Il significato della parola “critica” di per sé non è negativo, ma se per criticare devi per forza di cose definire un oggetto, e quindi porgli necessariamente dei limiti, davanti a Messi devi scalare un Everest fatto di statistiche e giocate determinanti che a prima vista, anzi anche a una seconda e una terza vista, si commentano da sole e non lasciano spazio a interpretazioni. Così come il record assoluto di gol con la maglia del Barcellona, 371 dopo la tripletta di domenica contro l'Osasuna (due in più del record precedente di Paulino Alcántara che resisteva dal 1927): Messi, a soli ventisei anni, si è già guadagnato un suo posto nella storia.
Va detto però che se da una parte Messi deve provare a riprendersi il prima possibile lo scettro di miglior giocatore del mondo dopo il sorpasso di Ronaldo, dall'altra l’impressione che si ricava dagli ultimi mesi è contraddittoria: Messi al suo meglio resta capace di cose che nessun altro può e rimane un’arma competitiva unica (anche contro il Manchester City la sua classe ha pesato); a volte però si ha la sensazione che il suo gioco stia forse cambiando (il “forse” è più che mai sentito), che la sua evoluzione e quella più generale di questo Barça singhiozzante non siano più in perfetta sincronia. A tratti sembra addirittura che il Barça con Messi abbia più possibilità di vincere ma che al tempo stesso giochi peggio. Magari Leo non rientra più nel vestito a suo tempo cucitogli addosso da Guardiola, quando l’affermazione del “più grande Barcellona della storia” andava di pari passo col progressivo spostamento di Messi nel cuore del gioco.
LA PUREZZA DI MESSI
Il mio primo ricordo di Messi è il suo esordio in Liga (non l’esordio assoluto con la prima squadra), un derby a Montjuïc con l’Espanyol, Liga 2004-2005: non la troverete su YouTube, ma se vi fidate ve la racconto. Subentrato a Giuly, al primo pallone toccato Leo da destra converge verso il centro dribblandone due e poi mette un pallone nello spazio perfetto anche se non raccolto da nessun compagno. Nell’epoca in cui era Ronaldinho a dettare legge, e il bon ton consigliava di tentare di slogarsi almeno una caviglia per dribblare e di passare guardando rigorosamente nella direzione opposta, di quell’azione mi colpì l’assenza di sovrastrutture.
Messi nasce come puro dribbling, e il gol maradoniano al Getafe (qui sopra) riassume questa prima fase della sua carriera. Il dribbling più essenziale e inappellabile che abbia mai visto: è raro che Messi ricorra al doppio passo o a qualunque ornamento per saltare l’avversario, o che indulga in numeri fini a se stessi. Una semi-infallibilità che gli è valsa il paragone con Maradona e che è costruita non solo sulle caratteristiche atletiche (baricentro basso ed esplosività sui primi metri), ma anche su una sensibilità nel contatto col pallone lontanissima da qualsiasi altro giocatore, persino da Cristiano Ronaldo. Messi muove la palla su un fuso orario di qualche decimo di secondo avanti rispetto a tutti gli altri, soprattutto in spazi stretti: il primo gol al Milan nella rimonta della scorsa Champions League, il controllo+tiro a giro sotto l'incrocio improvviso con cui sorprende Abbiati e il resto della difesa milanista, è il tipico caso in cui “questo lo fa solo lui”.
Corsi e ricorsi.
Guardando i filmati del Messi bambino nelle squadre di Rosario, si è colpiti nel riconoscere le stesse identiche movenze palla al piede trasferite su un corpicino che a malapena supera le dimensioni del pallone. In ciò, un talento letteralmente assoluto nel prescindere da qualsiasi condizionamento temporale e ambientale. Qualcosa di profondamente connaturato, di primordiale. Un’abilità più prossima all’istinto animale che alla tecnica umana frutto di apprendimento, come emerge dalle parole dello scrittore argentino Hernán Casciari:
«Gli occhi di Messi son sempre concentrati sul pallone, ma non sul calcio e sul suo contesto. Messi sembra non capire nulla del calcio [...] è come in trance, sotto ipnosi [...] Da bambino avevo un cane di nome Totín. Non lo toccava niente. Non era un cane intelligente. Entravano i ladri e restava a guardarli mentre si portavano via il televisore. [...] Tuttavia, ogni volta che qualcuno afferrava una spugna Totín impazziva. [...] I suoi occhi diventavano giapponesi, attenti, intellettuali. Come gli occhi di Messi, che cessano di essere quelli di un pre-adolescente confuso e durante una frazione di secondo si trasformano nello sguardo indagatore di Sherlock Holmes.
Messi è un cane. O un uomo-cane. [...] Incapace di dire due frasi consecutive, vistosamente antisociale, incapace di quasi tutto ciò che ha a che fare con la malizia umana. Però con un talento stupefacente nel mantenere sotto il suo controllo un oggetto gonfio e sferico e portarlo fino a una rete situata alla fine di una pianura verde. Se glielo permettessero, non farebbe altro».
Probabilmente una persona è come gioca (e il pezzo di Casciari è talmente bello che mi sento in colpa a citare il vergognoso gol di mano all’Espanyol nel 2007): se alla ricercatezza di Cristiano Ronaldo nel look fuori dal campo corrisponde un perfezionismo maniacale dentro, al Messi uomo-cane sul campo si accompagna il Messi incredibilmente banale delle interviste.
Una piattezza comunque autentica, ben diversa da quella impostata del “sognavo fin da bambino di vestire questa maglia”. Tanto autentica anzi da sfiorare in alcuni momenti il surreale. L'hobby è dormire. Giocava ai videogiochi ma da un po' lo hanno stufato, mentre nelle serie televisive succedono troppe cose e si stanca di seguirle. Un atteggiamento diverso anche dalla semplice monomania calcistica: a Messi il calcio non interessa, guarda poche partite, tantomeno riguarda le sue. A Messi interessa solo il pallone.
La tripletta contro il Real Madrid nel 2007.
I RISCHI DI RIJKAARD, LA PROFEZIA DI GUARDIOLA
All’uomo-cane viene data dal suo primo addestratore, Frank Rijkaard, la possibilità proprio di pensare al pallone prima ancora che al gioco, in una posizione nella quale può incidere senza farsi carico di responsabilità ancora eccessive per la sua età. Ala destra, molto spesso rimanendo largo ad attendere il pallone, con una partecipazione alla manovra ancora sporadica, scelte non sempre eccelse ma un’incisività nelle partenze palla al piede già senza paragoni, come dimostrato nel Mondiale Under 20 vinto quasi da solo nell’estate 2005.
Nella stagione migliore del Barça di Rijkaard, la partita che lo lancia a grandi livelli europei è l'ottavo di Champions League allo Stamford Bridge, con le accuse di “teatro” da parte di Mourinho ma anche un Del Horno, terzino sinistro blue quella sera, mandato al manicomio ed espulso dopo neanche un tempo. Un infortunio non gli permette di alzare la Coppa Campioni 2006, le due stagioni seguenti sono segnate da alcune grandi prestazioni, su tutte la tripletta nel Clásico più sgangherato della storia (il 3-3 del 2007), ma anche dal timore all’interno del club blaugrana di un “contagio” delle cattive abitudini di Ronaldinho e Deco radicatesi nella decadente fase finale di Rijkaard.
Arriva Guardiola, taglia teste prestigiose, consegna lo spogliatoio ai canterani (Xavi, Iniesta, Valdés, Puyol) e si guadagna l’eterna riconoscenza di Messi con una mossa lungimirante. La FIFA aveva dato ragione al Barça che non voleva cedere Messi all’Argentina Olimpica del 2008 (non era una competizione FIFA), quando Guardiola convince la società a mollare la presa: Messi ha vinto la medaglia d’oro, tornando ben disposto ad avverare o quasi la profezia annunciatagli dal suo nuovo tecnico: «Tu con me farai tre gol a partita».
È un Messi che continua a giocare a destra nella stagione del “triplete”, ma con un maggior protagonismo nella manovra, sia per la tendenza ad accentrarsi che per la quantità di palloni toccata dal triangolo Alves (terzino)-Xavi (mezzala)-Messi, il vero centro creativo del primo Barça di Guardiola. La stagione successiva è condizionata dalla difficile coesistenza con Ibrahimović, che sostituisce Eto’o ma con movimenti diversi, incontro al pallone, e così facendo riduce anche il campo a disposizione di Messi nei tagli da destra. Nella seconda parte della stagione Ibra è disastroso, e si assiste al paradosso di un Barcellona e un Messi che ad Almería giocano meglio quando l’espulsione dello svedese libera spazio al centro per la doppietta finale proprio di Leo. I tempi a questo punto (complice anche l'infortunio di Zlatan) sono maturi per una mossa spudorata di Guardiola, che in quel Barça 2009-2010 dalla fluidità singhiozzante decide di subordinare ogni altra cosa alla creazione dell’habitat migliore per il suo fuoriclasse: un 4-2-3-1 con la coppia Alves-Pedro che sulla destra porta via ogni raddoppio a Messi, sguinzagliato alle spalle di un mero figurante là davanti (Henry agli sgoccioli o il candido Bojan).
In questo sistema Leo sfodera la prestazione individuale forse più impressionante della storia recente, quattro gol all’Arsenal nel quarto di Champions League. La deludente semifinale contro l’Inter di Mourinho e l’ancor più deludente Mondiale (ottime le prime due con Nigeria e Corea del Sud, ma poi rendimento chiaramente decrescente e nemmeno un gol in tutto il torneo) offuscano un po’ la portata paranormale di quegli eventi, ma non fanno desistere Guardiola dal mettere Leo al centro della sua idea di gioco.
Questa è l’unica partita che chi scrive ha finora potuto vedere dal vivo al Camp Nou, e sì, mi ritengo abbastanza fortunato.
IL MIGLIOR GIOCATORE DELLA MIGLIORE SQUADRA DEL MONDO
In realtà il 4-3-3 con Messi falso centravanti si era già visto, non a caso, sia nelle gare clou della stagione del “triplete” (la finale con il Manchester United e los fusilamientos del 2 de Mayo, il 2-6 al Bernabéu), e anche nel finale della stessa Liga 2009-2010. Ma nel 2010-2011 l’idea trova applicazione sistematica e raggiunge il punto più alto della fusione di talento individuale e organizzazione collettiva. Guardiola lo spiega così: «Il mio miglior giocatore voglio che tocchi più palloni possibile, e quindi lo metto dove passano più palloni».
Al centro di questo sistema, Messi si fa forte di una consapevolezza ancora maggiore dei propri mezzi. Mentre agli inizi era quasi sempre da zero a cento in un secondo, ora Leo impara a usare il cambio di ritmo anche inverso, da veloce a… un po’ meno veloce, e capisce che in alcuni momenti prima ancora che ricorrere all’atto concreto del dribbling può sfruttarne semplicemente l’eventualità. Il suo gioco si fa più bello oltre che più ricco, e rispetto ai tempi dei primi plagi maradoniani comincia a danzare calcio. Giocando sul dribbling come mero gesto in potenza, Leo Messi comincia ad attrarre come una calamita i difensori avversari e rendere la vita molto più facile ai compagni. È al tempo stesso l’uomo in più che consolida la superiorità a centrocampo e anche l’uomo che più influisce sulla difesa avversaria, attirandola e quindi creando le premesse per i tagli a sorpresa delle ali o anche di terzini come Alves.
È chiaro che un sistema come questo dipende molto da un talento individuale fuori dal comune. Il punto più alto del Messi-sistema è forse un gol nemmeno realizzato da Messi, ma da Dani Alves, sul campo dell’Atlético Madrid nella stagione 2011-2012 (in una partita in cui pure Messi realizza uno dei gol più belli della sua carriera, tra l’altro decisivo). La cosa più sbalorditiva è il modo in cui, contro un sistema difensivo in via di consolidamento ma già tosto come quello di Simeone, Messi riceva in un fazzoletto tra le linee, si giri in un attimo, calamiti l’intera difesa “colchonera”, apra a sinistra e così faccia praticamente già mezzo gol. In quella stagione Guardiola sperimentò, con alcune prestazioni ultra-spettacolari ma mai totale affidabilità, anche un 3-3-4 con doppio falso centravanti (Messi e Fàbregas), ma pian piano stava cominciando ad affiorare qualche limite del Messi-sistema.
Il gol che meglio rappresenta il Messi-sistema.
I LIMITI DI MESSI FALSO 9
Il successo dell’idea di gioco di Guardiola era in parte basato sul presupposto che gli avversari andassero proprio a cercare, ad aggredire i palleggiatori 'blaugrana”, sostanzialmente un uomo contro uomo nella zona che il Barça eludeva facendo spuntare sempre un appoggio in più (nel video di una conferenza a Buenos Aires durante la quale Pep illustra la ragione del cambio di posizione di Messi, analizzando lo schieramento avversario, dice: «Lui prende questo, lui quest’altro»). Vieni a pressarmi alto Xavi, ti allunghi e c’è più spazio per Messi: la finale della Champions League del 2011 col Manchester United è uno dei migliori esempi della perfezione dei meccanismi di uscita del pallone dalla metà campo “blaugrana” e del vantaggio dato da Messi falso centravanti.
Gradualmente però, alcuni avversari hanno cominciato a proporre un tipo di difesa diverso, più attendista. Non andiamo a cercare subito Xavi, manteniamo difesa e centrocampo vicini e molto bassi e non usciamo su Messi coi difensori. Esempi come quello dell’Inter nella semifinale 2010 o il Chelsea in quella del 2012 hanno cominciato a rendere le ricezioni di Messi alle spalle del centrocampo avversario meno frequenti, e la creazione di vantaggi a cascata per i compagni (da Messi-calamita ai tagli delle ali, da queste alla sorpresa dei terzini: tutti per trovare il fondo dipendono dalla ricezione vantaggiosa del falso centravanti perché individualmente carenti nel dribbling) meno agevole.
Al tempo stesso è subentrato un fattore endogeno, una pericolosa abitudine dei compagni alla straordinarietà di Messi: visto che è autosufficiente, che è insieme il nostro centrocampista in più e quello che se prende palla fa gol, noi ali perché non ci limitiamo a rimanere larghe e creargli spazio per fargli fare quello che vuole? A partire dagli inizi di Vilanova, queste ali-guardalinee hanno rappresentato una degenerazione della routine creata da Guardiola. Da un sano Messi-sistema a una Messi-dipendenza francamente esagerata, dall’interdipendenza fra Messi e ali al puro vassallaggio di queste ultime.
Gradualmente, però, qualcosa ha cominciato a cambiare anche in Messi. Resta ovviamente capace di azioni in cui prende palla e saluta tutti, come quella in casa col Sevilla (giocata decisiva all’ultimo minuto di una partita fin lì pessima) o anche a Getafe in Copa del Rey, quello che invece ha limitato nell’ultimo anno, probabilmente in coincidenza coi troppi infortuni, è l’intensità e la frequenza di questi suoi spunti. Non è raro ora vedere Messi scegliersi una mattonella sul centro-destra della trequarti e da quella muoversi poco, troppo poco per tutta la partita. E talvolta più che dosare dribbling e velocità, giocare proprio sotto ritmo.
Azione individuale di paranormale routine.
Così stando le cose, Messi non riesce più a esercitare con la stessa continuità quella doppia influenza su centrocampo e difesa avversaria del suo miglior calcio. Se non influisce sui movimenti della difesa avversaria quando riceve, non attrae marcature, e se non attrae difensori non smarca nemmeno ali e terzini. Non è un caso, e non è solo per l’accomodamento nella posizione di quasi-guardalinee che le ali blaugrana ricevano larghe e poi restituiscano il pallone al centro in azioni stucchevolmente orizzontali. Il meccanismo del falso centravanti contro difese schierate è entrato in una chiara fase di stanca.
Questo Messi dall’influenza immediata sui difensori più ridotta ha giocato anche alcune ottime partite (ad esempio Málaga e Valencia in casa, nonostante la sconfitta finale) muovendosi più lontano del solito dall’area avversaria ed esercitando quasi un ruolo di regista offensivo mentre Fàbregas andava a inserirsi in area. La lontananza di Messi dall’area deve essere compensata dall’inserimento delle mezze ali o addirittura dei terzini Alba e Alves, il centrocampo si svuota e Busquets e i difensori centrali a palla persa sono costretti a un superlavoro nei recuperi laterali. E quando non vuoi scoprirti troppo allora metti Iniesta a sinistra in attacco per un possesso più difensivo, ma la coperta resta comunque corta.
UN FUTURO DA VERO 10?
Considerato ciò, se questa fosse davvero l’evoluzione di Messi, da falso centravanti a vero numero 10, il 4-3-3 pensato da Guardiola potrebbe non essere più il sistema adatto per Leo e per il Barça. Forse accomodarlo in una posizione più canonica di trequartista, in un 4-2-3-1 con un centravanti vero davanti a lui a influire sui centrali (uno tipo Jackson Martínez del Porto farebbe al caso), ridarebbe più margini di manovra. Non è un caso che la scorsa stagione, dopo la pallida prestazione di San Siro, priva di qualsiasi profondità, Messi avesse chiesto per la gara di ritorno semplicemente uno davanti a lui che impegnasse i difensori centrali avversari (e il duo Vilanova-Roura lo accontentò con David Villa). C’è anche chi suggerisce un ritorno di Messi largo a destra, perché sulla fascia ci sono meno avversari, puoi prendere palla più facilmente e quindi tornare a puntare e attirare avversari per smarcare compagni, ma Leo non ha più la forma mentis di inizio carriera, e a parte casi sporadici (il Clásico d’andata di quest’anno) non tiene la fascia neanche come riferimento iniziale, ma va subito al centro.
Quindi torniamo al 4-2-3-1 con il centravanti vero di cui sopra, magari anche senza mezze ali che svuotano il centrocampo per compensare la carenza di profondità ma anzi due mediani che conservando il buon tocco tengano di più la posizione alle spalle di Messi (tipo la Spagna con Busquets-Xabi Alonso… il Barça potrebbe accompagnare a Busquets un giocatore come Bruno Soriano), scegliendo in fase di non possesso di ripiegare senza cercare un pressing ultra-aggressivo insostenibile per i limiti d’intensità attuali di Messi e non solo di Messi. Insomma, pur restando il punto fermo del possesso-palla, un serio ripensamento del modello attuale del Barça potrebbe assecondare meglio questa ancora ipotetica evoluzione di Messi.
Anche considerando questa ipotesi tattica Messi però deve sconfessare la preoccupante impressione di scarso dinamismo emersa negli incontri recenti: che Leo non prenda tanto spesso palla fra le linee di per sé non è un dramma (perché smarcarsi spesso fra le linee in generale non è una cosa normale), perché poi può superare il centrocampo avversario col dribbling o con l’uno-due (in cui il decimo di secondo di vantaggio nel controllo e nel tocco rispetto agli avversari rimane tutto), il problema è quando non si muove nemmeno sull’asse orizzontale, da destra a sinistra. Non si muove, non smuove le posizioni degli avversari e al tempo stesso “tappa” i suoi compagni.
La tripletta con cui Messi è entrato nella storia del Barcellona.
SENZA LEO
In assenza di Messi, al ritorno dalla pausa natalizia, il Barça ha esibito un gioco decisamente brillante contro Elche (Liga) e Getafe (andata Copa del Rey) quando Fàbregas passò a fare il falso centravanti, con un continuo movimento tra le linee e orizzontale perfettamente sincronizzato con i movimenti fluttuanti di Iniesta fra centrocampo e trequarti. Cosa meno praticabile con un Messi più statico da falso 9. Contro un avversario più competitivo, però, tipo l'Atlético Madrid, il Barça senza Messi non ha creato nulla nel primo tempo e c'è stato bisogno proprio dell’ingresso dell’argentino nella ripresa per almeno suggerire un po’ di cattive intenzioni. E nel frattempo Leo aveva prontamente ristabilito le gerarchie con una doppietta in pochi minuti al rientro dall’infortunio.
Sulla carenza di dinamismo pesano anche i crescenti interrogativi sulla salute del giocatore, con le continue nausee addirittura anche in campo, come nell’amichevole con la Nazionale in Romania. Non sapendone nulla, non possiamo effettuare alcuna speculazione su questo fattore, ma non possiamo neanche non citarlo. Nella partita in Romania ha fatto impressione vedere un Messi letteralmente immobile, anche se in chiave Nazionale il quadro tattico generale sembra più incoraggiante: con due punte pure (Agüero e Higuaín) a muoversi davanti a lui e un’Argentina costruita su basi più rilassate rispetto al possesso eterno contro difese avversarie sempre schierate del Barça, Messi può trovare quegli spazi in cui ancora risulta inarrestabile quando gli avversari tentano di pressare molto alto il Barça e si allungano.
Messi continua a decidere partite così, non ultima il ritorno con il City: oltre al gol un controllo del gioco basato proprio sulle sue ricezioni alle spalle del centrocampo inglese impegnato nel tentativo di pressing alto. In fondo, se pur con tutti i difetti e i dubbi sulla validità attuale del suo sistema di gioco il Barça resta una squadra capace di snaturare e condizionare l’atteggiamento tattico di qualsiasi avversario, il colpevole principale resta Lionel Andrés Messi.