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L'ambizione del Porto
16 apr 2015
Dopo tante stagioni a fare e disfare la squadra, il Porto sembra aver avviato un progetto a lungo termine, guidato da Julen Lopetegui.
(articolo)
22 min
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Il presidente del Porto Pinto da Costa ha iniziato quest’anno un percorso che rappresenta una rottura totale con il passato. Il progetto tecnico è stato affidato ad un allenatore di scuola spagnola e i tanti giocatori provenienti dalla Liga avrebbero dovuto aiutarlo a cambiare il DNA della squadra.

Il grande Porto di Mourinho e Villas-Boas che ha dominato per anni in Portogallo (e con ottimi risultati anche in Europa) con il suo calcio diretto, aggressivo, tecnico e forte atleticamente con il tempo ha diluito sempre di più il sistema, fino a perderlo completamente e a cedere la supremazia in Portogallo al Benfica elegante e associativo di Jorge Jesus. La necessità di vendere ogni anno i migliori giocatori ha portato ad un sistema indefinito in cui l’unica cosa importante era la valorizzazione dei talenti da poter poi rivendere a fine stagione e il Benfica ne ha approfittato per scanzare i rivali in patria. «Se non si può più essere come il vecchio Porto, si può essere meglio di questo Benfica» deve aver pensato il presidente Pinto da Costa decidendo di affidarsi alla filosofia associativa di scuola spagnola, basata su un gioco di possesso che coinvolge tutti i giocatori nella manovra.

Un desiderio irrealizzabile di una lega iberica

La strada seguita dal Porto sembra sposarsi con uno dei miei desideri calcistici irrealizzabili, quello di una fusione tra la Liga spagnola e la Liga portoghese in un campionato unico che, in attesa di uno sponsor, si potrebbe chiamare Liga iberica. Probabile che Barcellona e Real Madrid dominerebbero anche in questo caso, ma quanto sarebbe bella la lotta per la Champions tra Atlético Madrid, Benfica, Porto, Siviglia e Valencia? E il fatto che per l’Europa League il Villarreal debba vedersela anche con lo Sporting Lisbona?

Ormai la Premier League sta prendendo il largo in quanto a diritti TV e “marchio” e la Liga Iberica potrebbe essere un tentativo di diminuire il distacco e creare un’alternativa credibile che non sia il lento avvicinamento alla Superliga europea. Con i campionati nazionali minori in declino l’idea sarebbe anche esportabile in altre regioni d’Europa, come un campionato belga-olandese, uno scandinavo o uno svizzero-austriaco già che ci siamo. Ma forse mi sto lasciando prendere la mano.

Nel basket la cosa già funziona con la Lega Adriatica (in cui si scontrano club dell’ex Jugoslavia più quelli ungheresi) perché non esportarla nel calcio europeo? Il presidente della UEFA Platini ne ha parlato ormai cinque anni fa: «Nell’ex Jugoslavia c’erano delle partite fantastiche. Ora tutto è diviso. Per questo ho proposto una Lega balcanica. Unire i Paesi Bassi e il Belgio è un’altra idea, per adesso non possiamo farlo per via dello statuto della UEFA, ma è qualcosa che dobbiamo studiare per rendere il calcio europeo più forte possibile».

I conservatori nel calcio però sono molti di più (non ci credo che ancora si possa discutere di utilità o meno della tecnologia nel calcio…) e l’idea è morta prima ancora di nascere. Come molto probabilmente succederebbe con la Liga iberica, per quanto intrigante possa apparire.

L’architetto del nuovo sistema

Per guidare la rivoluzione Pinto da Costa ha scelto l’allenatore della Spagna U21, Julen Lopetegui, a cui ha dato poi carta bianca per scegliere i giocatori da cui ripartire. Il basco è un ex portiere dalla buona carriera (una presenza in Nazionale e riserva nel Barcellona degli anni novanta) divenuto famoso in Spagna per essere svenuto in diretta durante un programma dei Mondiali 2006.

Ha guidato la nuova generazione vincendo un Europeo U19, battendo in semifinale la Francia di Pogba e un Europeo U21 dopo aver distrutto l’Italia nella finale di un torneo dominato. Tutta la nuova generazione, quella di Isco e Koke per intenderci, prima di esplodere in Liga, è stata allenata da Lopetegui.

Ad essere precisi, Lopetegui ha allenato due Nazionali spagnole: quella U21 che dominava il possesso con Thiago, Illarramendi, Koke e Isco e quella U19 (che poi ha guidato al Mondiale U20 successivamente), molto più diretta e legata al talento di Jesé, Óliver Torres e Deulofeu. Lopetegui quindi ha mostrato di saper gestire sia un gruppo tipicamente di scuola spagnola, che un ibrido guidato da talenti ancora acerbi.

Pinto da Costa l’ha scelto soprattutto per importare a Oporto il sistema vincente dell’U21. «Abbiamo riposto in lui totale fiducia e per questo l’abbiamo firmato per tre stagioni, così potrà costruire una squadra solida che ci darà un futuro brillante» così Pinto da Costa ha introdotto Lopetegui ad Oporto, chiedendogli quindi di costruire una squadra giovane. «Quando ho ricevuto l’offerta ho capito che volevano costruire un modo di intendere il calcio. Per questo si acquistano 16 giocatori nuovi. È la rosa più giovane della storia del Porto, con un’età media di 24 anni. Questa cosa lo rende un progetto molto attraente».

Un allenatore abituato a lavorare con i giovani a guidare una squadra con molto talento potenziale: «Essere didattici fa parte del lavoro dell’allenatore. Far in modo che il giocatore capisca il perché delle cose che si fanno e che soluzioni necessitano determinati problemi”.

Lopetegui è il portiere in alto a sinistra in questa foto dei festeggiamenti della Supercoppa 1996/97. Quel Barcellona è servito da laboratorio di tattica per una generazione intera di futuri allenatori come Mourinho e Guardiola (che si abbracciano in alto a destra, in una posa che oggi sembra impensabile), ma anche Blanc (in ginocchio in basso a destra) , Luis Enrique (il primo in piedi da sinistra con la maglia del Barça) e altri. Escluso Mourinho tutti i nominati hanno raggiunto i quarti di Champions League quest’anno.

Gli unici giocatori arrivati in estate con un profilo di acquisto vicino al Porto vecchio stile sono Martins Indi dal Feyenoord e Otavio dall’Internacional: un centrale olandese fresco di un ottimo Mondiale con gli occhi delle squadre di Premier già addosso e un giovane progetto di fenomeno brasiliano da sviluppare. Sono arrivate anche vecchie conoscenze di Lopetegui come Tello, Campaña e Óliver Torres, allenati nelle giovanili della Spagna, e giocatori che il tecnico conosce bene come Brahimi dal Granada, Ádrian dall’Atletico Madrid e Casemiro dal Real Madrid.

In totale sono 11 gli spagnoli in rosa tra giocatori e corpo tecnico. Per Lopetegui questo però non è argomento di discussione: «Per me non ci sono nazionalità nel Porto. I giocatori, da qualsiasi parte vengano, sono trattati, classificati e gli si chiede la stessa cosa. Detto questo, ci sono una serie di circostanze che portano ad avere più giocatori, com’è logico, a me affini e che provengono dal mio paese. Però niente di più. Il calcio è universale» dice a Marca.

Non si può negare però che la presenza di giocatori che si conoscono ha aiutato a limitare il periodo di adattamento nella nuova realtà. La natura didattica del lavoro di Lopetegui esce fuori tra le righe di alcune sue interviste, come quella con El Pais: «Il giocatore apprende per ripetizioni e per scoperta spontanea. Quando si presenta la situazione della partita che hai simulato con gli esercizi, si attiva la risposta automatica. Vogliamo rendere i movimenti automatici, però la linea è molto sottile e se la superi puoi ammazzare la creatività. Il giocatore deve avere le risorse per aiutarsi nelle difficoltà rimanendo però sempre sé stesso. Non si tratta di un videogioco, il giocatore deve sentirsi libero. Prendere decisioni non è un diritto, è un’esigenza». Lopetegui ha l’aria da maestro di calcio consumato, nonostante sia solo ad inizio carriera. «Io voglio che la mia squadra sappia fare tutto bene. Questo ti porta a voler attaccare e difendere sempre meglio. Per questo voglio che i ragazzi siano capaci di capire il gioco. Spesso si dà per certo che i giocatori capiscano completamente il gioco, ma non è così».

Il nuovo sistema

«Non è facile dare soluzioni differenti a difficoltà differenti. La bravura della tua squadra dipende dalle soluzioni che sanno dare i tuoi calciatori». Il sistema quindi deve essere strutturato e mandato a memoria dai giocatori, così che poi in campo ci sia libertà totale nel prendere la decisione che si ritiene più appropriata alla situazione contingente. Un concetto che aiuta i giovani in rosa a sentirsi non solo istruiti ma anche responsabilizzati una volta in campo.

Il sistema del Porto mira al controllo del pallone, e quindi anche del campo. Per poterlo mettere in pratica la squadra deve giocare aperta, così da costringere gli avversari a spostarsi dal centro e a disporsi su altezze di campo differenti, in questo modo si garantiscono linee di passaggio sempre libere. Il movimento senza palla è fondamentale e il modulo di base è il geometrico 4-3-3, che garantisce appunto ampiezza e profondità.

I giocatori stanno in campo con un buon equilibrio tra disciplina tattica e libertà creativa. Chi gioca conosce bene il proprio compito: a quel punto può decidere se aderirvi completamente o prendersi più libertà. Le tante variabili a disposizione permettono a Lopetegui profili tattici differenti a seconda del contesto, secondo il paradigma del calcio di possesso non possono esistere giocatori dal profilo identico—con le stesse caratteristiche—nella squadra.

La palla è al centro e i due esterni, Brahimi e Tello, giocano il più largo possibile e sulla linea del fuorigioco per garantire ampiezza e profondità alla squadra. Qui, contro lo Sporting, Tello sfrutterà benissimo lo spazio a disposizione, segnando una tripletta per il 3-0 finale.

Il calciomercato estivo ha costruito una squadra con esterni veloci, capaci di dare profondità, un centrocampo dai compiti definiti e una difesa che sa stare alta e gestire gli spazi. I dettami per ogni ruolo non cambiano, anche se cambiano le caratteristiche dei giocatori, che sono principalmente due: capacità con il pallone e capacità di lettura degli spazi. «Lo spazio non si regala. Devi lavorare per averlo. E quando ce l’hai devi saperlo sfruttare. A volte puoi correre di meno e a volte di più perché anche gli avversari possono avere l’iniziativa. Per questo il giocatore deve essere capace di capire sempre meglio il gioco». Per giocare bisogna disporre di almeno uno di questi due fondamentali.

Se guardiamo il centrocampo utilizzato da Lopetegui capiamo meglio l’idea. Nel 4-3-3 di Lopetegui c’è un centrocampista centrale con compiti difensivi e di aiuto nella distribuzione del pallone; una mezzala di possesso (solitamente a sinistra) e una di quantità (solitamente a destra). È stato così nell’U21 con Illarramendi dietro Thiago e Koke e lo è nel Porto con Casemiro dietro Óliver Torres e Hector Herrera.

Casemiro è un brasiliano dall’ottimo fisico e dalla buona tecnica, viene utilizzato principalmente per la capacità di coprire il campo anche in orizzontale per recuperare il pallone. Un fondamentale che abbiamo visto brillare ieri contro il Bayern: 7 tackle vincenti e 7 palloni recuperati.

Il recupero del pallone ovviamente è una parte fondamentale del controllo del possesso e degli spazi: «Non capisco quelli che dicono che giocano di contropiede. Per giocare di contropiede si ha bisogno degli spazi e sarebbe assurdo dire che una squadra non vuole sfruttare gli spazi perché non gioca di contropiede. Allo stesso modo, quando siamo nella metà campo avversaria e perdiamo il pallone, vogliamo essere molto aggressivi. Rubare il pallone è uno strumento offensivo quando la squadra avversaria sta strutturando la giocata perché lì sì che tu hai gli spazi».

Tutti i giocatori della catena di destra sono andati in pressione per rubare il pallone, il Basilea è riuscito ad uscire dal pressing ed ecco allora Casemiro che raggiunge i compagni per aiutare a sua volta il recupero della palla. Il brasiliano è fondamentale per la capacità di giocare in aiuto lungo tutto l’asse orizzontale del campo.

La necessità di rubare il pallone per attivare gli spazi non è niente di nuovo ad Oporto, già Mourinho vi aveva applicato una grandissima macchina da pressing, sublimata poi dalla squadra del 2011 di Andrè Villas-Boas.

Quel che è nuovo è la premessa di avere prima di tutto il possesso del pallone. Possesso che si mantiene principalmente attraverso scambi tra centrocampo ed esterni. La mezzala di possesso è un ruolo spartito tra la promessa delle giovanili dell’Atletico di Madrid Óliver Torres e la promessa delle giovanili del Porto Rúben Neves; l’esterno di possesso è la stella della squadra, Brahimi.

Óliver Torres quando è in campo dà continuità al possesso, giocando sempre fronte alla porta. Il talento nella lettura delle linee di passaggio consente al Porto di avere sempre un appoggio per ricominciare la manovra. Quando le combinazioni non sono abbastanza fluide Torres può anche sfruttare la sua capacità di cambiare gioco. Non è un regista. Non controlla i tempi di gioco, ma li detta come un metronomo, accompagnando la squadra più che guidandola. È l’ingranaggio principale del sistema quando la squadra ha il possesso.

La crescita sotto Lopetegui è evidente anche nel dispendio fisico che ha in fase di non possesso, dove si impegna al massimo per aiutare il recupero del pallone. Con la palla palla però è molto più utile alla squadra.

Nel caso di assenza di Óliver, il preferito da Lopetegui come centrocampista di possesso è Rúben Neves, un ragazzo di 18 anni promosso dall’allenatore in estate dalle giovanili.

Neves è inaspettatamente stato investito di responsabilità in fase di possesso. Tecnico e dal buon fisico, ha già 19 presenze in campionato e 6 in Champions League. Lopetegui si è trovato in casa un giocatore perfettamente in grado di capirlo, che potrebbe diventare il protagonista del progetto probabilmente già dalla prossima stagione.

All’appello manca il giocatore più importante nel centrocampo del Porto, o forse meglio dire quello che sta uscendo fuori in modo più evidente da questa stagione. Reduce da un grande Mondiale, Hector Herrera rientra nella tradizione dei centrocampisti a tutto campo che hanno giocato nel Porto (penso a Deco sotto Mourinho e Moutinho sotto Villas-Boas): aiuta la squadra tappando ogni buco del sistema grazie al dinamismo e alla capacità di movimento senza palla.

Il sistema di Lopetegui lo aiuta, lasciandogli grande libertà di spostarsi su un’enorme porzione di campo. Herrera è un giocatore insostituibile, vero motore della squadra. Gioca con grande velocità le fasi di transizione e guida i tempi di recupero della palla, tecnico da mantenere la circolazione di palla pulita. La sua tendenza a muoversi molto per il campo garantisce la ricerca di “altezze diverse” sul campo che l’allenatore basco vuole per mantenere il possesso. Se per Lopetegui è importante scegliere la soluzione adatta alle diverse problematiche, Herrera raramente dà l’idea di non saper fronteggiare il problema contingente, dimostrando una maturità superiore ai 24 anni di età.

Quando Lopetegui parla di avere libertà nelle decisioni probabilmente si riferisce a Yacine Brahimi. L’algerino è arrivato come uno dei migliori dribblatori della Liga, ma al Porto ha scoperto di saper anche prendere decisioni complesse, partecipando di più al gioco rispetto a quanto la carriera avrebbe fatto presagire.

Gli anni in Liga hanno stampato su Brahimi l’etichetta del genio superfluo, del dribblomane bello per le compilation di YouTube con “skills” nel titolo (ho preso la prima che ho trovato, ma sono sicuro ce ne siano a decine con musiche anche più irritanti). Quello visto in questa stagione al Porto è un giocatore vero, capace anche di segnare gol importanti.

Brahimi è fondamentale per la capacità di mantenere il possesso sotto pressione, così da dare il tempo ai compagni di trovare una zona di ricezione. Dribbling elegante e potente, che di straordinario ha il fatto di poter essere innescato da entrambe le fasce e di poter funzionare sia verso l’esterno che verso l’interno. Protegge palla e scatta come una lepre o salta due uomini contemporaneamente per assistere i compagni. Controlla pallone e spazi permettendo la definizione del sistema quando riceve appoggiato alla linea di fondo, pronto a far scattare combinazioni palla a terra e perfetto bersaglio per i passaggi di Óliver.

Brahimi crea per sé e per i compagni e la squadra si muove bene. Con la palla sull’esterno sinistro, l’esterno opposto rimane largo e Jackson frena la corsa per lasciare spazio all’inserimento di Herrera a velocità supersonica.

Se un esterno crea l’altro definisce, e in questo Cristian Tello è in ballottaggio con Quaresma nel ruolo di esterno opposto a Brahimi.

Tello ha il semplice compito attaccare lo spazio e dare profondità, giocando una combinazione veloce o accelerando palla al piede dall’esterno. Essendo un giocatore che ha bisogno di pochi ma chiari compiti, si sta trovando molto bene ad Oporto e sembra aver trovato finalmente l’ambiente dove esplodere. Quaresma da parte sua sta vivendo la classica ottima stagione da canto del cigno, sublimata dai due gol di ieri contro il Bayern. Risorto dopo una carriera che sembrava ormai sul viale del tramonto e dopo aver fallito perfino in Arabia, sta giocando forse il miglior calcio di sempre. È perfettamente inserito nel sistema e non si risparmia neanche nelle fasi di transizione come nel caso del secondo gol contro il Bayern nato da una sua azione in pressione.

A chiudere il tridente offensivo ci sono la punta titolare Jackson Martínez o la riserva Vincent Aboubakar. I compiti dei due non si discostano molto e sono legati alla natura energica e verticale del loro stile di gioco.

Il colombiano Martínez è il giocatore più esperto e noto della rosa. Capitano e capocannoniere con 17 gol, si trova bene come punto di arrivo del gioco potendo sfruttare sia la potenza nel tiro che le doti aeree; ma sa giocare anche per i compagni in appoggio o muovendosi nello spazio e soprattutto non si risparmia nelle fasi di non possesso aiutando a mettere pressione alla difesa avversaria.

Ancora da scoprire del tutto invece è il talento di Aboubakar, camerunese di 23 anni preso dal Lorient che nel mese e mezzo da titolare per lo stop per infortunio di Jackson Martínez ha fatto vedere velocità e potenza in abbondanza. Come nel gol del 4-0 contro il Basilea, uno dei più belli visti in questa Champions League; o in quello contro lo Shakthar, che ne ha mostrato le doti balistiche.

Gli esterni devono mantenersi larghi per garantire l’ampiezza alla squadra e, quando quelli alti non hanno il profilo per farlo, ci pensano quelli bassi: i due brasiliani Alex Sandro a sinistra e Danilo a destra.

I due esterni brasiliani, che formano una delle più interessanti coppie in Europa, sono abili sia nella sovrapposizione a cercare il fondo quando l’esterno è verso l’interno, che a giocare al centro quando l’esterno è aperto—come nel caso di Tello. Quando ad esempio l’esterno è un giocatore che ama entrare nel campo come Quintero il giocatore sulla sua fascia (Danilo) si apre molto, cercando la posizione migliore per ricevere il cambio gioco di Óliver dalla parte opposta del campo e arrivare sul fondo. Con Tello in campo invece l’esterno sulla sua fascia, sapendo dell’assenza di gioco interno da parte del catalano, si accentra per dare appoggio alla manovra.

Qui, con Quaresma che lo serve sulla corsa, Danilo si sovrappone ad alta velocità tagliando libero in area, dove sono già presenti in attesa del cross la punta Jackson Martínez, l’uomo ovunque Herrera e, in agguato dalla parte opposta, Tello, in caso di cross sul secondo palo.

La tecnica dei due brasiliani è ben oltre la media del ruolo, e il Real Madrid infatti ha già preso Danilo per la prossima stagione.

Alex Sandro, 24 anni come il compagno di reparto, è forse meno esplosivo, ma mantiene un controllo di palla invidiabile. Con Óliver Torres e Brahimi forma una catena di sinistra dove il pallone corre veloce e con qualità.

Il duo brasiliano non deve per forza alternarsi nel salire ed ha la velocità e i polmoni necessari per poter affrontare la fascia tutta la partita, mantenendo l’aggressività nel recupero senza perdere lucidità. La coppia di doppi esterni bassi tanto aggressivi e duttili è una vera garanzia anche in fase di recupero, se uniti alla fisicità di Casemiro e all’energia di Herrera al centro.

La velocità, le capacità tecniche e la duttilità tattica di Danilo sono uno dei punti di forza della squadra. Il Real Madrid pagherà 31,5 milioni per avere le sue cavalcate al Bernabeu.

Ancora all’inizio del progetto

«Quando vuoi imporre un’idea di gioco serve un processo di crescita. Per prima cosa per l’idea proprio e poi per l’arrivo di tanti nuovi giocatori. Questa idea matura e si adatta alla realtà del club e ai giocatori. Tutti siamo stati obbligati a scendere a compromessi e cambiare delle cose per trovare un equilibrio nell’idea di gioco» ha detto Lopetegui in un’altra intervista a Marca.

Come ogni cambio di paradigma ci sono dettagli ancora da limare e problemi strutturali. Ma la presenza di tanti profili tattici distinti sta rendendo molto più lenta del previsto la definizione dell’identità della squadra.

Con le libertà in fase di decisione e il continuo cambio di riferimenti nel caso di sostituzioni in corsa, la squadra è discontinua nell’arco dei 90 minuti nella strategia di gioco. La duttilità tattica toglie punti di riferimento ad una squadra ancora troppo giovane per essere costante. La scelta di una difesa alta o di una difesa bassa cambia in modo radicale ad esempio a seconda dell’avversario, rendendo il compito difficile per i centrali nell’adattarsi di volta in volta ad una richiesta diversa.

Volendo insegnare calcio, Lopetegui non sta forzando la mano oltre i dettami base di un calcio di possesso e non sempre è un bene tanta libertà per i giovani calciatori che sono più inclini a errori di concentrazione e a prestazioni discontinue.

Uno dei difetti strutturali del sistema è la presenza di tanti giocatori non in grado di effettuare una fase di transizione veloce verso la difesa posizionale. Lopetegui chiede massimo impegno nel recupero alto del pallone nel caso di ottima uscita dal pressing da parte degli avversari, ma solo Herrera riesce a tornare indietro tra gli offensivi. Il risultato è una fase difensiva legata mani e piedi al senso della posizione di Casemiro, unico schermo davanti alla difesa, che deve però anche andare in pressione con la squadra per mantenere la formazione compressa e non mostrare i limiti difensivi di Óliver Torres o Quintero. Se gli avversari riescono a far filtrare la palla superando Casemiro il Porto può essere attaccato facilmente.

Il gol preso agli ottavi contro il Basilea: la palla è al centro e basta un filtrante che superi Casemiro per lanciare l’esterno avversario verso la porta, con Marcano occupato in marcatura e Alex Sandro lento nel leggere la situazione e nell’eseguire la diagonale di chiusura. La mancanza di concentrazione costante è uno dei possibili difetti di una squadra tanto giovane.

Un altro problema grave è la mancanza al centro di giocatori in grado di assorbire la pressione avversaria, a meno di non inserire lì Brahimi e Quintero. In questo Herrera e Casemiro mancano del controllo di palla necessario e Óliver Torres della sicurezza nel tocco, sempre impegnato a pensare alla prossima mossa da fare con il pallone tra i piedi, se aggredito non è costante nel controllo come potrebbe e dovrebbe.

C’è il sistema, ma è troppo fluida la definizione, con i tanti profili distinti, che provocano anche crisi di rigetto come nel caso di Ádrian o Campanã, o di indefinitezza come in quello di Quintero.

Ádrian è stato l’acquisto più costoso della stagione, arrivato dall’Atlético Madrid per 11 milioni (per il 60% del cartellino, per un discorso, quello sul mercato del Porto, troppo lungo per essere approfondito qui) e inizialmente ritenuto dal profilo perfetto per il gioco di Lopetegui, per la sua capacità lettura degli spazi e di dialogo con i compagni. Ádrian si è dimostrato discontinuo e non abbastanza veloce nell’adattarsi al ruolo di esterno del 4-3-3, una volta stabilito che il ruolo di punta era per Martínez o Aboubakar.

La mancanza di adattamento al ruolo di riserva di lusso, unita ad un lungo infortunio al polpaccio, hanno fatto scendere le quotazioni, tanto da escluderlo anche dalla lista per la Champions e acquistare un giocatore nel suo ruolo nel mercato di gennaio (Hernani). Purtroppo quando si stabilisce un nuovo sistema non tutto va come previsto, anche per giocatori pensati come perfetti per il ruolo.

Campaña aveva giocato con Óliver Torres nella Nazionale U19 campione d’Europa ed era stato scelto come prima riserva tra i centrocampisti prima della scoperta di Rúben Neves. Ha giocato un totale di 74 minuti in campionato senza essere nemmeno inserito nella lista Champions. In tal senso fa quasi pena rileggere le dichiarazioni in sede di presentazione.

Molto più doloroso per gli amanti del calcio elegante è il poco spazio che sta trovando Quintero all’interno del sistema. Il colombiano è uno degli ultimi enganche sbarcati in Europa con le stimmate del fenomeno; il problema per un enganche sudamericano è quello di riuscire mitigare la propria natura in modo da inserirsi in un sistema elaborato che gli dia libertà di movimento ma che richieda anche attenzione tattica.

Lopetegui ha provato Quintero da esterno destro con libertà di rientrare e da mezzala di possesso e, in entrambi i casi, nonostante i colpi di classe pura e il tocco di palla da rapire il cuore, non è mai entrato al 100% nel sistema che ha come base il 4-3-3, modulo che esclude un giocatore al centro della trequarti offensiva. Da esterno, quindi, si accentra troppo per giocare palla indietro e da mezzala invece lascia troppo la posizione, tentato da zone più avanzate dove far valere l’istinto per il passaggio risolutore. Così rende lo spazio alle suo spalle preda degli avversari e costringe lo squilibrio nel modulo.

Quintero è tanto elegante quanto di difficile collocazione in campo per il Porto.

«Come allenatore quello che umilmente chiedo è tutto, essere capaci di dominare ogni aspetto del gioco. Il lavoro dell’allenatore, detto in modo molto semplice, è essere capaci di dare una risposta al gioco della squadra in qualunque momento e che i giocatori crescano».

Il Porto ha iniziato un progetto tecnico ambizioso e a lungo termine, affidandolo ad un allenatore che vuole sempre porre l’accento sul gioco e sulla crescita dei giocatori. Nonostante i difetti, la squadra è tornata dopo sei anni ai quarti di Champions League, dov’è l’unica ancora imbattuta dopo aver dominato il girone, superato gli ottavi e battuto in casa il Bayern nell’andata dei quarti ed è tornata a lottare con il Benfica per il titolo. La squadra di Lisbona è avanti di tre punti per via dello scontro diretto vinto all’andata, il ritorno è previsto per il 26 aprile e probabilmente deciderà il campionato.

Il lavoro che sta portando avanti Lopetegui va oltre l’ordinaria amministrazione di un allenatore, si tratta di una vera rivoluzione culturale in un club che negli ultimi trent’anni ha vinto tutto (letteralmente tutto) e che ora vuole tornare a farlo in modo diverso. Arrivato ad Oporto Lopetegui ha detto in modo chiaro: «Vogliamo far parte della storia del Porto». Siamo ancora all’inizio.

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