Sono passati quasi sette anni dall’assegnazione del Mondiale del 2022 al Qatar, ma la sua organizzazione fa discutere quotidianamente ancora oggi. Praticamente ogni aspetto di questo Mondiale ha creato una polemica a se stante, ognuna talmente grande e controversa da dare l’impressione di poter far collassare da sola l’intero processo.
Ci sono state prima le accuse di aver corrotto i vertici della FIFA per ottenerne l’assegnazione, accuse che avrebbero dovuto dimostrare l’inadeguatezza del Qatar a ospitare un evento di tale importanza e che invece hanno finito per azzerare i vertici del calcio mondiale. Poi le discussioni sul caldo del Golfo Persico, dove le temperature in estate superano facilmente i 40 gradi, che i vertici qatarioti avevano assicurato di poter risolvere con una non meglio precisata tecnologia di condizionamento degli stadi e che invece ha costretto la FIFA a spostare il torneo dall’estate all’inverno per la prima volta nella sua storia. Poi c’è stata la grana dei diritti TV, nata proprio per via di questo spostamento: Fox USA che si lamenta per la sovrapposizione del Mondiale del Qatar col campionato di football; la FIFA che gli concede quindi i diritti per il Mondiale 2026 alla stessa cifra di quelli per il Mondiale 2022, perdendo decine di milioni di euro. Poi al-Khelaifi, presidente qatariota del PSG e del gruppo media BeIn, è stato accusato di aver corrotto l’ex segretario generale della FIFA, Jérôme Valcke, per i diritti dei Mondiali 2026 e 2030.
Infine, ovviamente, la crisi diplomatica che ha messo il Qatar contro le altre monarchie del Golfo, con le accuse di aver finanziato il terrorismo internazionale. L’idea, prima implicita, poi espressamente dichiarata, di poter risolvere le cose rinunciando proprio al Mondiale del 2022.
Ci siamo appassionati a queste storie come a un thriller politico in tempo reale perfettamente costruito: con la storia di sfondo di un piccolissimo stato desertico che cerca di conquistare il suo posto al sole, condita dagli intrighi di palazzo di un’organizzazione che si fa corrompere in maniera grottesca e i personaggi misteriosi di una monarchia esotica.
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Ma questo è esattamente il problema che abbiamo con la narrazione del cammino del Qatar al Mondiale del 2022: raccontarlo come una serie TV alla House of Cards forse è più semplice e in qualche modo appagante, ma è solo un aspetto dell’intera vicenda. Tutto ciò che ha a che fare con l’organizzazione di un grande evento - le aspirazioni di un Paese, le reazioni della popolazione, i cambiamenti della società – è scomparso. Anzi, semplicemente non c’è.
Il nodo della struttura demografica
Questo racconto, però, non è assente solo perché più noioso da raccontare o da leggere, o perché ci sono temi che suscitano maggiore interesse al momento, ma anche perché riguarda una fetta della popolazione che è effettivamente invisibile in Qatar, un paese che ha la struttura sociale di una civiltà primordiale. Il Qatar è uno stato quasi del tutto ricoperto di sabbia grande poco meno della Campania che, all’inizio degli anni ’70, poco dopo essere diventato indipendente dalla corona britannica, si è ritrovato seduto su alcune delle più grandi riserve di idrocarburi del mondo.
Per sostenere la crescita economica che è derivata dagli introiti dell’esportazione degli idrocarburi, il Qatar ha iniziato a importare lavoratori stranieri da altri paesi, soprattutto provenienti dal sud-est asiatico. Una mossa comprensibile, dato che il Qatar negli anni ’70 contava meno di 110mila abitanti, ma che nel tempo è diventata sempre meno sostenibile. Oggi gli stranieri residenti in Qatar sono quasi il 90% della popolazione e la stragrande maggioranza di loro sono lavoratori poco qualificati impiegati nel settore delle costruzioni o dei servizi. Da un punto di vista etnico, gli indiani sono il gruppo più rappresentato (sono circa il 25% della popolazione): da soli, sono più del doppio di tutti gli abitanti di cittadinanza qatariota.
Una struttura demografica così sbilanciata si lega poi a un sistema di discriminazione istituzionalizzato in cui i lavoratori stranieri non hanno nessuna possibilità di cambiare la propria condizione sociale e sono esclusi dal godimento di praticamente qualsiasi diritto. La cittadinanza è un miraggio, visto che si ottiene quasi esclusivamente per via ereditaria, e i lavoratori sono assoggettati ai propri datori di lavoro da sistemi giuridici medievali.
È relativamente noto il famigerato sistema della kafala: i lavoratori non possono lasciare il proprio posto di lavoro, o decidere di cambiarlo, senza il permesso dei loro attuali datori di lavoro, nemmeno se subiscono soprusi o violenze. Soprusi e violenze che sistematicamente avvengono, come raccontano le dichiarazioni anonime raccolte dai report delle organizzazioni internazionali e delle ONG. I lavoratori non possono nemmeno decidere se e quando lasciare il Qatar, scelta lasciata ancora una volta ai loro datori di lavoro, che hanno il potere di requisirgli il passaporto. Questo sistema è stato riformato alla fine dell’anno scorso, ma solo formalmente, e la logica oppressiva che ne è alla base è rimasta sostanzialmente intatta.
Il buco nero dei morti sul lavoro
La struttura demografica del Qatar e il suo arcaico sistema sociale ci spiegano perché la questione dei morti sul lavoro nei siti di costruzione degli stadi e delle altre infrastrutture del Mondiale del 2022 vada oltre la semplice indignazione che un lettore occidentale può provare per le condizioni lavorative in un altro paese, ma intacchi la stessa stabilità sociale della piccola monarchia del Golfo. Il governo di Doha rappresenta una fetta di popolazione minuscola che, nonostante sia in netta minoranza rispetto al resto della popolazione, detiene la quasi totalità del potere economico, politico e sociale, che utilizza affinché questa situazione rimanga invariata.
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La paura di un cambiamento radicale all'interno della propria società, del risveglio di una maggioranza schiacciante sfruttata il più possibile, molto più del timore di vedersi il Mondiale revocato per un improbabile boicottaggio internazionale, è la ragione per cui ne sappiamo così poco. Un recente pezzo dell’Independent sulla piaga dei morti sul lavoro in Qatar per l’organizzazione del Mondiale del 2022 si apre ad esempio con la storia fittizia di Sumon, un operaio del Bangladesh che viene portato via dal suo paese con il miraggio di un lavoro ben retribuito per essere portato nel cantiere di uno stadio in uno stato di semi-schiavitù. È un modo per stigmatizzare l’assenza di storie di persone reali, intorno a questa vicenda, storie che ci permettano di creare empatia e quindi, di conseguenza, indignazione.
La realtà di questo problema va persino più a fondo di così. Perché non è solo impossibile ricostruire le facce, i nomi, che possano rendere tangibile una tragedia; è che non si riesce nemmeno a definirla, questa tragedia, a tracciarne i confini per capirne la grandezza. Innanzitutto, a più di 7 anni dalla sua assegnazione, è ancora impossibile sapere quanti lavoratori impiegati nella preparazione del Mondiale siano effettivamente morti per via delle condizioni terribili a cui sono sottoposti.
Nel maggio del 2015 il Washington Post pubblicò un report secondo cui i morti dal dicembre del 2010 erano già circa 1200 ma poco dopo fu costretto a ritrattare su pressione del governo di Doha, secondo cui «nemmeno una vita è andata persa» in connessione con l’organizzazione del Mondiale del 2022. Oggi quel pezzo è mutilato da un grosso corsivo iniziale, in cui il quotidiano statunitense ammette la propria impotenza: «In sostanza, non possiamo verificare quanti morti, se ci sono stati, siano correlati al Mondiale».
Possiamo attribuire questa lacuna anche al fallimento del giornalismo investigativo, ma è in primo luogo il Qatar che vuole tenere nascoste queste informazioni. Come segnala Human Rights Watch in un recente rapporto sulle norme inadeguate che il governo di Doha adotta riguardo agli orari di lavoro nelle ore più calde della giornata, l’ultimo anno su cui il Qatar ha rilasciato informazioni di una qualche rilevanza riguardo le morti sul lavoro è il 2012. Non solo: dei 520 lavoratori provenienti da Bangladesh, India e Nepal (i tre Paesi che “esportano” il maggior numero di lavoratori in Qatar) morti su territorio qatariota in quell’anno, del 74% non si conosce la causa di morte: il 47% sono segnalate come “causa sconosciuta”; il restante 27% come “altre cause”. Doha, insomma, non solo non rilascia informazioni sul numero dei morti, ma nella maggior parte dei casi non accerta nemmeno le cause, cosa che gli permette di dire senza possibilità di replica che nemmeno una vita è andata persa nell’organizzazione di questo Mondiale.
Ci sono conseguenze meno estreme di un sistema oppressivo che le autorità di Doha cercano di tenere il più possibile nascosto. In un report dell’ITUC (l’International Trade Union Confederation, cioè la Confederazione Sindacale Internazionale) si racconta, per fare un esempio tra i tanti, di un lavoratore condannato a tre anni di carcere e multato per quasi tremila dollari per aver chiesto il pagamento di alcuni mesi di stipendio.
A settembre un altro lavoratore, che aveva riferito della propria condizione ad una delegazione dell’ILO (l’International Labour Organization, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei diritti sociali e del lavoro) che indagava sulle condizioni dei lavoratori in Qatar, è stato licenziato solo pochi giorni dopo quell’incontro. L’ILO nel marzo del 2016 aveva intimato al Qatar di riformare il sistema giuridico della kafala, cosa che, come abbiamo visto, è avvenuto solo nella forma. Nonostante ciò, l'ILO si è dimostrata sorprendentemente comprensiva dei timidi passi compiuti del Qatar, chiudendo lo scorso 8 novembre la procedura che aveva aperto nei suoi confronti nel 2014 per le violazioni della convenzione sul lavoro forzato. In cambio, però, l'agenzia delle Nazioni Unite ha ottenuto un accordo di cooperazione di tre anni col governo di Doha in modo da monitorare gli sviluppi futuri.
Le responsabilità politiche
Sull’opacità della vicenda influisce anche la complicità degli stessi paesi di provenienza dei lavoratori, per quanto possa sembrare paradossale. L’ambasciatore indiano in Qatar, ad esempio, ha dichiarato qualche tempo fa che il numero di morti nella comunità indiana in Qatar è normale e che «per la maggior parte sono dovute a cause naturali», qualunque cosa significhi.
La motivazione è, poco sorprendentemente, economica: come ci ha ricordato la vicenda dei lavoratori nord-coreani schiavizzati nei cantieri di Russia 2018, le persone, sotto forma di forza lavoro, sono moneta di scambio per i paesi negli accordi commerciali, senza contare le rimesse (cioè i soldi che i lavoratori mandano indietro alle famiglie rimaste nei paesi di origine) che per piccoli stati come il Bangladesh o il Nepal possono avere una grossa importanza finanziaria.
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Ma la responsabilità principale è ovviamente del governo di Doha, una élite politica ristrettissima impegnata a difendere i privilegi di una minoranza etnica di cui è rappresentante. Il Qatar, il primo paese per PIL pro capite al mondo, sta cercando di coniugare la pretesa di mantenere questa enorme ricchezza solo nelle mani dei suoi cittadini con l’ossessione della diversificazione dell’economia e la volontà di assumere un peso sempre maggiore all’interno della comunità internazionale.
Il problema è che dietro il soft power sportivo, i grossi investimenti finanziari in Europa e l’impegno diplomatico per diventare un centro del turismo internazionale, c’è un sistema che la Confederazione Sindacale Internazionale ha definito esplicitamente “Apartheid”. L’utilizzo del termine “apartheid” non è importante solamente per riferirsi a un precedente storico preciso, ma soprattutto per dare un quadro giuridico definito all’interno del quale poter ricostruire l’intera situazione. E cioè, secondo la definizione dello statuto della Corte Penale Internazionale, quello di un crimine contro l’umanità “perpetrato in un contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione di un gruppo razziale su uno o più gruppi razziali, commesso con l’intenzione di mantenere quel determinato regime”.
Una segregazione che è sociale e giuridica, come abbiamo visto, ma anche reale, letterale. Nell’ottobre del 2015 il Ministero qatariota della programmazione urbana ha sancito che i dormitori per i lavoratori, dei complessi sovraffollati e in condizioni igieniche al limite, fossero posizionati fuori dalle zone residenziali centrali di Doha. Spesso ai lavoratori di basso reddito provenienti dal sud-est asiatico viene anche impedito l’accesso ai centri commerciali nei weekend e persino ad alcune manifestazioni pubbliche, come avvenuto durante il corteo per la commemorazione dell’unificazione del Qatar.
Anche il solo sospetto che si stia commettendo un crimine internazionale di tale estensione obbligherebbe, per lo meno moralmente, la comunità internazionale a indagare e intervenire in maniera molto più convinta di quanto ha fatto finora. La FIFA, poi, potrebbe cogliere l’occasione al volo per iniziare a ricostruire il suo nome, promuovendo quell’articolo 3 del suo statuto, secondo cui dovrebbe “battersi per la protezione dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale”.
Una comunità internazionale unita può produrre risultati concreti, com’è avvenuto nel caso del Sud Africa, che venne isolata anche a livello sportivo prima venendo esclusa dalle Olimpiadi del 1964 e poi venendo espulsa dallo stesso Comitato Olimpico Internazionale sei anni dopo. Non sono scelte politicamente facili e dai risultati immediati, ci sono interessi economici che è difficile ignorare anche senza additare l'ipocrisia o la corruzione del sistema. Le federazioni e le istituzioni sportive tramite boicottaggio e sanzioni possono avere un peso rilevante nell’isolare il Qatar, spingendolo verso il cambiamento. Per adesso, però, solo la federazione inglese e tedesca hanno accennato all’idea, con i loro interessi: non è un mistero che vogliano da diversi anni tornare ad organizzare un Mondiale sul loro territorio. Difficilmente, in ogni caso, si può fare peggio che accettare in silenzio una condizione così drammaticamente contraria ai diritti umani, o come minimo della totale mancanza di trasparenza al riguardo da parte del governo qatariota.
Se c’è una cosa positiva dell’assegnazione dei Mondiali del 2022 al Qatar, è proprio l’attenzione che ha iniziato a generare su un regime oppressivo che altrimenti non avremmo mai preso seriamente in considerazione. Il calcio ha un potere unico nei confronti dell’opinione pubblica internazionale e con Qatar 2022 ha un’occasione irripetibile per poterlo utilizzare: le istituzioni, le squadre, gli spettatori possono accontentarsi di essere per l’ennesima volta oggetto di un governo, accontentandosi di produrre e consumare uno spettacolo esclusivamente di campo; oppure possono prendere coscienza del proprio potere e provare a trasformare questo Mondiale in quel catalizzatore di cambiamento sociale che in teoria potrebbe essere.
Alla fine è sempre questione di scelte.