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L'arbitro è solo
07 feb 2017
Ritratto di Nicola Rizzoli, l’arbitro e l’uomo.
(articolo)
11 min
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Una volta ha detto: «Sono diventato prima arbitro e poi uomo».

Nicola Rizzoli non sa come si scelga di fare l'arbitro, lui voleva fare il calciatore e con gli arbitri aveva un pessimo rapporto. Si è prestato a un cameo, in un docufilm sullo scudetto del Bologna, dove fa l'uomo del bar che dice: «Non ho mai capito che gusto ci sia nel far l'arbitro». E ha scritto anche un libro con Francesco Ceniti, dal titolo: Che gusto c'è a fare l’arbitro.

Invece poi si è arrampicato per tutte le categorie, dagli Esordienti alla serie A, in quasi quindici anni. Ha diretto una finale Mondiale, una finale di Champions League, è stato eletto miglior arbitro del mondo nel 2014 e nel 2015. Poche ore fa, a quarantacinque anni, ha rinunciato ai Mondiali 2018, dopo aver chiesto in passato la deroga per arbitrare oltre il limite d'età. Nella lettera all'Associazione Italiana Arbitri ha scritto: «Tutto ha un inizio e certamente tutto ha una fine».

Si definisce un carattere “ottimista di natura”, di sicuro è un ambizioso («Sono uno che alza sempre l'asticella») con punte di megalomania: riguardo il ruolo di arbitro in una finale di Coppa del Mondo ha detto: «Gestisci il destino di due nazioni».

Rio de Janeiro, 10 luglio 2014

È seduto accanto ai suoi assistenti di gara. Ci sono Proença e Irmatov, gli altri due candidati. Lui li guarda, “per carpirne la gioia”. Aspettano l'annuncio di chi arbitrerà la finale dei Mondiali in Brasile.

L'uomo della Fifa dice il nome di Nicola Rizzoli. Lui non si rende conto. Poi il guardalinee Stefani gli dà «un pugno sulla gamba, che quasi mi infortuna» racconta: «Dal dolore ho capito che toccava a noi».

È un trionfo per lui, che una volta ha teorizzato: «Un arbitro vince la partita nel momento in cui riceve la designazione». E quando ripercorrerà la scena dell'annuncio, sottolineerà che l'uomo della Fifa disse: «Rissoli, come se fosse bolognese».

A Bologna lui ci è cresciuto, ma è nato nel 1971 a Mirandola, provincia di Modena. A Bologna ci vive, in una casa che ha curato “nei minimi dettagli”: la definisce “il mio orgoglio” e dice che dopo le settimane in Brasile l'ha “riabbracciata”. A Bologna ha fatto il liceo artistico, prima dell'università a Firenze. Architettura. Finché la carriera da arbitro non l'ha costretto ad allentare, ha esercitato da architetto, che d'altronde era il mestiere che aveva scelto da ragazzino. Il suo vanto è il completamento dell'oncologico pediatrico del Sant'Orsola di Bologna, che ha realizzato nel 2001, l'anno in cui è stato promosso nella categoria che arbitra in serie A e B.

Ha due riti, entrambi legati all'infanzia.

Il primo è annusare l'unguento balsamico del Vicks. Glielo spalmavano i suoi genitori sul petto quando da bambino era malato. I suoi genitori oggi non lo guardano arbitrare, si agitano troppo, e lui ne è sollevato perché non ha mai avuto piacere ad avere lì persone care, «un po' per vergogna».

Il secondo rito l'ha compiuto prima della finale di Champions League e prima della finale del Mondiale. In albergo, la sera precedente alla gara, si è cucito lo stemma ufficiale della FIFA sulla divisa di gioco, con l'ago e il filo «come mi ha insegnato mia nonna».

A Bologna c'è la squadra di calcio che tifa: l'unica che non può arbitrare, perché a Bologna c'è anche la sezione AIA alla quale è iscritto. E c'è la Virtus, la squadra di basket che tifa e che l'ha portato a giocare derby con arbitri “fortitudini” come Collina, Mazzoleni e Romeo. Pierluigi Collina che è il suo maestro e il suo modello. Nell'autunno 2014, dopo il suggello della finale mondiale, Rizzoli diceva ancora: «Paragonarmi a lui è una cosa che non riesco a fare, non mi permetto».

A Bologna, Rizzoli ci giocava a pallone. È un appassionato del gioco, naturalmente, e ancora oggi deve ricordarsi di non guardare la partita, mentre la dirige, di apprezzare il gesto tecnico «per meno di mezzo secondo». Da ala destra negli Allievi del Lame, a sedici anni si fa male e seguendo un amico decide di approfittarne per studiare il regolamento arbitrale: vuole poter contestare con cognizione di causa i direttori di gara.

Il suo maestro e il suo modello. Dicembre 2014, consegna del premio come miglior arbitro ai Globe Soccer Awards di Dubai.

Non si aspettava che gli venisse assegnata la finale. Sarebbe stato il terzo italiano nella Storia, dopo Gonella e Collina. E poi un europeo aveva fatto la finale del 2010, l'alternanza tra le confederazioni reggeva dal 1990. Rizzoli sperava al massimo in una semifinale.

Una volta designato, dopo aver avvertito le persone più vicine, si sente con Matteo Renzi, da cui aveva ricevuto i complimenti pochi giorni prima e che peraltro nel 1994 aveva fatto l'arbitro fra i Dilettanti. Qualche mese dopo quella telefonata, Rizzoli si lancerà in un paragone tra Renzi e un allenatore giovane e capace che merita tempo.

In albergo, prima della partita, si ripete due frasi. Una è di Agassi, l'ha letta nella sua autobiografia, Open: “Controlla ciò che puoi”. Se la ripete come un mantra. Nell'Arte della guerra di Sun Tzu, il libro che gli ha cambiato la vita, c'è l'altra frase, che dice: «Non contare sul mancato arrivo del nemico, ma fai affidamento sulla tua preparazione». Il nemico, spiegherà Rizzoli, è l'imprevisto.

Dopo l'ultima riunione tecnica, lui e i suoi collaboratori vengono invitati a raccogliersi in una preghiera collettiva da un arbitro sudamericano, che è un pastore protestante.

Si può fischiare per tanti motivi, uno di questi è prendere coraggio.

La cosa che ricorda con più intensità della finale al Maracanà è il silenzio. Nel momento dell'ingresso in campo, con le squadre alle spalle e il pallone e la Coppa del Mondo davanti, più di tutto c'era il silenzio. Voleva toccarla, la Coppa, ma ha avuto paura di farla cadere. Poi ha fischiato ed è iniziata Germania-Argentina.

A un certo punto della gara, Kramer prende un colpo alla testa. Si rialza, va da Rizzoli e gli chiede: “Ref, is this the final?”. Lui pensa che scherzi, se lo fa ripetere, risponde di sì. Poi va ad avvisare il capitano della Germania e Kramer viene sostituito.

Con gli assistenti Faverani e Stefani, appena finita Germania-Argentina.

Errare è umano

Definisce una partita come “un'equazione con tantissime variabili”. L'arbitro secondo lui non può credersi infallibile. Se lo fa, appena sbaglia «resta come sotto a una pietra». È impossibile non commettere errori. «Io l'errore lo chiamo il Nemico».

Di errori quindi ne ha commessi, lo riconosce lui per primo. Da un Ancona-Pistoiese con troppi cartellini, ricorda, a un Fiorentina-Lazio con un errore dopo l'altro. Un rigore dato al Milan nel derby, per un fallo di Julio César che non era fallo. Un mancato rigore al Barcellona, nei Quarti di Champions contro il'Atlético Madrid.

In altri casi ha rivendicato delle scelte contestate. Un rigore concesso alla Francia contro la Germania, a Euro 2016. Un atteggiamento considerato troppo morbido nei confronti di Bonucci, nel derby di Torino della scorsa stagione.

A segnarlo più di altri però è stata la mancata espulsione di Totti in Udinese-Roma del 2007/08: Rizzoli è posizionato male e disturba Totti che sta calciando, il giocatore si volta e gli dice più volte: «Vaffanculo», l'arbitro non lo caccia. «Pensai di smettere» confiderà poi.

Comunque, sostiene, «Non c'è errore più grande che voler compensare un errore”. E dice che quand'è stato messo sotto pressione ha sempre risposto «costruendo uno schema mentale robusto».

«Io amo le persone che decidono» ha detto una volta.

A questo va aggiunto che secondo lui per prendere le decisioni giuste serve molto lavoro. Preparare ogni partita, studiare le caratteristiche dei giocatori, degli allenatori e delle loro tattiche. Spesso però non basta.

L'errore di solito viene dalla sorpresa, spiega in un'intervista televisiva a La7. E più avanti, quando gli chiedono di raccontare un episodio in cui ha avuto paura, in cui lo stadio lo ha spaventato, Rizzoli risponde con un episodio in cui dice di essere rimasto «veramente sorpreso».

Quando è arrivato in serie A diceva che la cosa che preferiva era vedersi concretizzare un'azione dopo aver dato il vantaggio: «La conferma di un'intuizione felice». Le intuizioni continuano naturalmente a guidare il suo lavoro, al pari della preparazione tecnica.

All'esordio in A nel 2002 si schermisce, dice di avere avuto «un bel po' di fortuna», ma riconosce anche di averla saputa gestire a livello mentale: «Cominciare ad arbitrare con l'obiettivo di arrivare in A, è l'unico modo sicuro di non farcela».

Dopo la prima partita che dirige, categoria Esordienti, l'allenatore di una delle squadre va a protestare, gli dice che è scandaloso, che non può arbitrare. «Mi piacerebbe incontrarlo adesso» dice Rizzoli senza sorridere.

I problemi ci sono con gli allenatori, con i dirigenti, con i giocatori in campo. «Non mi piace quando trovo qualcuno che vuole mettermi in difficoltà, ma non m'incazzo. È un sentimento che non ci si può permettere, quando si arbitra» ha detto.

Considera il fair play un tutt'uno con la lealtà nella vita, il rispetto delle persone, qualcosa che viene interiorizzato a partire dall'esempio dei genitori. «Deve essere istintivo, non razionale».

La Nigeria sta per affrontare l'Argentina. Il portiere Enyeama scherza con Rizzoli, perché è uno con cui si può scherzare prima della partita. Ridendo, ok, ma Enyeama gli dice che è spaventato da Messi, soprattutto dalle punizioni. Rizzoli dice che lo capisce, Messi è forte, ma che anche lui e i suoi compagni sono forti: “Se no, non sareste qua”. In quella partita l'Argentina vincerà 3-2, Messi farà due gol, uno dei quali su punizione.

Lo ritiene un lavoro di squadra. L'arbitro più i guardalinee. “Senza assistenti all'altezza, non vai da nessuna parte”.

Ha una posizione moderata verso la tecnologia nel calcio: all'occhio di falco, che permette di vedere “quello che non è interpretabile”, no alla moviola in campo. A questa preferisce l'integrazione con gli arbitri addizionali.

È considerato un arbitro aperto al dialogo, uno che stempera le tensioni con un atteggiamento non autoritario. Al tempo stesso è un arbitro severo, che preferisce punire da subito il gioco duro piuttosto che dare fiducia e lasciar correre.

Un arbitro attento alla psicologia, al linguaggio non verbale. Durante un incontro con altri direttori di gara ha spiegato che se un giocatore alza le mani, dopo aver commesso un fallo, sta chiedendo scusa, e implicitamente “sta dicendo: Dammi il giallo”.

In un'intervista recente alle Iene ha detto: “Sono i giocatori che dettano i limiti della partita”. Come se il direttore di gara, secondo lui, si dovesse adattare alla forma del gioco piuttosto che determinarla.

Rizzoli spiega ai giovani arbitri come comportarsi quando vengono accerchiati dai giocatori. Il concetto più o meno è: per guadagnare autorevolezza non dovete necessariamente essere sicuri, ma mostrare di esserlo.

L’arbitro è solo

Rizzoli è talmente dentro alla partita e al suo ruolo, da faticare ad accorgersi di quello che succede fuori dal campo. “La concentrazione è una cosa meravigliosa. Allo stesso tempo è una sfortuna, perché non mi fa rendere conto di cose belle, come il tifo intorno”.

Il tifo e gli insulti. La sua fidanzata, ogni volta che rientra da una partita, gli chiede: “Oggi come ne sono uscita: peggio io o peggio tua mamma?”.

Si può fischiare per tanti motivi, uno di questi è attirare l’attenzione.

A Rizzoli chiedono gli autografi per strada: “È strano, ma capita. Ed è gratificante, perché non abbiamo dei tifosi che non siano arbitri”.

In realtà esistono delle persone che seguono gli arbitri come se fossero dei calciatori. Ci sono tributi video in cui vengono montate foto di Rizzoli con un sottofondo musicale. Ci sono video che scherniscono la sua vanità, per essersi pettinato guardandosi sul maxischermo durante i Mondiali. E addirittura c'è una ragazza che gli ha dedicato una canzone per il suo compleanno, sostituendo le parole di La mia storia fra le dita di Grignani e apparendo lei stessa in foto con la divisa da arbitro.

Il video della ragazza, Marilena. “Nicola Rizzoli, un ragazzo di Mirandola, nei pressi di Bologna / Lui correva e fischiava, in un campo laggiù di quella periferia […] Quanti commenti nei campi, ma l'inchiostro denigrante non ti potrà fermare / Il tuo carisma di sicuro umano non è, e di Nicola uno solo ce n'è”.

“In campo sei solo, dipende tutto da te” ha scritto nella sua autobiografia, ed è una frase che restituisce la simultaneità dell'isolamento e del protagonismo di chi arbitra, e più in generale il peso e la potenza della responsabilità. Lasciar andare tutto questo dev'essere complicato.

Per il suo futuro, qualche tempo fa Rizzoli ha detto che gli piacerebbe allenare i giovani, magari i bambini. Non ha escluso neanche la politica, pur dicendo che gli ex arbitri la evitano, perché hanno preso già molte decisioni importanti. E poi ci sarebbe sempre il suo mestiere d'architetto, “il più bello del mondo”.

Ma per adesso non ci pensa, non è il tipo. Subito dopo i Mondiali del 2014, si poneva un nuovo obiettivo: superare le duecento gare in serie A. E guardava già a Euro 2016, la vedeva dura: “Speriamo, dovrò sudare”. La quota 200 l'ha scavalcata nella scorsa stagione, agli ultimi Europei ci è andato e ha anche diretto una semifinale. Se non avesse rinunciato, tutto lasciava pensare che avrebbe rappresentato la classe arbitrale italiana ai prossimi Mondiali in Russia.

Si può fischiare per tanti motivi, uno di questi è farsi sentire.

Dopo che sei stato sulla Luna, ha raccontato, la prima cosa da fare è tornare sulla Terra. La sua filosofia prevede che dopo ogni traguardo raggiunto, si affretti a ricordare “da dove sono venuto e chi sono”. Dev'essere per questo che, di ritorno dal Mondiale in Brasile, ha chiesto al designatore di cominciare la nuova stagione da dove aveva iniziato la stagione precedente: un amichevole del Bologna, la squadra che tifa e l'unica che non può arbitrare.

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