Claudio Lotito è ovunque. Per qualche giorno è diventato un divertente gioco su Twitter, ma ricapitolare un attimo aiuta a capire che non siamo poi distanti dalla realtà, da quello che accade da tempo, persino da prima che diventasse principale sponsor - e amico, accompagnatore, badante, ombra - di Carlo Tavecchio, che è presidente della Figc anche (o soprattutto) grazie alle mosse politiche e la capacità persuasiva dell'uomo delle pulizie (come ramo imprenditoriale, si intende) che proprio alla politica, nel medio termine, ambisce. Perché Lotito diventa un grimaldello al contrario, mentre Malagò prova a scardinare la candidatura di chi invece si è candidato e ha vinto, proprio essendo ovunque: direttamente con le società di serie A (da presidente della Lazio) e con quelle di Lega Pro (da proprietario della Salernitana) e indirettamente con quelle di serie B (perché lui e il Bari quantomeno non sono estranei). Questo è un pezzo della risposta alla domanda: “Chi è Lotito?”. Alla quale si arriva con un percorso articolato.
QUANDO ARRIVA ALLA LAZIO
Lotito ha qualcosa che non ha un corrispettivo in italiano (e forse nemmeno nel suo amato latino): una via di mezzo tra una dote intuitiva e una grande furbizia. Sa individuare una falla, proporsi come salvatore e dunque essere accettato obtorto collo. Così diventa padrone della Lazio, all'ultimo giorno utile per salvare la società dalla mannaia della Covisoc, con ventuno milioni cash versati alle 15.09 del 19 luglio di dieci anni fa: quasi nove milioni per superare la strettoia dei controlli prima dell'iscrizione al campionato, il resto per avere un po' di liquidità e ripartire, dopo il crac di Cragnotti e l'interregno di Capitalia come guida di un pool di creditori. Già qui, Lotito è furbo: vince un braccio di ferro politico, perché lui era sostenuto da Storace (all'epoca Governatore del Lazio) e Piero Tulli, l'altro contendente (che poi ha provato a creare la Cisco Roma, insomma ai laziali non sarebbe andata meglio) era sponsorizzato da Veltroni (allora sindaco di Roma). C'è la politica e l'emergenza, è dunque l'ambiente ideale di Claudio Lotito, che comincia dal 32 per cento delle quote, ma è l'eroe che tiene in vita la Lazio e dunque ecco tremila tifosi sotto la Curva Nord, da dove oggi partono i cori ostili, che festeggiano. Quello che per Lotito è «il giorno più bello della mia vita da imprenditore», per i laziali rimane comunque il giorno della resurrezione senza nemmeno essere morti del tutto.
LA POLITICA E LE SUE SPONDE
La politica non è solo nella sponsorizzazione per diventare il salvatore nella Lazio, ma anche nel versamento, visto che parte dei ventuno milioni sono anche di Mario Masini, allora parlamentare di Forza Italia. Un milione, non molto. Ma quanto basta per darsi una collocazione. Che non sarà casuale quando compie il suo capolavoro di destrezza: spalmare un debito di 150 milioni già rateizzato per cinque anni, in ventitrè anni. Alla Lotito, trovando una legge mai applicata (l'astuzia), sfruttando le pressioni dei tifosi che manifestavano dinanzi l'Agenzia delle Entrate quando ancora credevano in lui come uomo della provvidenza (la capacità di scegliere l'attimo giusto) e facendo leva sulle sue amicizie di area politica ai tempi del Governo Berlusconi (dunque, la politica), premier che disse che la Lazio fu salvata anche per motivi di ordine pubblico, ed è evidente che, insomma, una mano amica è comunque servita. A questo può aggiungersi la parte da fumetto, forzatamente istrionica per rendere le grottesche avventure dell'imprenditore «di bella presenza e con la pistola in tasca» (come lo raccontavano nel 1992, quando fu arrestato per turbativa d’asta e violazione di segreti d’ufficio in un'inchiesta sugli appalti alla Regione Lazio): il salvataggio della Lazio con la maxi-rateizzazione è raccontato come la corsa in scooter di un intrepido avvocato e riempie la letteratura come le metafore funebri di tutta le fasi del salvataggio. «Ho preso questa squadra al suo funerale e l'ho portata in condizione di coma ancora irreversibile. Spero presto di renderlo reversibile», il giorno in cui diventò presidente. «La Lazio è una società uscita dal coma, che sta in convalescenza e che deve essere messa in condizioni di non ammalarsi di nuovo», otto mesi dopo, nel giorno dell'accordo con il Fisco.
LO STADIO, L'ACQUA, IL DENARO
Lotito è questo: maneggione, un po' piovra, amico dei giusti amici. Pragmatico, perché è anche vero che ha ridotto sensibilmente il debito della Lazio. Visionario, ma con taciuto ritorno personale, perché se è vero che già dieci anni fa parlava di stadi nuovi e di proprietà dei club, è vero anche che dello stadio di cui ha parlato e del quale esiste persino un progetto preliminare non si è mai visto nulla di concreto. A parte i tentativi di far fare una legge sugli stadi su misura, infatti è sempre tra i più attivi a criticare ogni volta che escono bozze dal Parlamento con blitz andati a vuoto. Dicono voglia costruire un po', oltre lo stadio e i servizi, dicono i racconti che intorno al suo progetto di stadio c'erano vincoli territoriali invalicabili sui terreni della Tiberina individuati e l'intento di mettere su anche 12.000 unità abitative. Logico, cerca la legge (quella attuale vieta di realizzare residenze e l'assessore alla Trasformazione Urbana di Roma gli ha detto di lasciar perdere l'idea di case su terreni agricoli) e lo spazio in cui infilarsi per andare oltre il business, per mirare un po' più in alto di dove guardano tutti quelli che, magari, pensano allo stadio solo come un modo per fare calcio in condizioni economiche più solide, ma del club. Invece Lotito è questo e il morboso rapporto con il denaro è fonte di mille contraddizioni. Al di là delle scene indimenticabili e buffe come il pranzo con Andrea Agnelli in piena trattativa per la presidenza Figc e la bottiglia d'acqua portata via come un turista qualsiasi (che poi con l'acqua deve avere un rapporto strano, visto l'ultima litigata in aeroporto di rientro da Oslo con la Nazionale, quando voleva portare a bordo quattro litri d'acqua), sul confine tra business e micragna. Che poi è l'accusa dei tifosi della Lazio da sempre, da quando è finita la fiducia. Ovvero, dopo il salvataggio, dopo gli annunci. Quasi presto, perché se la prerogativa è presentarsi da salvatore e rastrellare consenso, la natura è quella di chi sfida sempre l'ambiente in cui si trova, di chi vuole cambiare tutto a modo suo, di chi fa di tutto per essere attaccato, vorrebbe essere amato ma comunque sceglie il centro dell'attenzione. E quando è in affanno, attacca: lui è quello che tocca gli interessi, ecco perché è antipatico. Dice. Un po' il primo Berlusconi, un po' l'ultimo Renzi. In entrambi i casi, di amici, per vie traverse o dirette, si tratta.
«PERCHÈ DO FASTIDIO»
Finisce quasi sempre così una discussione in cui Lotito comincia ad avere torto: lui ha ragione, tutti gli altri lo attaccano perché lui dà fastidio. Che in psichiatria sarebbe giudicato un po' infantile (tutti ce l'hanno con me) e un po' megalomane (ma perché sono meglio di loro), dunque alla fine pure uno psichiatra se la prenderebbe con Lotito per la capacità di confondere le menti altrui e pure lui si sentirebbe dire: «Dici così perché do fastidio». Lotito confonde, e lo fa con arte. Anche il latino, certe volte, è usato per questo (a parte un inutile sfoggio di cultura classica, in ogni caso da verificare). Lo disse a Cesare Lanza, in un'intervista pirotecnica (facciamo che l'aggettivo pirotecnico viene associato a qualsiasi cosa fatta Lotito, per evitare ripetizioni): «Non nego che il latino e il greco possono essere utilizzati per stordire l’interlocutore. Ma lo sport non può essere disgiunto dalla cultura. Nel calcio ci so’ troppi analfabeti». In realtà è il suo eloquio a essere stordente: tutto un “imprenditori e prenditori”, “manager e magnager”, “sinestesia”, “avulso” “escatologico”. Il resto è un vittimismo fiero. Non lo contestano, i laziali, perché ha mantenuto poche delle promesse di competitività fatte all'inizio (nemmeno la Coppa Italia contro la Roma ha ridotto le distanze: troppe sgarberie, troppe sfide, troppe provocazioni, incluso il «la Lazio la lascerò a mio figlio, non la vendo» nel giorno della contestazione più forte), lo contestano perché dice di aver tolto i privilegi, di aver moralizzato (che è un po' la sua ossessione) il mondo ultrà, e pazienza se ora lo contestano tutti, se lo mal sopportano gran parte dei laziali e poco importa se ha preso la Lazio con 49.341 spettatori di media a partita (l'ultima stagione senza di lui) e ora l'ha portato a 31.905, se ha venduto i migliori, divorato capitani (verso i quali nutre un'idiosincrasia per via del ruolo: loro rappresentano interessi dei compagni di squadra e lui a un calciatore che difende interessi, propri o altrui, lascia la possibilità di scegliere se essere ceduto o finire fuori rosa). No, tutto questo non conta: lui è vittima e se serve armeggia pure con cellulari (ah, ne ha quattro, li porta sempre con sè. E pure il rosario. E pure il vangelo) per dimostrare la ricezione di minacce telefoniche di un tifoso tempista (perché telefona in conferenza stampa) e fortunato (perché nessun presidente risponde al telefono in conferenza stampa, perché nessuno risponde al telefono in conferenza stampa). Riceve minacce e vive con due scorte, una privata e l'altra pubblica.
LOTIRCHIO, LO STIPENDIO A ZERO E LE AZIENDE NO.
Passa molto tempo a respingere accuse. Lotirchio? Macché: «Non mi riconosco, per la vita privata. Non lascio avanzi nel piatto. Nel lavoro applico dettami morali ed etici. Ma non sono tirchio, è una bufala giornalistica», che a leggerla bene pare però un'ammissione. Il resto è nella storia dei suoi rinforzi presi in extremis per risparmiare o non presi per evitare il rischio. Qualche scommessa gli riesce (l'ultima è Candreva, che i laziali non volevano perché romanista di fede), ma è sempre troppo poco o comunque poco duraturo, perché la scommessa che riesce prima o poi chiederà un ritocco dell'ingaggio e addio pace, quasi sempre. Perché la Lazio non è una questione di soldi, sostiene da quando è diventato presidente e ha annunciato che non avrebbe percepito stipendio (vero: nel bilancio la sua voce è “zero”), anche se poi ha forse un po' frainteso l'internalizzazione delle risorse, visto che, ad esempio, nel bilancio trimestrale gennaio-marzo 2014, per dirne uno recente, ci sono nei costi 310mila euro per la vigilanza a Formello della Roma Union Security, 320mila euro per la manutenzione del centro sportivo della Gasoltermica Laurentina, 240mila euro pagati alla Omnia Service per il servizio di mensa e i 3,3 milioni dati all'impresa di pulizie Lazio Snam Sud. Tutte aziende riconducibili a Lotito, che dunque non riceve stipendio, ma paga le sue imprese da una sua impresa e dunque è un po' come se Lotito pagasse Lotito (non che sia l'unico, visto che ad esempio la Samp di Ferrero prenderà soldi di sponsorizzazione dai film prodotti da Ferrero, per stare all'ultimo caso), ma forse c'è meno aria moralizzatrice nei pasticci altrui, piuttosto che in quelli del gestore (come chiamato dai tifosi in perenne contestazione) laziale. O almeno c'è silenzio.
LA LEGA, LA FIGC, LA NAZIONALE
A gennaio 2013 si doveva votare il presidente della Lega di serie A, e Andrea Agnelli non voleva più Maurizio Beretta. Voleva rompere un pezzo di governo del pallone e cambiare facce. Puntava su Abodi e Lotito no. Infatti fu proprio lui lo stratega del fallimento di Agnelli: fece andare a vuoto le candidature di Abodi e Simonelli (sostenuto da un timido Galliani), poi ha raggruppato molte piccole e ha vinto. Beretta presidente, Lotito trionfatore: e fuori dagli accordi società che, di fatto, rappresentano il 70 per cento dei tifosi italiani. Del consenso esterno sostanzialmente se ne frega, le manovre interne sono il suo forte. E sono ciò che gli ha permesso di raddoppiare, dunque di rafforzarsi, quindi di essere l'unico vincitore della feroce battaglia per Tavecchio in Figc. Ha partecipato a tutte le assemblee, ha sfidato chiunque, con il suo modo di fare non necessariamente diplomatico (se si cerca “Lotito rissa” su Google, escono liti a volte anche manesche con De Laurentiis, Ulivieri, alla Domenica Sportiva, con Zamparini, Abete e altri ancora), ha ignorato ogni accusa e difeso il suo candidato (che in fondo era lui stesso) non necessariamente con argomenti convincenti, ma anche solo per difenderlo, mentre ancora una volta operava con astuzia politica, andandosi a riprendere i tasselli che Malagò cercava di portare via, richiamando società (anche in cambio di favori di mercato, come sempre tutto legittimo, tutto nelle pieghe delle norme), anticipando comunicati dei ribelli per bruciarne le intenzioni, operando da squalo della Prima Repubblica ma dicendo di essere osteggiato perché lui è il nuovo. Quindi, ecco che ritorna, “dà fastidio”. E alla fine ha vinto lui, anche in questo caso emarginando componenti fondamentali come arbitri, allenatori, calciatori e società come Juve e Roma (Agnelli, diciamolo, non la spunta mai contro Lotito), dunque rispondendo a giochi di potere e non necessariamente alla logica. E dopo la Lega e la Figc gli mancava la Nazionale, per completare la sua anche un po' esibizionistica collezione: voleva la delega agli Azzurri, oltre alla vicepresidenza, come premio al suo successo elettorale, ma poi ha mimato il beau geste della rinuncia, quando Malagò almeno sulle cambiali di Tavecchio l'ha spuntata. Per finta, però. Perché poi Lotito è diventato il delegato ombra della Nazionale e il vice di fatto di Tavecchio (vice, giusto per essere eleganti). Aggirandosi tra gli azzurri con tanto di felpa e anche qui sfruttando il regolamento sempre sul filo sottile tra il “si può” e il “ma sarebbe meglio di no”: «Sono un consigliere del comitato di presidenza della Figc e ho pieno diritto di stare al seguito del gruppo», ha detto, senza però aggiungere che Beretta (al quale ha lasciato la vicepresidenza vicaria della Figc, sapendo comunque di essere in debito di un'elezione in Lega), Ulivieri e Mambelli (gli altri tre componenti del'Ufficio di Presidenza non hanno lo stesso presenzialismo, soprattutto non indossano la felpa dell'Italia con tanta disinvoltura, nemmeno quando incidentalmente piove, come è accaduto a Bari ed è diventato giustificazione per quelle foto imbarazzanti scattate al San Nicola, pure quando non pioveva più. Un nuovo infilarsi in uno spazio vuoto, lui che surfa tra le pieghe nascoste delle leggi vigenti.
La Nazionale è un vezzo, una civetteria di chi guarda al Parlamento, dove si scrive la legge sugli stadi (e c'è quell'inghippo sulle aree residenziali), ha in mano la Lega (dove si spartiscono i diritti tv) e ora anche la Figc, che tra le prime proposte di riforma ha inserito le multiproprietà. Eccoci al piano completo.
LA LAZIO? MA ANCHE LA SALERNITANA. E SUL BARI...
Sulle multiproprietà Lotito ha tirato fuori il suo eloquio fatto apposta per stordire: «Sulle multiproprietà c’è disinformazione. Danno la possibilità di far coesistere la valorizzazione dei giovani, l’aumento dei ricavi e la tutela sociale del territorio mentre le seconde squadre porterebbero a un raddoppio dei costi e a una sperequazione territoriale». Chi non è svenuto a sperequazione territoriale, però, si sarà pure ricordato che Lotito è pure comproprietario della Salernitana in Lega Pro (presa in serie D), con il cognato Marco Mezzaroma e che, tanto per fare un esempio, di quel famoso trimestre di bilancio ci sono anche 360mila euro passati dalla Lazio alla Salernitana, «per l’utilizzo di diritti commerciali e pubblicitari» legati a un non meglio precisato «obiettivo d’impiego e valorizzazione del patrimonio sportivo soprattutto del settore giovanile». Tralasciando il pessimo rapporto che ha anche a Salerno con la tifoseria (ma in fondo una domanda bisognerebbe porsela), il fatto è che in granata arrivano giovani aquilotti a decine e nessuno fa mai il percorso inverso. Damiano Tommasi, presidente dei calciatori italiani, non ha usato giri di parole: Lotito ha creato una succursale e Lotito stesso non è che abbia migliorato la situazione quando ha detto che «nella Salernitana ci sono undici giocatori della Lazio per stipendi complessivi di un milione e trecentomila Euro ma lo stipendio lo paga la Salernitana, non la Lazio. La Lazio intasca la pubblicità della Salernitana, siamo l’unico club che ha una società cadetta a cui non paga premi di valorizzazione e che si fa carico anche degli ingaggi». Come proprietario della Salernitana, Lotito quando si doveva votare per la Figc, ha partecipato all'assemblea dei club di serie B, dopo aver partecipato a quella delle società di serie A da presidente della Lazio. Una sorta di Pippo Franco moderno, che correndo da una curva all'altra gira la casacca e diventa altro. Si fermasse, almeno. E invece su di lui aleggia il sospetto che sia l'uomo-ombra (dev'essere un ruolo che gli piace) del Bari. Una escalation che ricorda il miglior Gaucci, se un giorno qualcuno confermerà. Per ora il Bari ha Paparesta come presidente e proprietari appena sussurrati e di indizi quantomeno di forte legame ci sono, a parte la famosa cena tra l'ex arbitro e il multiproprietario. Si prenda il prestito di Filippini, Rozzi, Minala, tra i migliori della Primavera e dunque tra quelli pronti a giocare in B, ci si appunti la scelta di Mangia come allenatore (caldeggiato da Lotito come tramite di Sacchi ) e si reputi quantomeno strana l'idea di far svolgere il ritiro della Primavera laziale a Bari, non esattamente la città più indicata per clima e collocazione geografica per un precampionato, e infine l'indicazione di Stefano Antonelli, uomo legato a Lotito da forte rapporto, come direttore sportivo. Poi c'è la rivelazione di Dagospia su un autentico accordo di potere, perché di Lotito sarebbe il trenta per cento e il resto della proprietà sarebbe di Infront, la potentissima società che gestisce i diritti televisivi e che si dice abbia anche spinto molto (per dare l'idea della sua influenza) sulla nomina di Antonio Conte in Nazionale per rendere più vendibile il prodotto-Italia. Paparesta si è limitato a un «ho un ottimo rapporto. Abbiamo preso tre ragazzi di 20 anni della Lazio ed è un affare come tutti gli altri. Ma con il Bari lui non c'entra nulla», ma il dubbio continua a circolare per cui, se non con i propri capitali (in effetti, stiamo parlando di soldi e Lotito...) almeno in modo indiretto con i galletti il patron di Lazio e Salernitana c'entra. E quindi, per spiegare il suo potere, durante la campagna per Tavecchio era presente in Lega A, Lega B e Lega Pro. Era ovunque anche prima, proprio come adesso che però è diventato un gioco. Più o meno questo è Lotito, uno che per stordire gli altri non ha in realtà nemmeno bisogno del latino. Basta provare a seguirlo.