Un figlio ingegnere e uno calciatore, addirittura nella stessa persona. Secondo luogo comune, aiuto provvidenziale per chi non sa come iniziare un articolo, nessuno deve essersi sentito più soddisfatto dei coniugi Pellegrini Ripamonti nell’osservare il proprio figlio Manuel. È indispensabile partire da questo soprannome, “El Ingeniero”, non solo per comodità, ma perché sembra celare quel groviglio di deferenza, ammirazione ma al tempo stesso fraintendimento e sottovalutazione che ha avvolto in questi anni il neo-allenatore del Manchester City. Le classificazioni ricorrenti tendono a incasellare ogni allenatore in una delle seguenti categorie: se sei un “motivatore”, non puoi essere un “tattico”, così come altra cosa è essere “gestore”. Sopra tutti c’è la categoria dei “vincenti”, ma una categoria a sé è quella dei “signori”: un modo carino di definire quegli allenatori che non vincono e che quando per sbaglio lo fanno non mostrano né grandi capacità tattiche né particolare richiamo mediatico, e a volte quest’etichetta occulta anche meriti tecnici effettivi. Manuel Pellegrini è stato inserito nella categoria dei “signori”. La pacatezza e proprietà di linguaggio, distante da molti colleghi, e il fatto di non aver vinto uno straccio di trofeo da quando è in Europa, sembrano in effetti suffragare la definizione. Ma se da un lato, nel leggere le dichiarazioni dopo-partita del cileno, dietro la forma impeccabile affiora non di rado una vaga tendenza a non saper perdere del tipo “loro non hanno creato granché, poi c’è stato il gol a freddo”; dall’altro, questa etichetta può portare a valutare in maniera distorta le sue capacità di comunicazione. Un “signore” può passare per uno che non si impone, e alcuni rimproverano a Pellegrini l’incapacità di trasmettere all’esterno i messaggi giusti, intendendo con ciò tifosi, stampa e società, fattori esterni non privi di influenza su quanto avviene sul campo.
Sguardo fisso e tono di voce che cambia raramente, ma senza l’aura ieratico-didascalica e le risposte chilometriche di un Bielsa: semplicemente un signore di mezza età che risponde a estranei con la cortesia, il distacco e la professionalità richieste dal suo mestiere. Pellegrini non si comporta come se le sue dichiarazioni proiettassero chissà quale effetto al di là della sala stampa, né considera le conferenze come farebbe un Mourinho, quasi una prosecuzione della partita con altri mezzi. Se per alcuni questa asetticità verso l’esterno denota carenza di leadership, dallo stesso Pellegrini è espressamente considerata un proprio pregio, complemento necessario di una capacità di persuasione rivolta invece esclusivamente verso i propri giocatori. «Fino ai 30 anni mi trovavo a lottare col mondo, e perciò mi sono dovuto controllare. Sono nervoso e nutro la costante preoccupazione di sbagliarmi… Però non posso passare dallo spogliatoio e trasmettere queste paure perché sarebbe un disastro.» [qui]
Dopo la sconfitta col Borussia, si lamenta dell’arbitro
La stagione a Madrid: 2009-2010.
Un delicato equilibrio fra sfera esterna e sfera interna che Pellegrini non riuscì a gestire al meglio nella sua esperienza sulla panchina del Real Madrid, quando si trovò senza difese. Primo, perché la società, nella persona di un Florentino Pérez che Pellegrini non lo aveva mai desiderato (accettando l’“Ingegnere” come scelta di ripiego, suggerita da Valdano, rispetto all’irraggiungibile Wenger), lo lasciò senza reti di protezione: «Non posso parlare male di Florentino Pérez, e neppure bene, perché non lo conosco come persona». L’unico contatto di Pellegrini con Pérez si limitò a una conversazione in agosto “su ciò che significava in generale il Real Madrid”, da allora non parlò più con lui. Secondo, perché lo stesso Pellegrini, pur rivendicando i novantasei punti in campionato, ottenuti con le assenze di Cristiano Ronaldo e Pepe rispettivamente per due mesi e per sei, quasi-record (superato solo dal Real Madrid 2011-2012 laureatosi campione con Mourinho) totalmente inutile di fronte al miglior ciclo della storia del Barça, è stato inchiodato da due risultati oggettivamente indifendibili: l’eliminazione in Copa del Rey contro l’Alcorcón, squadra della provincia madrilena allora in Segunda B, e poi l’uscita dalla Champions ancora una volta agli ottavi, contro il Lione.
Pellegrini più che all’Alcorcón e Lione addebita il suo insuccesso madridista all’assenza di sostegno e di pianificazione da parte della società: il tecnico cileno menziona sempre le cessioni di Robben e Sneijder, da lui sconsigliate: soprattutto nel caso di Sneijder, gli rimase una rosa con una connessione labile fra il centrocampo e Cristiano Ronaldo. E alla stampa: in particolare a Marca, segnalatosi quell’anno per una campagna contro Pellegrini accesissima e quasi istantanea, già dopo il primo mese. L’elegante prima pagina pubblicata dopo l’“Alcorconazo”, coi caratteri cubitali del “Vete a tomar por culo” rivolto a Pellegrini da Guti (sostituito alla fine del primo tempo al termine di un’animata discussione) più che un dato di cronaca rappresenta una linea editoriale.
Senza società anche l’allenatore più bravo non va da nessuna parte, ma ci sono episodi che tradiscono una mancanza di controllo fatale a Pellegrini: esemplare in questo senso la doppia sfida col Lione. All’andata Pellegrini scelse dall’inizio Mahamadou Diarra, arrugginito da una lunga assenza, e venne la tempesta da chi non aspettava che il minimo appiglio (Marca arrivò a creare una polemica addirittura quando il canterano Mosquera, già pronto a bordo campo, non poté entrare nel recupero della placida vittoria a La Coruña: “colpa” di Pellegrini che lo aveva chiamato troppo tardi!); al ritorno invece, col Madrid in preda all’ansia e alla stanchezza dopo aver speso e sprecato di tutto nel primo tempo, Pellegrini fece intendere di non aver rinforzato la mediana con l’ingresso di Diarra proprio per evitare reazioni negative dal pubblico, magari fomentato a dovere da Marca.
In realtà la campagna di Marca non aveva mai trovato grande riscontro fra i tifosi, ma l’episodio pare sintomatico. È la fragilità che ha caratterizzato un po’ tutto il Real Madrid di Pellegrini, non privo di un’identità tecnico-tattica, ma non sufficientemente stabile e forte. È indicativo di questa instabilità il fatto che proprio prima dell’eliminazione dalla Champions quel Real Madrid avesse giocato la sua miglior partita, una spettacolare esibizione col Sevilla, su livelli decisamente superiori rispetto agli ultimi Real Madrid che pure si erano laureati campioni (quello di Schuster e soprattutto quello inguardabile di Capello). È difficile dire se l’annata a Madrid, particolare per ambiente e circostanze, possa valere come precedente ora che Pellegrini torna ad avere una chance con una squadra che punta a vincere tutto. Di certo il cileno, è una banalità che vale per tutti gli allenatori, ha lavorato meglio quando ha trovato o una società in cui la pianificazione era dettagliata, graduale e la distribuzione di competenze chiara (il Villarreal, il miglior club possibile a detta di Pellegrini), o in cui, pure in mancanza di un progetto (quando lo sceicco Al-Thani ha smesso di mettere i soldi, il Málaga si è trovato a vivere alla giornata), la sua autorità non veniva mai né messa in discussione né tanto meno scavalcata. La “virata spagnola” che ha portato il City prima a nominare Txiki Begiristain come direttore sportivo, poi Pellegrini con altri giocatori dalla Liga potrebbe rappresentare un disegno coerente e per questo incoraggiante.
La libertà delle squadre di Pellegrini.
Espresse le incertezze sul rapporto con l’esterno, ciò che è fuor di dubbio è che il messaggio da Pellegrini ai giocatori arriva più che mai chiaro. In questi anni in Spagna infatti, le sue squadre son sempre state fra le più riconoscibili. Calcio d’iniziativa, possesso-palla, etc… ma prima di mettere le squadre dell’“Ingegnere” nello stesso calderone del Barça occorre fare una distinzione fondamentale. Il gioco del Barça si inserisce nel filone olandese del juego de posición: importante qui è il fatto che in ogni momento, a seconda di dove si trova il pallone, la squadra si muova secondo una struttura fissa. I giocatori possono scambiarsi ruolo fra di loro (anzi, la novità del gioco all’olandese venne proprio dal principio offensivo della creazione di spazi tramite continui interscambi che rendeva più difficili le marcature avversarie) ma l’importante è che a seconda di dove si trova il pallone, le posizioni rimangano sempre quelle, in modo da dare i riferimenti per giocare “a memoria”: se il difensore centrale porta palla i terzini, non importa chi siano, devono stare sempre a una certa altezza; se poi la palla arriva sulla trequarti l’ala dovrà tagliare dentro e aprire lo spazio al terzino; tutti devono rispettare determinate distanze, qualcuno con più libertà di altri (Messi nel Barça è l’unica eccezione al “gioco di posizione”), fermo restando che le migliori espressioni di questo stile di gioco riescono a dare l’illusione di un equilibrio impossibile fra libertà di movimento e ferrea organizzazione collettiva. In questo gioco insomma la struttura prevale sui singoli, anche se sono questi a darle significato, naturalmente.
Sull’altra sponda del “tiqui-taca” ci sono le squadre che non si muovono secondo una struttura fissa, e quelle allenate da Manuel Pellegrini ne sono un esempio. Due-tre riferimenti di base, la difesa a quattro, uno o due centrocampisti ancorati davanti a questa, i terzini avanzati, e per il resto libertà totale dalla trequarti in su. Più che un ordine immutabile e una ripetizione sistematica, una generica armonia offensiva basata su interazioni spontanee dalla trequarti in su. Quando il Barça porta palla sulla trequarti sinistra sai che immancabilmente sul lato opposto l’ala taglierà dentro e il terzino attaccherà lo spazio: cambiano gli interpreti ma restano le posizioni. Quando invece è il Málaga dell’ultima stagione o il Villarreal di qualche anno fa a giocare nella stessa identica zona non sai se a portare palla sarà solo il terzino, se la mezzapunta Isco/Cazorla lo appoggerà lì vicino, oppure ancora se a questi due si aggiungerà Joaquín/Giuseppe Rossi o un altro attaccante in escursione. La stessa azione difficilmente seguirà lo stesso schema.
Un’ispirazione sudamericana che, pur nel comune intento di controllare il pallone («So per certo che chi tiene il pallone si stanca meno») e mantenere l’iniziativa, si distingue dal razionalismo della scuola olandese, talvolta paradossalmente fanatico nel suo continuo tentativo di ottimizzare gli spazi. L’impostazione “libera” di Pellegrini ha un vantaggio e uno svantaggio: essendo più basata su interazioni spontanee, più difficilmente forzerà le caratteristiche di qualche giocatore da integrare nello schema (Thiago Alcantara è l’ultimo caso di giocatore in parte refrattario al gioco di posizione olandese/catalano). Quello che guadagna in naturalezza, però, quest’impostazione lo perde in immediatezza: un calcio offensivo meno sistematico implica meno punti di riferimento immediati per i giocatori e automatismi che tardano molto di più a emergere.
Non sono un caso le partenze relativamente lente di tutti i progetti di Pellegrini: dal Villarreal portato per i gironi di ritorno, al Málaga bruttino (anche se non insoddisfacente come risultati) della prima metà del 2011-2012, perfezionato solo nell’ultima stagione, passando per il Real Madrid che nei primi mesi faceva parecchia confusione nel mezzo fra Cristiano, Kaká, e partiva con Marcelo terzino per poi coprirsi con Arbeloa al posto del brasiliano avanzato a centrocampo, e alla fine cambiando pure modulo (dal 4-2-2-2 al 4-3-1-2). Anche il Manchester City nelle prime uscite stagionali ha mostrato una fisiologica confusione nel ripartire gli spazi fra i giocatori.
Marcos Lopez molto critico verso il primo Real Madrid di Pellegrini, quello col 4-2-2-2.
La “pausa”, i falsi esterni e le due punte.
In un’intervista ad As dell’ottobre 2007, Pellegrini afferma: «Il lavoro tattico si svolge (solo) da metà campo in giù. Da lì in avanti, pretendo che i giocatori abbiano libertà». Questo non vuol dire che il gioco sia disorganizzato e non segua sempre alcuni chiari principi, altrimenti le sue squadre non sarebbero così riconoscibili. Sempre “assaporando” il pallone, rappresentano un mix di calcio sudamericano ed europeo che Pellegrini, intervistato da Orfeo Suárez nel libro Palabra de entrenador riassume in una frase che è solito ripetere in allenamento ai propri giocatori: «Chi porta il pallone, vada lento per pensare; gli altri, rapidi». La pausa sudamericana col pallone e il movimento senza palla europeo (aspetto al quale, a detta dell’“Ingegnere”, in Sudamerica si tende a dare meno importanza). Da qui il ritmo caratteristico delle squadre di Pellegrini, forse lento, di sicuro contenuto, ma altrettanto certamente costante, un calcio che non cessa mai di scorrere.
Due principi cardine hanno sempre caratterizzato il gioco offensivo “libero” delle squadre di Pellegrini: (1) la ricerca della superiorità numerica in mezzo al campo, soprattutto fra le linee di difesa e centrocampo avversarie; (2) la ricerca di situazioni favorevoli anche sulle fasce, ma utilizzando generalmente un solo esterno di ruolo, il terzino. Il primo aspetto è quello che più tradisce le origini sudamericane dell’allenatore. Moduli come il 4-2-2-2/4-3-1-2, generalmente i prediletti di Pellegrini, sono tipici infatti delle formazioni di quel continente, e spesso incompresi alle nostre latitudini. Ricordiamo ad esempio Vanderlei Luxemburgo sulla panchina di un Real Madrid con tutti i "galácticos" (Zidane, Ronaldo, Roberto Carlos, Figo, Raúl) ormai in netto declino: il cosiddetto “quadrato magico”, due mezzepunte più due attaccanti, senza ali né centrocampisti esterni, che fu bersagliato dalla critica per i risultati oggettivamente modesti. Il problema ovviamente riguardava le caratteristiche della rosa e non lo schema numerico in sé, che nel calcio non spiega nulla, ma la stampa madrilena più superficiale la pensava esattamente così e si trovò a ripetere lo stesso massacro proprio contro il Pellegrini allenatore del Real Madrid, reo di giocare senza esterni (se poi di mezzo c’è la partenza estiva di Arjen Robben , puoi vendere copie tranquillo per un anno intero).
Pellegrini in persona che parla delle sue tattiche. Anche se nel titolo c'è scritto «Real Madrid», in realtà è nello spogliatoio del Villareal.
In realtà, e qui veniamo al secondo principio, le migliori squadre di Pellegrini hanno sempre assicurato una equilibrata occupazione tanto delle zone centrali come laterali. Pensiamo al suo Villarreal: il quadrato di centrocampo, formato dai due mediani davanti alla difesa (Senna-Bruno la miglior coppia) più i due falsi esterni che dalle fasce tagliavano dentro fra le linee (Santi Cazorla è il paradigma di un ruolo al quale invece Riquelme si adattava male: per questo il Villarreal di “Román e altri dieci”, quello che arrivò alle semifinali di Champions, si schierava con un rombo nel quale all’argentino veniva concessa tutta la trequarti, e gli altri si adattavano), si occupava di mettere in minoranza i centrocampisti centrali avversari; al tempo stesso, i terzini sorprendevano nello spazio lasciato dai falsi esterni, con l’aiuto degli attaccanti che a turno si allargavano per agevolare la conquista della linea di fondo. Pellegrini, che ha giocato ben 14 stagioni e 451 partite al centro della difesa dell’Universidad de Chile, sa il fatto suo quando dice: «Non c’è niente di peggio che non sapere chi marcare. Per questo le mie squadre non hanno esterni fissi. Occupiamo le fasce, ma non sempre con gli stessi giocatori». [qui]
Oltre che per i falsi esterni, le squadre di Pellegrini si caratterizzano generalmente per l’uso delle due punte. Per due motivi: perché per creare la sorpresa sulle fasce di cui sopra gli attaccanti devono sempre svariare e allargarsi incrociando con gli esterni che tagliano dentro; ma data questa premessa, se giocasse un attaccante solo tanto obbligato a muoversi fuori dall’area si rischierebbe di non lasciare nessuno a concludere negli ultimi metri, quindi meglio due punte. Al tempo stesso la presenza di due punte invece che di una punta e di una mezzapunta, di un 4-2-2-2 invece che di un 4-2-3-1, lascia più spazio ai falsi esterni per tagliare dentro, senza che nessuno pesti loro i piedi.
«Utilizzo sempre due punte perché non credo nelle mezzepunte. Non so bene che cosa facciano. Le mezzepunte solitamente sono attaccanti che non favoriscono il gioco di squadra e che hanno l’egoismo proprio degli attaccanti. L’ idea finale è di avere la capacità di giocare molto tempo la palla nella metà campo avversaria.» [qui] Questa affermazione, apparentemente “scioccante” (dopo tanto parlare di libertà sulla trequarti!), incomprensibile in senso generale, si spiega solo relativizzandola e distinguendo fra i falsi esterni di Pellegrini, che potremmo tranquillamente definire mezzepunte che partecipano tantissimo alla manovra, e la “mezzepunta” che Pellegrini sembra intendere in un senso più ristretto, ossia quel giocatore alle spalle di una sola punta nel 4-4-1-1, che prima della giocata decisiva magari si estrania un po’ dalla manovra, senza al tempo stesso lavorare come un vero attaccante per creare spazi e braccare i palloni vaganti in area avversaria. Questo spiega anche come ai tempi del Villarreal Pellegrini tendesse a preferire un attaccante dalle povere doti tecniche e realizzative, ma sgobbone, come Guille Franco rispetto a una mezzapunta squisita come "Cani" da aggiungere a Cazorla e Pirès; e spiega anche la scelta di partire in quasi tutte le gare del City finora con almeno due fra Negredo, Džeko e Agüero, sacrificando Nasri (titolare nelle ultime due partite per l’assenza di Silva).
Manchester City - Newcastle: 4-0, prima giornata di Premier League 2013-2014.
Il periodo a Malaga (2010-2013): estetica e pragmatismo di Pellegrini.
Al Málaga però Pellegrini ha avuto difficoltà ad affermare tutti questi principi. Anzitutto, il suo arrivo in corsa nella stagione 2010-2011 gli consegnò una rosa pensata in estate per il suo predecessore, Jesualdo Ferreira, che pensava a un 4-3-3 di transizioni rapide con giocatori di fascia molto più caratterizzati (tipo Eliseu e soprattutto Quincy Owusu-Abeyie, il miglior giocatore di sempre nei video di YouTube). Anche con l’arrivo del feticcio-Cazorla per la posizione di falso esterno nella stagione successiva, a Pellegrini mancava un tassello a centrocampo per comporre il puzzle agognato. C’era “il Cazorla”, quello originale, ma mancava il passaggio precedente, “il Senna” e “il Bruno” che facessero arrivare coi tempi giusti la palla sulla trequarti per attivare i movimenti dei falsi esterni. Pellegrini prova di tutto accanto a Toulalan (anche giocatori fuori ruolo, come Duda e lo stesso Cazorla) ma niente da fare. Il Málaga i punti li fa anche ma non gioca bene: i falsi esterni non sono in sincronia col movimento del pallone, tagliano subito dentro e quasi si incolonnano come in fila indiana, mentre i terzini si trovano a portare palla per metri perdendo qualsiasi capacità di sorpresa.
Da tecnico pragmatico, Pellegrini non si incaponisce e decide di spostare il peso della manovra un po’ più sugli esterni rispetto ai propri schemi consolidati, fino all’exploit dell’ultima stagione. Pellegrini non cambia sul punto di schierare solo due giocatori di fascia di ruolo (cioè i terzini), quello che cambia è che stavolta il palleggio della sua squadra non si “addensa” centralmente, attorno al quadrilatero di centrocampo tipico del Villarreal, ma cerca la superiorità appoggiando l’azione di volta in volta anche con tre giocatori contemporaneamente che, senza posizioni fisse, gravitano sugli esterni non solo per conquistare il fondo, ma anche per tenere palla e far salire la squadra.
Foto tratta da Ecos del Balon. Ecco il Málaga di Pellegrini che "addensa" il gioco sugli esterni: non usa le fasce solo per sorprendere giocando senza posizioni fisse (a parte il terzino destro Jesús Gámez) e con inserimenti improvvisi, ma sposta il peso della manovra. Qui attira fino a quattro avversari, sbilanciandone il sistema difensivo (si crea spazio al centro).
Partito Cazorla nell’estate 2012, e in assenza di registi, il giocatore che crea il contesto diventa Joaquín, mai così brillante dagli inizi del Betis: non più arrembante lungo l’out destro, ma illuminante su tutto il fronte d’attacco. Il più bel Málaga vede un Joaquín che non solo quando parte da teorico esterno ha ampia licenza di tagliare dentro, ma che anzi prevalentemente fa la seconda punta, con la tendenza a muoversi dal centro verso l’esterno, su tutti e due i lati. I movimenti di Joaquín, l’appoggio di due terzini più bravi della media a portare palla come Jesús Gámez e Monreal, e un “terzo uomo” (o i tagli senza palla delle mezzeali Eliseu e Portillo in appoggio, oppure le divagazioni di Isco) che crea a turno la superiorità rappresentano i cardini di un Málaga che nei primi due mesi passa in scioltezza il girone di Champions e gioca forse il miglior calcio della Liga, con la vittoria casalinga col Valencia come apice estetico.
Ma dove il pragmatismo di Pellegrini raggiunge i migliori risultati è nella seconda parte della scorsa stagione, quando il Málaga sfiora la semifinale di Champions. E bisogna dire che è un Málaga che parte da premesse diverse rispetto a quelle storiche di Pellegrini, gioco d’iniziativa e attacchi a schema libero. Avendo di fronte squadre superiori (Borussia Dortmund e Porto), ed essendo disponibile un solo pallone, Pellegrini ha basato questo Málaga europeo su un gioco, passateci la parolaccia, difensivo, sostenuto dal grande mestiere dei Toulalan, Iturra, Weligton e Demichelis. Un 4-4-2 classico, non più dal disegno mutevole dalla trequarti in su, ma con le fasce simmetriche, Joaquín e Isco non più a incrociarsi e fraseggiare, ma su fasce opposte, per garantire aiuto al terzino e rilanciare l’azione.
Le squadre di Pellegrini peraltro si son sempre basate su una certa solidità difensiva, e una bassa propensione al rischio: puntano sì a passare più tempo possibile nella metà campo avversaria, ma in fase difensiva la scelta prediletta è il ripiegamento, non il pressing; il blocco medio-basso, non la difesa alta. Una zona non particolarmente aggressiva nel cercare di recuperare subito il pallone, ma compatta e paziente nel non perdere le posizioni e far scattare le coperture reciproche. Movimenti di copertura che implicano una rara applicazione del fuorigioco, limitato ai cross avversari dalla trequarti effettuati “a palla coperta” (cioè quando l’avversario, vuoi perché pressato od ostacolato in altro modo, esegue il passaggio o il cross senza avere il tempo per vedere le migliori opzioni; la difesa quindi ha più margini per salire e attuare il fuorigioco), situazione nella quale il suo Villarreal peraltro eccelleva, quasi un marchio di fabbrica.
Dortmund - Málaga: 3-2, commento spagnolo.
Il Manchester City di Pellegrini.
Questo pragmatismo di Pellegrini suggerisce di non appiattirsi sulle sue preferenze storiche al momento di valutare il possibile impiego dei giocatori del City. La rosa dispone di una serie di giocatori particolarmente adatti (ad esempio Silva e Nasri come falsi esterni, Barry come mediano “di posizione”, Negredo, Jovetić e Agüero come punte che non danno riferimenti, il terzino Kolarov come unico specialista di fascia per appoggiare l’attacco…), ma anche di altri non del tutto “ortodossi”: il caso più interessante è Yaya Touré, fortissimo e decisivo nelle ultime stagioni del City, ma non così facile da incasellare nel modello classico di Pellegrini.
All’ivoriano manca un po’ di agilità e gioco corto tra le linee, non può muoversi a piccoli passi e piccoli tocchi come un Cazorla o Isco, nella linea abituale dei due falsi esterni nel 4-2-2-2, e al tempo stesso non può partire così alto, quasi sulla linea degli attaccanti (esperimento visto nell’amichevole col Sunderland), magari spalle alla porta, lui che deve avere campo per liberare la sua progressione. I due mediani “alla Pellegrini” tendono a mantenere la posizione (Toulalan, Bruno, Senna, Josico…), dettaglio che ne sacrifica le capacità di incursore. Il Touré visto in quest’inizio di stagione sembra aver accettato questo sacrificio (l’unico sfogo offensivo finora sono stati i due-gol capolavoro su punizione a Newcastle e Hull City e il tiro da lontano col Viktoria Plezen), assumendo un ruolo di iniziatore di tutte le manovre: prendendo palla molto basso dalla difesa ha campo per ingranare e giocare sempre fronte alla porta. Più problematica sembra l’amalgama col collega di reparto Fernandinho, che finora ha faticato parecchio muovendosi oltre la linea della palla: il City al momento sembra dipendere eccessivamente dalla linea di passaggio fra Yaya e Silva, che si abbassa sin troppo non solo per compensare Fernandinho ma anche la scarsa profondità dei terzini Zabaleta e Clichy (l’ultima però l’ha giocata Kolarov), che dovrebbero guadagnare metri per facilitare i tagli fra le linee ai falsi esterni.
Manchester City - Viktoria Plezen: 3-0
Džeko-Agüero, la coppia più impiegata finora, è capace di creare un’occasione dal nulla ma non sempre sembra garantire il massimo della compatibilità. Il bosniaco non è proprio una libellula su tutto il fronte offensivo; l’argentino invece, a dispetto del fisico da seconda punta e della tecnica da numero 10, si trova forse meglio a giocare negli ultimi metri e fra i centrali. I due per caratteristiche spesso si trovano contemporaneamente prime punte sulla stessa linea, e non si muovono granché sull’asse orizzontale, svariano poco sulle fasce per agevolare i tagli dentro degli esterni. L’alternativa Negredo, già due volte in gol, è invece mobilissimo, il suo raggio d’azione è più esteso (oltre a svariare di più sulle fasce, può venire incontro a fare da sponda in zone più lontane dall’area rispetto a Džeko ed è più esplosivo dettando la profondità), in attesa di inquadrare meglio Jovetić.
Finora va detto che si è visto più un superlavoro di Silva nel cucire i reparti e rifinire che uno scambio di posizioni armonioso dalla trequarti in su. Comunque, se Zabaleta e Clichy garantiranno miglior rendimento difensivo il posto resterà loro; se Džeko si confermasse più prolifico di Negredo, continuerà lui là davanti; se il gioco basato sui falsi esterni non dovesse permettere alla squadra di “difendersi col pallone” come desiderato e i terzini dovessero richiedere più aiuto, potrebbe allora tornare utile perfino la capacità di corsa di Milner, lineare esterno di ruolo che rappresenta quanto di più lontano dall’idea di Pellegrini. In questo senso non è nemmeno pensabile forzare l’esterno più esterno che ci sia, Jesús Navas, sebbene all’andaluso non manchi il talento per incrociare fra le linee.
Pellegrini non forzerà le caratteristiche dei suoi migliori giocatori per qualche dogma tattico, e porrà sempre la ricerca della massima competitività davanti ai suoi “tipi ideali” di giocatore.
Cardiff City - Manchester City: 3-2