Tutte le valli sono state battute, tutti i laghi hanno ricevuto un nome; non ci sono animali pericolosi per l’uomo, non rettili, neppure una zanzara; la rete cellulare è stata estesa fino agli altipiani, e il sistema di prevenzione del rischio vulcanico è tra i più avanzati al mondo. Quest’isola era un luogo estremamente periglioso ai tempi della colonizzazione vichinga, ancora molto avventuroso per gli esploratori borghesi dell’Ottocento europeo, tuttavia oggi cacciarsi nei guai in Islanda è una specie d’impresa, ovunque ci si diriga la sensazione è che sia tutto sotto controllo. Quasi ovunque.
La strada numero 93, nota anche come Fjarðarheiði (cioè “brughiera del fiordo”), unica possibilità di raggiungere via terra il borgo orientale di Seyðisfjörður, è considerata la più pericolosa d’Islanda e tra le più pericolose al mondo. Il sito dangerousroads.org mette in guardia senza giri di parole: «valanghe, frane e pesanti nevicate possono verificarsi in ogni momento, e chiazze di ghiaccio rendono l’asfalto estremamente scivoloso». Durante la cattiva stagione – che in Islanda non si fa remore a prolungarsi da ottobre ad aprile inoltrato – la strada 93 viene frequentemente chiusa al traffico, isolando Seyðisfjörður dal resto del Paese: un paio di anni fa, nessuno ha trovato irrealistica la scelta del guru del cinema islandese Baltasar Kormákur di fare della cittadina il set di Trapped, giallo televisivo in cui una tempesta di neve si abbatte sulla località proprio mentre un cadavere mutilato emerge dal fiordo, intrappolando per giorni gli abitanti di Seyðisfjörður in un gelido incubo.
Il 9 ottobre la nazionale di calcio dell’Islanda si è qualificata alla Coppa del Mondo 2018 battendo il Kosovo nello stadio Laugardalsvöllur di Reykjavík, 670 chilometri e 8 ore di auto da Seyðisfjörður. Trovare un biglietto per Islanda-Kosovo era impossibile: i posti erano pochi, i locali vogliosi. Ho visto la partita più importante della storia del calcio islandese nell’unico bar di Seyðisfjörður, e per certi versi era il posto migliore per farlo.
Foto di Bernard Meric / Getty.
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In Dialogo della natura e di un islandese Giacomo Leopardi racconta il triste destino di un islandese in fuga dalle bizze degli elementi: mentre dialogava con la Natura in un deserto, al sicuro dal vento e dai vulcani dell’Islanda, due leoni lo sbranarono. Per Leopardi gli islandesi dovevano essere una specie di popolo eletto, ma al contrario: abbandonati come nessun altro al cinismo della Natura e della vita. Ancora a metà Ottocento, in effetti, in Europa erano vive una serie di credenze medievali che attribuivano all’Islanda caratteristiche demoniache (il vulcano Hekla è stato per secoli considerato un portale verso l’inferno) e ai suoi abitanti qualità mitiche: secondo uno studioso olandese, gli islandesi erano in grado di sapere se nel mondo fosse in corso una guerra semplicemente osservando la quantità di spiriti orrendi che si aggiravano sulle pendici dell’Hekla. Mi apparve naturale, quasi necessario direi, schierarmi dalla parte del povero islandese sbranato dai leoni, e lo misi al centro della mia tesina di maturità, collegandolo alle aurore boreali e ai quadri di Friedrich.
Undici anni e cinque viaggi in Islanda dopo, eccomi sulla strada numero 93, da qualche mese collaboro con un museo nel nord del Paese e ho convinto un mio collega a prendersi un giorno di ferie e a venire con me a Seyðisfjörður, chissà che in due la Fjarðarheiði non faccia meno paura. Prima di partire abbiamo telefonato al Kaffi Lára, l’unico bar del paese: a causa della grande quantità di avventori prevista, non è possibile prenotare tavoli nella saletta in cui verrà trasmessa la partita. Il consiglio è di affrettarsi e arrivare almeno un’ora prima che la RÚV, la televisione locale, cominci la diretta nazionale da Reykjavík.
Islanda-Kosovo è poco più che una formalità, a dirla tutta. All’Islanda basta vincere contro la squadra più debole del girone, che in questo girone ha esordito a livello internazionale, per essere sicura di qualificarsi direttamente al Mondiale. Tuttavia, poiché in contemporanea si affrontano Croazia e Ucraina, seconda e terza in classifica, le probabilità che porterebbero gli islandesi in Russia sono alte anche in caso di risultato diverso dalla vittoria. L’Islanda si è costruita una situazione così favorevole grazie a un percorso solido, in assoluta continuità con quanto mostrato dal 2012 (posizione nel ranking FIFA a ottobre: 131) al 2016 (posizione nel ranking FIFA a settembre: 27). Non erano affatto tutti convinti, nemmeno in Islanda, che gli strákarnir okkar (“i nostri ragazzi”) potessero mantenere lo stesso livello di concentrazione e di rendimento dopo la sbornia dell’Europeo di Francia e, soprattutto, dopo l’addio di Lars Lagerback, l’esecutore ultimo del cambio di prospettiva che ha proiettato l’Islanda dalla semi-amatorialità all’élite del calcio mondiale.
Anche lo storico telecronista della RÚV Bjarni Felixson, che ha assistito alla prima partita di sempre della nazionale islandese (luglio 1946, campo in terra battuta, partita iniziata alle 20 perché i calciatori islandesi quel giorno lavoravano fino alle 19) e alla sconfitta più pesante della sua storia (agosto 1967, Danimarca-Islanda 14-2), si era detto preoccupato dopo l’abbandono del ct svedese, come se l’assenza di una guida straniera potesse far riemergere le grandi difficoltà che hanno gli islandesi a porsi obiettivi a lungo termine, a guardare oltre il limite del prossimo inverno; questa refrattarietà al futuro che discende forse dalla latitudine e dai venti, dal tempo atmosferico più variabile del mondo, e che trova prosaica conferma nelle continue incertezze dell’economia (il paese è fallito nel 2008, e la corona islandese è sempre una valuta fortemente instabile) e della politica (il prossimo 28 ottobre avrà luogo la terza tornata di elezioni politiche in quattro anni).
Invece nell’ultimo anno e mezzo la nazionale di Heimir Hallgrímsson, ex-vice di Lagerback, è stata un grandioso inno alla programmazione e alla continuità. Ha vinto quando doveva vincere (in casa sempre), ha rimesso in piedi un paio di situazioni delicate (3-2 alla Finlandia con gol vittoria al 95°; 1-0 alla Croazia con gol al 90°) e, dopo essersi complicata la vita perdendo in Finlandia nella quartultima partita del girone, ha sorpassato la Croazia in testa al gruppo I grazie all’impresa di una settimana fa in Turchia. Un 3-0 netto, mai in discussione, ottenuto con fare da grande squadra su un campo difficile, 35mila spettatori a sostenere i padroni di casa. A Eskişehir la rappresentativa calcistica dell’Islanda – 330mila abitanti - ha dominato quella della Turchia - 80 milioni di abitanti.
Ecco, fa sempre molta impressione parlare dei risultati dell’Islanda in termini numerici (nel calcio, ovviamente; ma si potrebbe fare un discorso analogo parlando di basket, cinema, letteratura o musica). Fare il rapporto tra i riconoscimenti che l’isola ottiene e la popolazione che se li guadagna è un gioco statistico che semplifica assai le cose, e in certi casi restituisce un’immagine fin troppo edulcorata di un Paese che, nonostante i primi posti in tutta una varietà di classifiche, continua ad avere i suoi difetti.
Eppure questo chiaro bisogno di superare il complesso di inferiorità dato dalla dimensione minuscola e da un destino di totale irrilevanza internazionale è fondamentale per comprendere più a fondo il peso extra-sportivo che assumono in Islanda i successi della nazionale. In una chiacchierata di qualche mese fa, la scrittrice Elísabet Jökulsdóttir mi ha detto che «essere pochi non è semplice, allora noi facciamo le cose credendo di essere molto più grandi di quello che siamo realmente. E a volte funziona». “L’Islanda ha dimostrato ancora una volta di saper trasformare la propria piccolezza in forza”, avrebbe confermato il Presidente della Repubblica Guðni Jóhannesson il giorno dopo l’ufficialità dell’accesso a Russia 2018. Qualche ora dopo, in seguito alla mancata qualificazione degli USA, il commentatore americano Taylor Twellman si sarebbe invece chiesto: «Com’è possibile che una nazione grande quanto Corpus Christi, Texas, ce l’abbia fatta e gli Stati Uniti no?».
Foto di Halldor Kolbeins / Getty.
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Ci affrettiamo sulla 93, dunque. È una delle deviazioni che dalla Hringvegur, la strada circolare che completa il giro dell’Islanda in poco più di 1300 chilometri, consentono di raggiungere le comunità sparse sui fiordi orientali, questa serie di graffi lunghi e stretti lasciati da antichi ghiacciai nel loro estremo tentativo di aggrapparsi alle nere montagne d’Islanda, prima di ritirarsi nell’oceano per sempre - o almeno fino alla prossima era glaciale. La strada per Seyðisfjörður è ripida, 600 metri di dislivello e 9 gradi Celsius di escursione: 11 all’imbocco, 2 in cima, procedendo verso l’alto macchie di neve sempre più estese rattoppano una distesa di betulle nane ed erba ingiallita. Raffiche insistenti fanno sbandare la macchina di tanto in tanto, ma di fronte a noi non si vede nessuno, l’attraversamento della brughiera del fiordo oggi è sicura e piacevole, i brividi non vengono dal timore ma dai sensi. Una curva più ampia delle altre e la vista si apre d’un tratto sulla picchiata: il nastro d’asfalto e decine di rigagnoli si gettano dal passo verso il mare, o quest’accenno di mare che è il fiordo, montagne su tre lati e un sospiro d’acqua sul quarto, i pochi edifici di Seyðisfjörður a colorarlo come un miraggio, come se fosse una cosa normalissima vivere qui, trasformare l’inospitale in casa propria e dipingere i tetti di rosso e d’azzurro.
Il Kaffi Lára è una casetta in legno bianca, meno fotogenica di altre ma più calda. All’interno ci accoglie un giovanotto in carne, sudato, ci indica prima la sala con la tv già accesa, poi lo spillatore con la birra della casa. La ricetta è segreta, molto tempo fa tale Lára è apparsa in sogno al vecchio Eyþor e gliel’ha dettata, e il vecchio Eyþor ha chiamato la birra “El Grillo”, come la petroliera britannica affondata dai tedeschi nei pressi di Seyðisfjörður nel ‘44, la guerra si era insinuata fin quassù e Lára si guadagnava da vivere friggendo il merluzzo per gli inglesi e raccontando storie di avventurieri di ogni dove. Perché Seyðisfjörður sarà anche piccolissima (653 abitanti, stando all’ultimo censimento), ma possiede da sempre un’irresistibile, sorprendente vocazione cosmopolita.
A fine ‘800 il cacciatore di balene americano Thomas Roys costruì nel fiordo la prima stazione al mondo per la lavorazione industriale della balena; nel 1906 Seyðisfjörður fu il primo comune islandese collegato via telegrafo all’Europa, poi vennero inaugurati anche due cinema e un museo; nel 1957 il grande artista tedesco Dieter Roth giunse in città per cercare l’ispirazione e trovare l’amore. Seyðisfjörður è tuttora l’unica località islandese collegata alla terraferma da un mezzo che non sia l’aereo: ogni settimana il traghetto Norröna, partenza dalla Danimarca e scalo alle Fær Øer, scarica sul porticciolo decine di automobili e di nazionalità diverse. Seyðisfjörður, sonnacchiosa sei giorni e mezzo su sette, affollata il martedì mattina, è il luogo per eccellenza del contrasto tra l’incomunicabilità e il desiderio di apertura degli islandesi, tra l’immutabile condizione dell’isolamento e una crescente voglia di affermazione, ed è per questo che la nazionale islandese ai mondiali sarebbe un fatto enorme, e sempre per questo che Seyðisfjörður è il posto migliore per attendere che si realizzi.
Foto di Joe Raedle / Getty.
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Nella sala superiore del bar la tv è accesa e il tavolo migliore occupato. Una famiglia attende il collegamento con indosso le magliette blu della Tólfan, che vuol dire “dodici”: è il nome che si sono dati i tifosi della curva islandese. Prima di ogni partita della nazionale, si riuniscono non lontano dallo stadio, nello sportbar Ölver, dove a un certo punto li raggiunge il commissario tecnico per comunicare loro la formazione prima di tutti. Heimir Hallgrímsson ha detto oggi a quelli della Tólfan che rinuncerà ad Alfreð Finnbogason, l’attaccante più in forma del momento, per avanzare di qualche metro il raggio d’azione di Gylfi Sigurðsson, il giocatore più talentuoso della squadra (nonché il più pagato della storia del calcio islandese).
È una decisione coraggiosa, la sua: modificare un assetto rodatissimo nella convinzione che per scardinare la tutt’altro che irresistibile difesa kosovara possa tornare più utile un altro centrocampista che la seconda punta. Ma la scelta di Hallgrímsson è chirurgica (trattasi di un dentista, d’altra parte; il suo studio è a Heimaey, isole Vestmann, uno dei posti più pescosi e ventosi del continente): gli islandesi faticano nella prima mezz’ora, costruiscono poco, ma non c’è proprio verso che non vincano questa partita, giocano insieme da troppo tempo per sbagliare giusto oggi. Gli occhi di capitan Gunnarsson hanno la luce dei giorni migliori. Sigurðsson si inventa il primo gol e regala una palla d’oro a Guðmundsson per il secondo, il resto è fuochi d’artificio e complimenti, è il ct del Kosovo che dice che l’Islanda è fonte d’ispirazione per tutte le piccole nazioni del mondo ed è il palchetto allestito in centro a Reykjavík, la star locale Emmsjé Gauti a rappare insieme ai calciatori. Sembra un capodanno in piazza, oppure il concerto di chiusura di una campagna elettorale, poi però attaccano le note di “Ég er kominn heim”.
«Quando l’inverno finirà io tornerò a casa / questa terra sarà il nostro luogo sacro, il riparo durante la tempesta», annuncia la seconda strofa. È una canzone del 1960, dice dell’insopprimibile tendenza di chi è nato qui a rientrare sull’isola, prima o poi; perché allontanarsi dalle bizze degli elementi dell’Islanda è opportuno, ma ritornarci necessario. “Ég er kominn heim” è diventata una sorta di secondo inno nazionale, e fa abbracciare gli islandesi negli stadi e nei bar; fa dire al presidente Jóhannesson che la qualificazione ai mondiali è un risultato che unisce la nazione, una nazione governata dal parlamento più antico del mondo ma indipendente da appena 73 anni. Il 20 maggio 1944 il 97% degli islandesi votò a favore dell’abolizione dell’Unione con la Danimarca; persino il re Cristiano X inviò un messaggio di congratulazioni al popolo islandese.
La qualificazione dell’Islanda ai mondiali è il realizzarsi di una congiuntura troppo rara e preziosa per permettersi il lusso di derubricarla a sorpresa già scartata o luogo già esplorato; di lasciarla sbranare dai leoni famelici che sono retorica e mainstream. Il modo più efficace per inviare il proprio messaggio di congratulazioni al popolo islandese è assumersi l’impegno di continuare a guardare al miracolo della squadra di Hallgrímsson con lo stesso stupore che suscita la vista di un borgo colorato riflesso dentro un fiordo al termine di una delle strade più pericolose del mondo. E magari anche con un po’ della sana essenzialità di Klara Bjartmarz, la presidente della Federcalcio islandese. Interrogata sui possibili scenari che potranno aprirsi per la sua nazionale in Russia e su quali saranno le differenze rispetto al torneo francese, ha risposto così: «Ovviamente questa volta sarà diverso. Però i campi da calcio sono uguali ovunque, il calcio è un rettangolo verde e due porte».