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L'uomo che doveva salvare il baseball
23 ago 2016
Morti, resurrezioni e follie di A-Rod, ritiratosi qualche giorno fa.
(articolo)
12 min
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Il rumore degli scatti delle macchine fotografiche va e viene. Quando alza la testa e guarda dritto chi gli sta di fronte aumenta il fruscìo. Quando riabbassa gli occhi sul tavolo della sala stampa dello Yankee Stadium, su cui c’è riposto il foglietto che ha scritto «perché non vuole dimenticare nessuno», tacciono. Ad un certo punto fa una pausa per ricacciare indietro le lacrime. Si mette una mano sul viso e inclina di nuovo la testa. Il frinire metallico degli scatti si fa più forte. Poi si toglie il cappellino, gli occhi sono lucidi. A quel punto Alex Rodriguez ha già annunciato che si ritirerà. Per lui le luci sul diamante si spegneranno venerdì 12 luglio in un’anonima partita contro Tampa Bay.

Perché uno dei più grandi e controversi giocatori della storia del baseball sia arrivato all’addio improvviso con il baseball giocato, quando gli resta ancora un anno e mezzo di contratto con i New York Yankees e appena quattro home run per raggiungere quota 700 (finora superata solo da Ruth, Aron e Bonds) non è ancora del tutto chiaro. Una chiave di lettura della vicenda è riposta forse nelle 22 stagioni di Major League Baseball di A-Rod, durante le quali l’uomo e il giocatore di baseball hanno vissuto almeno tre vite differenti e assolutamente inconciliabili tra di loro.

Come il “salvatore del baseball”, diventò “A-Fraud”

Nel 1996 Alex Rodriguez per Sports Illustrated era “The fairest of them all”. Dietro al talento purissimo appena 21enne, selezionato da Seattle con il numero uno assoluto al draft del ’93 e capace di esordire nell’Mlb solo un anno dopo, c’era infatti un ragazzino che si professava un devoto cristiano e che durante l’off season andava a letto alle dieci insieme al suo migliore amico, un pastore tedesco di nome Ripper. Per farsene un’idea basta dare un’occhiata alle foto dell’epoca, che lo ritraggono sorridente, con un volto in cui c’è ancora qualcosa di fanciullesco, mentre dispensa autografi ai tifosi. In realtà gli sportswriter americani si spinsero oltre, ricamando attorno alla figura del giovane A-Rod. Lo definirono umile, generoso, perfino “il Richie Cunningham con l’accento ispanico”. Durante lo sciopero del ’94, che cancellò la post-season e, per la prima volta dal 1904, le World Series, qualcuno (un editorialista del Miami Herald) ipotizzò che il suo talento unito alla sua innocenza avrebbe salvato il baseball, uscito con le ossa rotta dalla vicenda.

Alex Rodriguez non si sottraeva al gioco. All’epoca giocava shortstop, il suo ruolo naturale, in una squadra che poteva vantare Ken Griffey Jr e Randy Johnson, due futuri all-of-famers. «Paragonarmi a Junior (Ken Griffey) è un insulto per lui. Lui è il migliore», diceva il giovane A-Rod parlando del compagno di squadra. Rodriguez era davvero un ragazzo speciale. Nel ’96 si impose come uno dei migliori giocatori d’America battendo .358 con 36 home run. Due anni dopo ne mise a segno 42, un numero sostanzialmente replicato anche nel ’99 e nel 2000.

La luna di miele tra l’opinione pubblica e A-Rod finì proprio all’alba del nuovo millennio. Nel 2001 Rodriguez firmò da free agent il contratto fino ad allora più oneroso della storia dello sport: 10 anni per 252 milioni di dollari. L’assegno da un quarto di miliardo glielo consegnò Tom Hicks, proprietario dei Texas Rangers, che per l’intera franchigia, rilevata qualche tempo prima dalla famiglia Bush, aveva versato due milioni di meno.

Da quel momento l’innocente che avrebbe salvato il baseball, si è trasformato per tutti in un avido giocatore a caccia di soldi. Il passaggio ad una squadra mediocre come Texas, architettato dal genio del male dei procuratori (tale Scott Boras, uno bravo a spremere soldi dai proprietari), cambiò immediatamente il quadro della situazione. «A Seattle aveva Lou Pinella (il coach) che gli voleva bene come un padre. Aveva una buona situazione ed una buona organizzazione. Adesso se ne va a Texas con un contratto ridicolo (propostogli) da un proprietario idiota con una squadra che fa schifo», spiegò Bill Madden del New York Daily News.

Le previsioni, purtroppo per A-Rod, furono azzeccate. Il giocatore durante i tre anni a Texas ha fatto il suo per intero, segnando il numero maggiore di home run della lega per tutte e tre le stagioni e vincendo nel 2003 il primo titolo di Mvp. Ma la squadra è naufragata, mettendo insieme tre stagioni perdenti con un massimo di 73 vittorie che significava l’ultimo posto nella propria division.

La permanenza a Texas si era trasformata nella classica prigione dorata e chiaramente questo stato di cose al giocatore e al suo entourage non stava più bene. Più tardi lo stesso A-Rod si sarebbe pentito del trasferimento in Texas, ammettendo che avrebbe fatto bene ad accettare l’offerta meno vantaggiosa dei Mets (che peraltro era la squadra per cui tifava da bambino), invece di dare retta a Boras e al denaro.

La tappa successiva fu perciò quasi obbligata: andare agli Yankees, uno dei pochi club che poteva finanziare il suo ricchissimo contratto e con cui poteva sperare di ottenere un titolo. La scelta però lo costrinse a spostarsi in terza base, perché nel ruolo di shortstop giocava Derek Jeter. Quando un giocatore passa agli Yankees sa che i tifosi d’America lo odieranno di più. Però almeno può contare sulla restante cospicua parte del tifo. Almeno in teoria.

Infatti il timing dell’arrivo di A-Rod a New York non poteva essere peggiore. Nel 2004 gli Yankees, sbattuti fuori nelle Championship Series proprio dai Red Sox, videro Boston vincere il titolo per la prima volta in 86 anni. Rodriguez giocò malissimo la post-season e per non farsi mancare niente fu autore di un gesto sleale nei confronti di Bronson Arroyo.

Curt Shilling, lanciatore di Boston, commentò così l’episodio: «Derek Jeter secondo voi l’avrebbe fatto?».

Sebbene A-Rod continuasse ad ammassare home run e titoli Mvp (nel 2005 e nel 2007 ne vinse altri due) la sua immagine peggiorò ulteriormente. Joe Torre, a quell’epoca allenatore degli Yankees, nel libro The Yankees Years lo definì “the vain athlete”, interessato più all’apparenza che alle prestazioni in campo. Per i tifosi inoltre A-Rod non era un vero Yankee.

Su questo giudizio pesava la scelta opinabile, avvenuta a ottobre 2007, di annunciare, senza avvisare il club, che avrebbe terminato anzitempo il rapporto con gli Yankees, sfruttando una clausola rescissoria sul contratto, con l’obiettivo di rimettersi sul mercato in cerca di più soldi. Il piano riuscì parzialmente. A-Rod infatti un mese dopo firmò un nuovo contratto (10 anni per 275 milioni di dollari, avrebbe giocato fino a 42 anni) ma sempre con gli Yankees. Una storia non del tutto chiara che determinò la rottura dei rapporti tra Rodriguez e Boras, criticato in seguito dal giocatore per la gestione dell’intera vicenda.

In quelli stessi anni A-Rod diventa protagonista delle cronache rosa. Rompe il matrimonio con la moglie Cynthia per supposta infedeltà, rompe con Madonna e con molte altre celebrità, finendo sui giornali più per le cose che succedevano fuori dal campo anziché per quelle sul diamante. Sembrava un Joe Di Maggio 2.0 con in più una marcata sfumatura narcisistica. Fino al 2009, quando gli Yankees si portarono finalmente a casa il titolo e lui con 6 home run nei playoff contribuì alla causa, restò però a secco di successi.

Dopo aver dimostrato che i soldi che guadagnava servivano anche a far vincere la squadra, sembrò che le cose, almeno con i tifosi, potessero andare a posto, tanto che questi ultimi furono disposti a chiudere un occhio su storie ancora più gravi, successe solo pochi mesi prima.

Nel 2009 e nel 2013 venne coinvolto in due scandali sul doping. Nel primo caso ammise di aver fatto uso di steroidi dal 2001 al 2003, dopo che solo due anni prima aveva negato le presunte illazioni.

«Per la cronaca, ha mai usato steroidi, ormone della crescita o performance-enhancing-substances?» «No».

Siccome i fatti risalivano al 2003, un periodo in cui non era prevista squalifica, dal punto di vista sportivo se la cavò piuttosto facilmente. Ma aver mentito di fronte all’opinione pubblica significò varcare un punto di non ritorno. A-Rod però andò ancora oltre nel 2013, quando ci ricascò con il doping durante la vicenda Biogenesis. Anche in questo caso, si professò inizialmente innocente, fece causa alla lega e al medico degli Yankees, si appellò alla maxi squalifica, nonostante gliela avessero ridotta da 211 partite a 162. Alla fine, di fronte all’evidenza, fu costretto a cedere e a restare fuori per tutto il 2014.

Il talentuoso ragazzino acqua e sapone, quello che con la sua innocenza doveva salvare il baseball era diventato un avido, corrotto e bugiardo. Sui suoi record peraltro si allungava l’ombra degli steroidi. Il calembour era praticamente servito. Per tutti era diventato “A-Fraud”.

Perché la decisione di lasciare a metà agosto

L’ultimo capitolo della storia di A-Rod deve ancora essere scritto. Dopo la squalifica torna al baseball e sembra un’altra persona. Scrive una lettera di scuse ai tifosi, si presenta tirato a lucido allo spring camp e comincia a martellare home run come ai bei tempi. Alla fine dell’anno saranno 33. Il primo maggio aggancia Willie Mays a quota 660, quarto di tutti i tempi.

Qualche mese dopo raggiunge le 3000 valide in carriera. In un clima di sostanziale ostilità da parte dei tifosi e del club la celebrazione avviene dopo un’iniziale diniego. È il segnale di un disgelo nei rapporti tra Rodriguez e gli Yankees, che gradiscono finalmente il suo basso profilo, il contributo tangibile ai successi della squadra (e non solo ai suoi) e soprattutto il ruolo di guida per i giocatori più giovani. «Credo sia molto importante e parte della nostra responsabilità, in quanto veterani, far maturare più velocemente i giovani giocatori». Parola di A-Rod versione 2016. Da primadonna a mentore l’evoluzione è compiuta. Chiedersi cosa possa insegnare, sotto determinati aspetti, un giocatore come lui resta peraltro tutto da verificare.

All’inizio del 2016 inizia a parlare di ritiro che sarebbe potuto avvenire a fine 2017, alla scadenza naturale del contratto. Ma la stagione non va come la precedente. Infortuni, scarsa produzione, tanta panchina. Gli Yankees decidono di avviare un processo di ricostruzione della squadra. A fine luglio partono Chapman, Miller e Beltran. Texeira annuncia il ritiro a fine stagione. Pochi giorni dopo, capìta l’antifona, lascia pure A-Rod. Anzi, no. Resta uno Yankee fino alla scadenza del contratto, che gli sarà interamente pagato, come ambasciatore, istruttore e consigliere personale della proprietà.

L’impressione è che A-Rod e gli Yankees abbiano trovato un accordo che in sostanza salva la faccia ad entrambe le parti. A-Rod evita di chiudere la carriera nel modo più desolante possibile, ovvero masticando semi di girasole in panchina, oppure tagliato come un giocatore qualunque. Gli Yankees, che evidentemente devono avergli fatto capire che durante il processo di ricostruzione doveva farsi da parte, gli negano il “farewell tour”, riservato a stelle come Derek Jeter o Mariano Rivera. Che poi resta da capire come il pubblico d’America, e gli stessi tifosi degli Yankees, avrebbero salutato A-Rod, considerato che lo fischiano ininterrottamente da 15 anni.

Ma d’altronde Steinbrenner sulla vicenda poco piacevole del rinnovo contrattuale nel 2007 e sulle storie di doping, compresa la causa al medico sociale (nella quale A-Rod adombrò un complotto, seppur non direttamente riconducibile agli Yankees, per tenerlo lontano dal diamante durante lo scandalo Biogenesis) non poteva passarci sopra come se niente fosse.

Di qui la scelta di evitare ad A-Rod un’umiliazione più grande ma nemmeno di tributargli gli onori delle armi. Una via di mezzo sintetizzata dallo stesso giocatore quando, relativamente all’addio, ha affermato che è un giorno «sia felice che triste» e che comunque stare in panchina nelle ultime settimane era stato «doloroso» e «imbarazzante». Inoltre rispetto a Texeira, che occupa ancora un posto preciso in campo in prima base, Rodriguez è ormai relegato al ruolo di battitore designato. Ed infine se A-Rod non avesse accettato la proposta degli Yankees molto probabilmente avrebbe subìto l’onta del taglio.

E così venne il giorno dell’ultima partita, anticipata da tuoni, fulmini e pioggia che hanno reso «biblico» l’evento. Alla cerimonia d’addio hanno presenziato Reggie Jackson e Mariano Rivera, è arrivato un video messaggio di Lou Piniella e Jessica Steinbrenner Swindal, la sorella del proprietario Hal, gli ha donato una base autografata da tutta la squadra. Rodriguez ha salutato con un rbi nel primo inning. Nell’ultima ripresa Girardi lo ha perfino spostato in terza base, regalandogli l’ultimo tributo della folla, che puntualmente ha intonato «Let’go A-Rod». «Ho causato tanti mal di testa ai tifosi in tutti questi anni. Ho deluso un sacco di gente», ha riconosciuto A-Rod nel dopo partita, guardando indietro ai suoi anni da Yankee. «Con tutte le mie cazzate e i miei comportamenti sbagliati, il fatto che Hal (Steinbrenner) mi voglia ancora nella famiglia, è per me come battere 800 home run», ha aggiunto A-Rod in risposta ad alcune speculazioni secondo cui Rodriguez potrebbe proseguire la propria carriera a Miami.

Al di là del futuro rapporto con gli Yankees, francamente impossibile da quantificare in termini di impegno e soprattutto di prestigio, l’ennesima vita di A-Rod sarà molto probabilmente di fronte ad una telecamera, in veste di opinionista di Fox. Del resto il suo debutto, avvenuto lo scorso anno durante le World Series, è stato impressionante. A-Rod ha fatto intravedere un talento innato per il ruolo di stella del piccolo schermo, dimostrato anche da una perfetta comparsata al “The tonight show” di Jimmy Fallon, nel quale ha fatto autoironia su alcuni errori del passato. E fare bella figura in uno show televisivo del genere, come ha spiegato David Foster Wallace, non è per niente facile.

Alex Rodriguez resta una figura non catalogabile in uno stereotipo, che spesso è il risultato del lavorìo di media e scrittori sportivi. Le scelte che ha fatto, gli errori che ha compiuto, ma anche il talento che ha dimostrato sul diamante (al netto del doping), si mischiano tra di loro, non permettendoci di dare un giudizio molto definito sul personaggio. In tutti i casi sarebbe sbagliato separare la figura di A-Rod dal contesto in cui ha vissuto una parte della sua carriera, ovvero la steroid era. Chissà che quando scadrà il termine per l’ammissibilità di A-Rod nella Hall of Fame un concetto di questo genere acquisti dignità nel dibattito della BBWA (The Baseballs Writers Association of America, che decretano chi entra e chi resta fuori) e che magari le porte di Cooperstown si schiudano anche per lui.

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