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La Russia non va a Rio
11 lug 2016
L'esclusione dell'atletica dalle Olimpiadi non è il solo scandalo che lo sport russo deve fronteggiare. Un breve punto della situazione.
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12 min
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Il Cio ha confermato martedì 21 giugno la decisione della Iaaf di escludere la squadra di atletica leggera russa dai giochi di Rio 2016. Tuttavia la partecipazione degli atleti russi (e anche dei keniani) dovrà essere valutata caso per caso dalle federazioni internazionali delle diverse discipline. Gli atleti di tutti gli sport potranno competere alle Olimpiadi di Rio se supereranno una "valutazione individuale" per dimostrare che non hanno fatto ricorso al doping. La decisione è stata unanimemente concordata nel vertice di emergenza convocato dal Comitato Olimpico Internazionale a Losanna.

Dopo che la Wada, l'agenzia mondiale antidoping, ha dichiarato Kenya e Russia «non conformi» alle sue regole, il presidente del Cio Thomas Bach ha spiegato l'apertura nei confronti degli atleti non dopati: «Potranno affrontare i Giochi poiché i membri affiliati al comitato olimpico nazionale possono partecipare alle Olimpiadi e i comitati olimpici nazionali russo e kenyano non sono sospesi».

La condanna della Iaaf del 17 giugno 2016.

L’atletica russa dunque è fuori dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro che si apriranno il 5 agosto. Lo ha deciso il 17 giugno scorso con voto unanime («ma sofferto») il board della Federazione internazionale dell’atletica (Iaaf) e lo ha comunicato al mondo il presidente federale Sebastian Coe. 25 voti contro su 27 rappresentanti, due assenti, tra i quali il membro russo, Mkhail Butov, che a questo punto non ha futuro all’interno del collegio. Proprio nel giorno in cui Vladimir Putin dichiara che il suo Paese «non ha bisogno di una nuova Guerra fredda» riferendosi alla proroga dell’embargo economico deciso dalla Ue per la guerra in Ucraina, ma probabilmente non solo, il mondo dello sport inizia il suo personale conflitto tra Cremlino e resto del mondo.

Il provvedimento è eccezionale e senza precedenti: nel 1984 quella che ancora si chiamava Unione Sovietica disse no a Los Angeles, ma per volontario embargo. Viene così confermata la sospensione dall’attività internazionale iniziata a novembre per i tanti casi di doping insabbiati e per la corruzione dilagante tra i dirigenti. Addio Rio, addio Europei di Amsterdam di luglio, addio a tutte le rassegne giovanili e ai meeting. Sine die, anche se è trapelata la notizia che la sospensione finirà entro 24 mesi.

La task force guidata dal norvegese Rune Andersen, composta da cinque membri tra i quali anche Anna Riccardi, dirigente della preparazione olimpica del Coni, dopo mesi di lavoro ha ritenuto che molti dei 44 criteri richiesti per un’eventuale riammissione non sono stati soddisfatti. «Qualche significativo progresso è stato fatto ma la radicata cultura di tolleranza verso il doping non pare essere cambiata », si legge nel documento finale . «Il CT e molti atleti della Nazionale non sembrano capire la natura e la gravità del problema, altri continuano a ignorare le regole. Non c’è ancora una struttura che faccia da deterrente. Chi deve effettuare i controlli incontra difficoltà. Ci sono evidenze che dimostrano che il ministro dello sport ha orchestrato doping sistematico, insabbiando casi di positività. Non ci sarebbe alcuna credibilità in un ritorno della Russia sulla scena mondiale».

Ma Lord Coe è a sua volta pulito e credibile?

Credibilità è una parola che circola molto negli ambienti dell’atletica. E di certo anche la Iaaf ha i suoi problemi a riguardo: qualcuno ha detto Lemine Diack? Ma lo stesso Sebastian Coe, che dell’ex presidente è il successore, sarebbe stato eletto come nuovo alfiere dello sport pulito con i voti di membri corrotti da Papa Massata Diack, figlio di Lemine. Lo ha denunciato il programma della BBC Panorama in una delle ultime puntate (qui l’intera puntata). Siamo ancora lontani dalla serenità di giudizio.

Inoltre i pm inglesi continuano ad accusarlo di aver coperto casi di doping a carico degli stessi russi alla vigilia dei Mondiali di Mosca del 2013, quando era vice-presidente. In pratica la Iaaf condanna la Russia per un reato che tre anni prima la stessa Iaaf aveva cercato di occultare. In particolare la Federazione internazionale e la Wada ignorarono una mail inviata dalla lanciatrice del peso Darya Pishchalnikova, medaglia d’argento a Londra 2012, in cui l’atleta descriveva i trattamenti cui era stata sottoposta. E-mail ignorata per anni. La storia è stata bene raccontata dal New York Times qualche tempo fa, riscuotendo scarso interesse internazionale.

Anche l’ultima speranza di riacciuffare l’atletica squalificata definitivamente per doping dalla federazione internazionale e portarla a Rio, che era nelle mani del Comitato olimpico, è quindi naufragata. Quella mano il Cio non la tende. Anzi: «Accogliamo e rispettiamo pienamente la decisione del governo dell’atletica, conforme alla politica di tolleranza zero del Cio». Una nota secca, che ammaina il tricolore bianco blu rosso: non lo vedremo sventolare in Brasile. «L’eleggibilità degli atleti per ogni competizione internazionale, compresi i Giochi olimpici, è responsabilità delle federazioni in questione».

La Iaaf venerdì 17 giugno a Vienna è stata chiara: insufficienti le misure prese dalla Russia da novembre 2015, quando un’inchiesta indipendente della Wada (agenzia antidoping) scoperchiò un sistema di “doping di stato” che ha portato alla sospensione temporanea dell’atletica, diventata irriducibile adesso. Pochi spiragli e solo per una manciata di “individualità”: ricorrere al Tribunale dello sport di Losanna (Tas). Dimostrare di essere pulito per partecipare alle Olimpiadi come singolo rappresentante delle proprio comitato olimpico. In un primo momento si era parlato di far gareggiare tali atleti sotto la bandiera olimpica. Ma è subito parso improbabile che il presidente zar avrebbe permesso ad alcun suo atleta, si chiamasse pure Yelena Isimbayeva, di gareggiare per la bandiera a cinque cerchi come fosse un rifugiato.

Mosca piange lacrime di coccodrillo, o meglio di caimano. Il presidente Putin che ha definito «ingiusta e iniqua» la scelta della Iaaf, non è stato consolato dal suo ministro dello sport Vitaly Mutko («non c’è alcuna possibilità per i nostri sportivi di andare a Rio») né dal capo del Comitato olimpico russo Aleksandr Zhukov: «Nessuno tra i vertici russi vuole creare un precedente arrivando al boicottaggio delle Olimpiadi di Rio. Ma noi siamo pronti a ricorrere al Tribunale di Losanna (Tas, ndr)».

In trincea c’è innanzitutto la bicampionessa olimpica di salto con l’asta Isinbaeva, 34 anni, che ha definito la decisione del governo dell’atletica «una violazione dei diritti umani» e ha subito annunciato: «Mi esibisco il 20 e forse il 21 al campionato russo a Cheboksari, sarò molto felice se allo stadio non ci saranno posti liberi. Perché se il Cio non ci farà partecipare ai Giochi sarà l’ultima gara della mia carriera».

Caduta libera

Ma i problemi per Putin non finiscono qui. C’è infatti la questione aperta del meldonium che ha già estromesso dalle competizioni per due anni la principessa del tennis Maria Sharapova. Oltre allo scandalo delle mazzette alla FIFA per l’assegnazione del Mondiale del 2018. C’è poi il capitolo Olimpiadi di Sochi 2014: la testimonianza dell’ex direttore del laboratorio di analisi della Rusada (l’anti-doping made in Russia), Grigorij Rodchenkov (ricordatevi questo nome), pubblicata a maggio dal New York Times, apre scenari apocalittici.

Si parla di un programma scientifico creato per far dominare gli atleti russi sulle nevi e i ghiacci olimpici di casa, e la missione fu compiuta con un bottino finale di 33 medaglie (11 ori, 13 argenti e 9 bronzi). A Vancouver quattro anni prima erano state 15 (3 d’oro). Un programma semplicemente basato sulla manomissione di decine di provette di atleti dopati: riaperte inspiegabilmente dopo essere state sigillate e riempite con urina “pulita” prelevata prima della cura a base di medicinali e anabolizzanti. Una grande macchia che si allarga a tutto lo sport degli zar e che rischia, se non di portare all’esclusione di altre specialità a Rio, di cancellare Mosca anche dalle Olimpiadi invernali del 2018. Fausto Narducci, sulle pagine della Gazzetta del sport, è arrivato a parlare di fuoco concentrico sulla Russia.

Il “sistema” Rodchenkov.

Gli atleti dopati sono centinaia, i medici coinvolti decine così come dirigenti, impiegati e forse anche agenti del servizio segreto Fsb (Federal’naja sluzba bezopasnosti Rossijskoj Federacii). Eppure il Comitato investigativo della procura russa ha aperto un solo fascicolo penale: contro Grigorij Rodchenkov. Le sue accuse hanno creato un terremoto che le autorità hanno respinto con sdegno: «Ancora un capitolo della campagna per diffamare la Russia», è stata la posizione di Vitalij Mutko, responsabile di quel ministero dello Sport che, secondo il dottore, sarebbe l’organizzatore dei loschi traffici di provette.

Rodchenkov sapeva bene che le sue rivelazioni gli avrebbero creato problemi in patria. Così è scappato all’estero prima di parlare, come ha fatto anche il suo vice Timofei Sobolevsky. Fuggiti rocambolescamente anche i due coniugi che avevano alzato il coperchio sui traffici russi nell’atletica dopo le Olimpiadi invernali di Sochi del 2014: Vitaly Stepanov e la moglie Yulia uscirono dal Paese assieme al figlio Robert prendendo un aereo diretto a Praga per poi raggiungere la Germania. Da lì, hanno chiesto asilo politico in Canada e ora vivrebbero nascosti negli Usa.

D’altra parte, gli ultimi due capi della Rusada, la Wada russa, Nikita Kamayev e Viceslav Simenev, sono morti in circostanze misteriose a febbraio, forse poco prima di essere sentiti dagli organismi internazionali come persone informate dei fatti. Per Kamayev si trattò di un probabile infarto mentre rientrava da un sciata, mentre per Simenev le cause della morte non sono mai state rivelate.

Rodchenkov vive in California ma fino ad ora non ha avuto nessun tipo di protezione. Le cose potrebbero cambiare dopo l’incriminazione, tanto più che il portavoce di Vladimir Putin lo ha recentemente definito «un disertore» facendo tornare alla mente la sorte di altri “disertori” fuggiti all’estero. Uno su tutti, l’ex 007, poi dissidente anti Cremlino, Aleksandar Litvinenko, morto a Londra nel 2006, avvelenato con una massiccia dose di polonio 210.

Alle Olimpiadi di Sochi Rodchenkov, assieme ai suoi e a quello che forse era un agente segreto della Federal’naja sluzba bezopasnosti Rossijskoj Federacii (Fsb), lavorava in un laboratorio segreto contiguo a quello ufficiale. Agli atleti veniva data una mistura di alcool (Chivas Regal per gli uomini e Martini per le donne) e di tre steroidi. L’uomo dei Servizi provvedeva di notte a manomettere i sigilli delle fiale che ufficialmente avrebbero dovuto essere «inviolabili».

L’accusa contro Rodchenkov è di abuso d’ufficio per aver distrutto 1.437 provette con urina di atleti dopati. Inoltre c’è anche «l’aver colpito gli interessi dello Stato, danneggiando la sua reputazione e gettando discredito sulle politiche anti-doping del Paese». Solo che il tutto si basa esattamente sulle sue rivelazioni. E Rodchenkov ha spiegato di aver distrutto le provette, proprio su ordine dall’alto. Ha raccontato che da anni gli organismi russi di controllo in realtà lavoravano in un’unica direzione: trovare formule e sistemi perché gli atleti imbroglioni potessero farla franca. Perché il punto è anche questo: solo l’atletica russa è malata? E il nuoto? E gli altri sport?

Anche la vicenda dei coniugi Stepanov vale la pena i essere raccontata. Yulija Rusanova è un’ottocentista di belle speranze e vigorosa corsa: a 22 anni è sotto l’1’58’’ e per questo finisce nel “programma” di allenamento del ministero dello Sport. Ad un controllo conosce Vitalij Stepanov, tecnico del laboratorio analisi della Rusada e a lui confessa di fare uso di doping. Nel 2013 la Rusanova, uscita dal protocollo statale e senza più protezione, trovata positiva, è squalificata due anni. La lunga corsa che forse porterà Yulija Stepanova ai Giochi di Rio sotto la bandiera del Comitato olimpico internazionale parte da lì. Ma anche il suo calvario.

Nel 2011 A Daegu, Yulija chiude ultima la sua prima finale mondiale.

Ci sono un’ex dopata e suo marito, esempio virtuoso di chi impara dai propri errori, costretti a emigrare negli Usa con figlio neonato al seguito, in un luogo segreto, per sfuggire alla casistica delle morti misteriose di chi, in Russia, si è messo a parlare. Vitalij chiama la Wada e la tv tedesca Ard. Racconta tutto. Lo scandalo doping dell’atletica russa fa il giro del mondo e porta, venerdì scorso, alla sospensione sine die dell’armata delle 17 medaglie (7 d’oro) dei Giochi di Londra.

Il Cio ha preso in considerazione la candidatura di Yulija per la squadra dei rifugiati. «Faremo domanda per l’Olimpiade ma rimaniamo cauti: molto deve ancora succedere — ha raccontato Stepanov a L’Equipe dal rifugio americano —. Io e mia moglie rimaniamo due persone che danno fastidio a un sistema che fatica a cambiare mentalità e cultura». In Russia Yulija è Giuda. Non vede la madre da un anno. E insegue il suo sogno olimpico senza patria allenandosi nell’anonimato di una pista scolastica.

Tutto normale

Il clima all’interno del Palazzo di Mosca è ben poco rilassato nonostante all’esterno si cerchi di ostentare sicurezza. Ed è così che sono state grandi strette di mano e sorrisi al Forum economico di San Pietroburgo (Spief) di giovedì 16 giugno, che ha visto come protagonisti il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker, il nostro premier Matteo Renzi e una decina tra i più alti dirigenti delle aziende private e statali del Continente. Contestualmente sono arrivate le notizie delle sanzioni rinnovate contro la Crimea e la mazzata senza precedenti dell’esclusione della Federazione russa dai Giochi olimpici, che, vale la pena ricordarlo, a Londra fu capace di accaparrarsi 17 medaglie d’oro, seconda solo agli eterni rivali americani.

Vladimir Putin, rispondendo alle domande dell’editorialista economico della Cnn, Fareed Zakaria, non ha cambiato piglio e ritornello: «Non abbiamo mai appoggiato alcuna violazione o irregolarità nelle attività sportive, meno che mai a livello statale. E non lo faremo mai. Non accetteremo mai il doping né altre violazioni in questo settore e siamo pronti a collaborare con tutte le organizzazioni internazionali a questo riguardo. Se qualcuno sta cercando di strumentalizzare tutto questo a scopi politici, siamo davanti a un grosso errore».

Putin fa il rilassato e Renzi se la ride.

«Non sono sicuro di aver capito il senso di tali accuse. Mi è sembrato che il problema riguardasse le modalità del prelievo dei campioni raccolti per i test antidoping. I campioni raccolti sono sempre affidati a organizzazioni internazionali, noi non abbiamo nessuna giurisdizione a riguardo, e non vengono neppure conservati sul territorio della Federazione russa. I campioni vengono immediatamente trasferiti a Losanna o in qualche altra città, non saprei dirle quale con precisione».

Insomma, non sta succedendo niente. Mentre là fuori va tutto in fiamme.

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