essere proattivo, alzando la linea difensiva per accorciare il campo e le linee di pressione, con l’intenzione di spingere l’avversario verso l’esterno. L’innesco del pressing sull’inizio azione avversaria avviene solo in alcuni casi, a seguito di un passaggio laterale del difensore avversario. La linea difensiva reagisce benissimo alle varie situazioni di palla scoperta/palla coperta, alzandosi e abbassandosi di conseguenza: in tre stagioni, una neopromossa come il Sassuolo è riuscita a qualificarsi persino all’Europa League. Tra i vari fattori che hanno contribuito a questo successo c’è anche l’atteggiamento da squadra che vuole decidere il proprio destino: il futuro non si aspetta nella propria metà campo.
Di Francesco sceglie di dimostrare questo assunto direttamente a San Siro, nel gennaio 2016, contro l’Inter di Mancini, in quel momento prima in classifica. Il Sassuolo aggredisce l’inizio azione nerazzurro, avendo notato le difficoltà nell’uscita del pallone: Falcinelli scherma Medel e le due mezzali seguono quelle dell’Inter, lasciando opzioni di passaggio solo sui terzini, dove poi si addensano terzino e centrocampista centrale ed è più facile difendere. Per mantenere la squadra compatta, la linea difensiva è costretta a salire fin quasi al centrocampo: il Sassuolo vince 1-0 a Milano grazie all’idea di difendere in avanti.
Ma non è più solo una questione propositiva: persino le squadre reattive stanno cambiando pelle. Parliamo di squadre che non vogliono imporre un loro piano gara ma reagire alla strategia dell’avversario. Il miglior esempio è il Chievo di Maran, una squadra che predilige le transizioni offensive rapide, il ripiegamento sotto la linea del pallone e la verticalizzazione lunga per attaccare le seconde palle.
Eppure, non c’è passività nelle mosse dei clivensi: anche il pressing sull’inizio azione avversario è utilizzato spesso (sui rinvii dal fondo o quando il difensore in possesso torna indietro). Il Chievo sa benissimo cosa fare quando è in possesso, soprattutto quando può impostare dal basso senza pressione: si forma un quadrilatero di centrocampo, a volte un rombo, a volte un quadrato magico, che garantisce sempre molte linee di passaggio al portatore e punta a creare superiorità numerica tra le linee. Il Chievo supera l’idea di reattività nei confronti dell’avversario e lo diventa nei confronti delle situazioni di gioco: la squadra si sistema sul terreno di gioco a seconda di quello che succede nelle varie zone di campo.
SCHEMA CHIEVO MARAN
GRAFICI: PER IL MOVIMENTO, QUI LA COSA MIGLIORE SAREBBE CREARE UN QUADRATO MAGICO, CIOE’ CASTRO VA IN AVANTI, BIRSA LEGGERMENTE A SINISTRA E RADOVANOVIC LEGGERMENTE A DESTRA. I DUE TERZINI POSSONO SALIRE, LE PUNTE FANNO IL CLASSICO MOVIMENTO UNA A VENIRE INCONTRO E L’ALTRA AD ATTACCARE LA PROFONDITA’
Didascalia:
Il Chievo di Maran attacca sia in ampiezza con i terzini, sia posizionando uomini tra le linee con una sorta di quadrato magico; le due punte effettuano il classico set di movimenti, con Inglese che si abbassa e Meggiorini che attacca la profondità. Come usare lo stesso modulo (del 2010-11) con principi di gioco molto diversi.
Con la palla, ricorre spesso al lancio lungo se l’avversario gli blocca l’inizio azione, altrimenti preferisce un’uscita pulita dalla difesa e un gioco palla a terra fatto di combinazioni automatiche. Il Chievo di Maran ha quindi una propria strategia tattica definita, che non cambia a seconda dell’avversario, ma che può mostrare tante facce diverse in ogni partita, a seconda delle situazioni in campo. Ancora una volta, però, il focus si sposta: da quello che fanno gli avversari a quello che fa la propria squadra (in reazione certo alle situazioni di gioco).
Il calcio della scuola reattiva italiana è così quasi trasfigurato, stilizzato come fosse una scultura di Boccioni, come un omaggio all’artista che proprio a Chievo trovò la morte, 100 anni fa.
Prospettive future
Nel grande battere e levare del calcio italiano, questa è la fase del ciclo in cui proviamo a recuperare il terreno tattico perduto: e finalmente la scuola speculativa italiana si evolve e accoglie nuove proposte.
Il tratto distintivo di questa evoluzione è il superamento delle barriere precostituite, la fluidità delle fasi di gioco, il dinamismo non come corsa sfrenata ma come tentativo di controllare contemporaneamente spazio e tempo della giocata. Un processo che è ancora in corso, in Europa come in Italia. Forse come mai nella storia della Serie A, il campionato 2016-17 presenta un elevato numero di allenatori che questa rivoluzione la cavalcano o addirittura l’hanno iniziata; allenatori che cercano uno stile proattivo, o almeno di proporre calcio reattivo in cui non si subisce l’avversario. Basti pensare agli esordienti Roberto De Zerbi e Massimo Oddo, allenatori che applicano principi e strumenti tattici propri del gioco di posizione.
Tra le squadre che lottano per la salvezza si è arrivati addirittura alla conclusione che un’identità tattica ben definita possa essere un valore aggiunto del club: così si spiega la decisione dell’Empoli di affidare la squadra a Giovanni Martusciello, ex giocatore, assistente tecnico e infine vice di Maurizio Sarri. I giocatori e gli allenatori possono cambiare, ma i principi di gioco no: si devono evolvere secondo le caratteristiche della rosa, ma non possono essere messi in discussione. In questo, incredibilmente, l’Empoli si avvicina addirittura al Barcellona: ritenere che si possa raggiungere più facilmente un risultato attraverso un gioco propositivo, organizzato ed elaborato nel corso di anni.
Come tutti i cicli, però, anche quello del calcio proattivo potrebbe giungere alla conclusione: gli Europei di Francia 2016 sono stati un piccolo saggio di calcio speculativo, in cui molti allenatori giocavano a contenere i danni, puntavano sugli errori avversari e sull’idea di sbagliare il meno possibile. Il calcio delle Nazionali è ormai un altro mondo, però, e un torneo breve e concentrato come l’Europeo non può davvero fornire lo stato dell’arte: troppo poco il tempo per lavorare con la squadra. Potrebbe essere stato solo un episodio, quindi, non in grado di alterare l’evoluzione tattica in corso.
In circa 150 anni di calcio, dalle prime partite ufficiali tra le Nazionali di Inghilterra e Scozia, fino ai giorni nostri, le filosofie calcistiche si sono quasi sempre addensate intorno a due concetti: pallone e spazio. Da un lato chi vuole dominare il gioco attraverso il controllo del pallone, dall’altro chi ritiene che sia meglio dominare gli spazi, attaccare in campo grande, perché chi ha il pallone può commettere più errori, semplicemente.
I futuristi si erano aggrappati persino alla teoria della relatività di Albert Einstein, per affermare il concetto di simultaneità e superare la divisione tra spazio e tempo nell’arte. Nel calcio la divisione tra palla e spazi comincia ad assottigliarsi sempre più ed è proprio il tema di fondo di questa rivoluzione silenziosa: il calcio moderno è simultaneo e non permette più divisioni manichee. Nella rivoluzione dei paradossi che stiamo ancora vivendo, per attaccare meglio la costruzione della manovra ci si è avvicinati alla propria area; per difendere meglio, ci si è avvicinati sempre di più all’area avversaria.
Forse tra vent’anni tutte le squadre sapranno giocare secondo i principi del gioco di posizione, e useranno il gegenpressing per recuperare il pallone, e avranno portieri in grado di effettuare passaggi taglia linee: saranno squadre in grado quindi di usare tutti i registri di gioco possibili, a seconda delle situazioni. Ma nelle grande evoluzione del ciclo calcistico niente è davvero per sempre: arriverà un movimento di rielaborazione tattica speculativa; come per l’arte, arriverà una nuova avanguardia a scoprire cosa c’è, al di là delle frontiere di pallone, spazio e tempo.