La prima volta che ho conosciuto Federico Buffa ci trovavamo su un’auto in attesa di partire alla volta di Treviso, per la presentazione del suo libro Black Jesus - The Anthology con Libreria dello Sport. Io avevo iniziato solo da qualche mese a Rivista Ufficiale NBA e, quando mi hanno introdotto per spiegare la mia presenza su quell’auto, si è girato verso di me dicendomi solo: “Piacere, Federico”.
Avrei voluto rispondere: Sì. Lo so chi sei. Non c’è bisogno che ti presenti. È da quando ho 13 anni che sei il mio idolo. Mi venne solo “Piacere, Dario”.
Poi, con il passare degli anni, da “l’Avvocato” è diventato semplicemente Fede. Sono addirittura riuscito a guadagnarmi il mio nickname, che scoprirete più avanti nel pezzo. Cosa che non avrei mai ritenuto possibile solo fino a cinque anni fa, e che invece ora do quasi per scontata. Spesso ricordo a me stesso che non dovrei.
Quando nella redazione de l’Ultimo Uomo è nata l’idea di fare questa serie di interviste ai nostri “punti di riferimento nel giornalismo sportivo”, è logico che il primo nome che mi sia venuto in mente fosse il suo. E penso che lo stesso sia anche per voi, e che non abbiate bisogno di una mia presentazione per sapere di chi stiamo parlando. Questa intervista risale a metà novembre, quando aveva appena finito di registrare l’intervista con Paolo Condò per SKY e a poco più di un mese dalla Reunion con Flavio Tranquillo. Per questo alcune cose che leggerete le avrete già sentite in quei programmi — ma se c’è una cosa che mi ha insegnato Buffa, è che non si finisce mai di (voler) imparare.
D’altronde The Disease me l’ha attaccata lui.
Dario Vismara: Vorrei iniziare con una domanda secca: ti consideri ancora un giornalista?
Federico Buffa: Mai stato.
Com’è cambiata la tua vita negli ultimi tre anni?
L’ho riprogrammata. Per vent’anni ho vissuto la mia vita in maniera stagionale, cioè si iniziava a Halloween e si finiva a metà giugno, quindi staccavo da tutto per quattro mesi e andavo avanti ciclicamente così. La vivevo di notte, tanto. Adesso è pensata in un altro modo: leggo cose diverse, e quindi devo accedere diversamente alle cose che devo fare nella mia vita lavorativa. Fare meno America, da questo punto di vista, incide: perché se tu sei così dentro agli Stati Uniti, continui a prendere cose che vengono dalla scena contemporanea. Se invece non sono gli Stati Uniti quello che leggi, improvvisamente certe cose che prima ti venivano facili, ora non ti vengono più. Cambia il lavoro di supporto, come le cose che leggo. Quelle sono cambiate radicalmente.
Cosa leggi di diverso per preparare la storia di un giocatore che prima non leggevi per la telecronaca di una partita?
La NBA è attualità, è quello che è successo ieri e quello che succederà domani. Se fai un lavoro di flashback, invece, hai un enorme bacino di informazioni a cui puoi accedere, perché è stato scritto molto di più di quello che si pensi. Tante volte dici: “Ma su questo non è stato scritto niente”. E invece non è vero, sembra che sia stato scritto qualcosa su tutto, solo che andare a trovare materiali degli anni ’50 e ’60 è più difficile.
Dopo che per 15 anni il basket è stato tutto, che rapporto hai ora con il gioco?
È incredibile. Ho fatto un calcolo alla lettura dei roster e per la prima volta mi sono accorto che c’era un buon 25% di giocatori che non avevo mai visto giocare neanche una volta nella mia vita, neppure in video. Anni fa era più improbabile.
Adesso come riesci a seguire la NBA?
La guardo in maniera non analitica, da fruitore: questa settimana avrò visto tre partite, però quella di stasera [Memphis-Minnesota, ndr] non me la perdo per nessun motivo al mondo. Rimane nettamente il campionato più eccitante del pianeta: l’unica altra cosa che guardo a parte l’NBA sono le partite del Real Madrid e a volte il Barcellona.
Te la godi di più?
Sì, me la guardo per puro piacere di guardarla. Per esempio una volta io non mangiavo durante le partite NBA: non potevo toccare niente, potevo fare solo quello. Adesso posso andare anche in cucina a prendere una cosa e tornare indietro. Una volta non sarebbe mai neanche potuto succedere.
Ti manca?
Sì, ooooh. [Fate finta di prenderlo come sinonimo di “a voja”, ndr]
Potessi tornare indietro rifaresti le scelte che hai fatto?
Senza alcun dubbio. Però mi manca la quotidianità del seguirla, che è un’altra cosa. Soprattutto leggere la brillantezza di un certo qual coverage degli americani di alto livello, che noi ci sogniamo.
Qualche tempo fa ho assistito ad un evento di Rivista Studio in Triennale in cui Federico Ferri e Lele Adani ogni tre frasi parlavano di basket NBA e di come prendessero spunto da quello per fare calcio in televisione. Hai notato un incremento di interesse negli ultimi anni per il “nostro” sport?
Io sono contentissimo che Flavio sia riuscito a dimostrare cosa può essere la NBA quando viene seguita in maniera un pochino più strutturata. Perché un conto è prendere i diritti e un conto è fare la NBA. Farla vuol dire sostenerla, darle più visibilità, contenuti più ampi, costruire un sistema per catturare più attenzioni. Negli ultimi due anni questo è stato fatto molto bene — ad esempio tornando a rifare le Finali in loco — e a quel punto l’NBA risponde. La serie tra Warriors e Cavs dell’anno scorso credo che abbia fatto i migliori numeri dai tempi di Jordan, televisivamente parlando.
Quando ho intervistato Flavio gli ho chiesto come aveva osservato da lontano il tuo percorso post-basket, lui mi ha risposto che era “sorpreso della sorpresa”, come a dire: adesso vi siete accorti che sa fare questa cosa qua? Anche tu hai avuto questa sensazione?
No, se no lo avrei chiesto prima. Però è più facile vederla da fuori, e capisco perché lo dice: noi “del basket” siamo sempre venuti un po’ dopo, eravamo all’interno delle “Varie” e, nonostante si facesse un grande lavoro, passava pressoché inosservato. Era evidente che non ci fosse grande interesse per qualsiasi cosa fossimo, perché avevamo una fan base piccola. E chiudendosi nella pay per view, veniva esclusa una grossa fetta di pubblico in chiaro. Per molte persone il telecronista della NBA è ancora Dan Peterson.
In realtà Flavio ti sta dicendo: se Federico Ferri non fosse così “baskettaro", non avresti mai sentito parlare di Buffa Racconta. Ed è andata letteralmente così, perché Ferri era uno che seguiva l’Auxilium Torino ai tempi di Darryl Dawkins, e se non ci fosse stato lui, o se al suo posto ci fosse stato un normale redattore, nulla di tutto questo sarebbe successo. E Ferri, essendo un uomo particolarmente intelligente, si è accorto che il telecronista Tranquillo è solo la punta dell’iceberg, perché il conoscitore televisivo è addirittura superiore al telecronista. E quindi lui ha sempre guardato a Flavio — che infatti ha coinvolto per addestrare i telecronisti del calcio — e pesca continuamente dalla redazione basket, che è un po’ il Porto dentro a SKY: come vengono creati e valorizzati i giocatori che poi il Real Madrid va a comprare, loro creano giornalisti.
C’è stato un momento che ha rappresentato un turning point per la tua carriera?
Ieri sera a Saronno ho raccontato un dettaglio della mia vita di cui sono venuto a conoscenza solo qualche mese fa. Andrea Bassani, che era direttore di Tele + nel 1994, mi telefonò mentre ero seduto su una sdraio in una casa di campagna, in pieno patto di non concorrenza — vale a dire: come prevede il diritto italiano, se liquidi un socio puoi chiedergli un patto retribuito di due anni per cui non lavori nel campo dove la società operava — e io mi trovavo proprio a pochi mesi dalla scadenza di quel patto coi miei ex soci. Non ero così sicuro di cosa avrei fatto, ma non volevo fare più quello che avevo fatto prima. Mi arrivò questa telefonata e non lo feci arrivare nemmeno a metà: beh sì, vengo a fare il college basket, stai tranquillo, non è un fatto economico. E andai. Ma dopo aver fatto la Maryland di Joe Smith contro Arizona State come prima partita giocata al Maui Invitational insieme a Claudio Arrigoni, Andrea Bassani mi disse che l’amministratore delegato lo chiamò e gli disse: “Quant’è che costa questo qua?”. “Niente, 200mila lire a telecronaca”. “Ecco: dagliene 500 e non lo voglio sentire mai più. Perché queste telecronache possono andare bene per 20 persone, quelli come lui che vedono il mondo come lo vede lui. Ma non è quello di questa televisione: noi dobbiamo fare una comunicazione sportiva diversa e questo non ci serve a niente”. E Andrea disse: “Dai facciamo un altro paio di telecronache. E poi abbiamo preso i diritti di questa roba, qualcuno la deve fare: certo, possiamo mettere un ex giocatore, più simile a quello che volete voi, più canonico, però aspettiamo”. E l'a.d. disse “Ok, fai”, ma due settimane dopo confermò la sua idea di volermi cacciare. Andrea poi non mi ha spiegato bene come lui riuscì a proteggermi, probabilmente disse una cosa tipo “Ma veramente, costa così poco, aspettiamo i primi responsi, magari c’è una buona risposta da un pubblico giovane”. Ma se Andrea non avesse insistito, o sopratutto se l’a.d. avesse insistito a far valere il suo potere, la mia carriera sarebbe finita nel giorno in cui iniziava. Cioè giovedì inizio e venerdì fine. E allora non saremmo qui a fare questi discorsi, e io sarei chissà dove.
Questo aneddoto è stato poi raccontato anche in The Reunion
Qualche tempo fa hai definito il basket come The Disease, perché porta con sé una voglia continua di imparare e apprendere: ce l’hai ancora?
In altri campi, ma sì.
Come riesci a farla coesistere con le persone che ti stanno intorno?
Io ho due soli pregi nella mia vita: la memoria e la scelta degli autori, che ne sanno più di me. Quindi in realtà è molto semplice.
Ti ho fatto questa domanda perché Paolo Condò, nella prima intervista con noi, ha detto: “Questo è un mestiere infernale: finché tu sali sei motivato, vuoi vedere cosa c’è dopo; quando ti fermi diventa duro, perché ti accorgi che non hai sabato e domeniche liberi ed hai divorziato come la maggior parte dei giornalisti”. E, aggiungo io, che forse non ne vale la pena.
Questa è un’eccellente analisi a cui però io non posso aderire, perché non ho moglie e figli. Se io dovessi vedere il mondo con la responsabilità di una famiglia sulle spalle, allora penso che sarebbe molto diversa la questione della Disease. Ma non ce li ho, quindi non ho questa responsabilità: se alle 4 del mattino mi voglio mettere a leggere una cosa o vedere una cosa, lo faccio. Non c’è limite. Posso capire però che lui abbia sacrificato tanto della sua famiglia e questo possa essere costato. Però Paolo l’ho visto bene l’altro giorno dai, quando abbiamo fatto l’intervista per SKY.
No ma quello è sicuro, è solo la paura — che forse è solo mia, può darsi — che questa voglia incessante di sapere, capire e apprendere finisca per divorare tutto il resto.
Lo è, come però tutte le ossessioni in qualsiasi campo. È un fatto ossessivo. E solo quelli veramente bravi, tipo Flavio, riescono ad avere quella forma ossessiva ma non essere punitivi nei confronti della famiglia.
Per diventare veramente bravi bisogna essere ossessivi? Tipo Whiplash?
Credo che tutti gli esseri umani che abbiano mai fatto qualcosa su questo pianeta avessero una base ossessiva, e quelli che hanno fatto le cose migliori credo che l’avessero particolarmente sviluppata.
Che è quello che Kobe Bryant cerca di farci capire da anni.
Lui è un’applicazione ossessiva nel campo della pallacanestro, ma anche Einstein era un puro ossessivo. Per tornare alla tua domanda iniziale, arrivi a un certo punto in cui dici: “Se volete stare con me dovete accettare la mia base ossessiva, se no non si può convivere. Ma se lo sapete fare, vi prenderete la parte migliore di me e ve ne sarò riconoscente, ma senza quella non si può nemmeno iniziare”. L’ossessivo deve sapersi scegliere quelli con cui stare.
Facendo Storie di Campioni hai ritrovato questo gene ossessivo?
Ogni campione ha un’ossessione, con delle punte incredibili. La fase ossessiva è l’unica cosa che accompagna tutti i fuoriclasse.
Quanto c’è dei tuoi viaggi nella tua carriera?
Il 99,9%. Storie Mondiali è esclusivamente basato sui miei viaggi.
E quanto c'è di tuo in Storie di Campioni? Perché ho avuto l'impressione che tu stesso fossi molto più coinvolto quando ha raccontato di Puskas, piuttosto che di Cruyff.
La puntata su Puskas l’ho chiesta e ottenuta, perché trovo che quel periodo della storia europea fosse molto affascinante. Questa angolazione est-europea cambia la prospettiva con cui lo si guarda: il finale della sua storia — ammesso che l’abbiano tenuto [Buffa raramente riguarda quello che gira, ndr] — è legata al fatto che questo uomo ha avuto una capacità di adesione incredibile ai luoghi in cui accedeva. Puskas non parlava una parola che non fosse ungherese, ma possedeva una lingua calcistica eccezionale e una familiarità personale superiore dovuta a un’intelligenza relazionale mostruosa. E così si è creato un percorso di esistenza bellissimo: scappando, tornando, rientrando.
Non so se hai mai visto il film Mephisto, in cui nell’ultima scena questo attore molto legato al nazismo prende gli ultimi applausi e si accorge che il mondo che lo circonda gli dà una responsabilità maggiore rispetto a quella che lui vuole. Secondo me Puskas nell’Ungheria di quegli anni aveva più responsabilità di quella possibile per un essere umano. La storia di quando lui, tornando da Londra con la squadra, ci mette 9 ore per percorrere il chilometro e mezzo che lo separa da casa perché città intera si era riversata davanti alla stazione, da quel punto di vista dice tutto. Lui rappresentava molto di più di un grande calciatore. E secondo me è uno dei motivi per cui lui, appena ne ha avuto la possibilità, è andato da un’altra parte: non credo che sia un fatto economico, ma perché per lui era impossibile continuare a vivere in quel contesto lì. Troppo difficile. Mi affascina da morire. Per me è la storia più bella di tutte.
In Buffa Racconta hai fatto un solo contemporaneo, Cristiano Ronaldo.
Sì, ma l’ho fatto malvolentieri: coi contemporanei non sai mai l’intera parabola di vita, perché solo quando hai il ritratto completo puoi dare più facilmente un’indicazione. Però mi piaceva l’idea di Madeira, isola ponte di civilizzazione, e lui che viene da lì.
La nostalgia e il “passatismo" sono ingredienti fondamentali dello storytelling sportivo?
Pensa che io mi ritengo un non-nostalgico, e poi mi accorgo che molto spesso lo sono più di quello che vorrei. Questo secondo me è dovuto alla memoria, che per me è un fatto importantissimo. La memoria, nella mia visione del mondo, rende liberi, o contribuisce a farlo. La memoria è un muscolo che va irrorato di sangue, va tenuto in esercizio, va continuamente stimolato. Ho notato la differenza tra me e Flavio dal questo punto di vista: lui ha una memoria terrificante, ma non si fida; io ho una memoria molto buona ma mi fido, anche se non dovrei farlo e ogni tanto mi costa. Ma la mia devozione ha anche un altro motivo, ed è la prima volta che lo dico, e deriva dal fatto che io ho perso mia madre per Alzheimer, perciò ho visto cosa significa la perdita di identità per assenza di memoria. Essendo compatibile per genetica ad un Alzheimer, cerco di spingere la perdita della memoria il più lontano possibile da me, per prolungare la mia identità intellettuale e perdere il meno possibile. Penso che il mantenere il metabolismo e la memoria in attività sia l’unico reale strumento terapeutico per non perdere se stessi.
Federico Buffa alla Scuola Holden
Il tuo successo e il tuo modo di raccontare lo sport ha creato una schiera di giovani “impallinati”. In un’intervista li hai definiti “Maschi tra i 20 e i 30 di famiglie italiane medio-benestanti con passione per lo sport americano”.
E sono quelli lì, li ho rivisti in tutti i teatri.
Esatto: quando sono venuto a vederti a teatro mi sembrava di conoscerli tutti, anche se veramente non ne conoscevo nessuno. Che rapporto hai con questo gruppo?
È curioso perché io non ho figli, ma devo parlare con un gruppo di persone che potrebbero essere i miei figli. E non ho capito bene quale sia il meccanismo empatico del perché così tanti ragazzi attorno ai 20 anni vogliano ascoltare uno che ha l’età che ho io [56 anni, ndr]. È la cosa più lusinghiera, ma anche più difficile da capire.
Posso fare my educated guess, visto che io sono uno di quelli?
Ma tu non sei così giovane.
Beh, ho 25 anni.
Eh? Hai solo 25 anni, fucking Junior? E allora you definitely belong.
Io ho iniziato a seguire il basket per voi. Sono un figlio vostro.
Ecco forse questa è la chiave: non esiste uno sporto moderno come il basket. Ha un’agilità insita in se stesso, endemica, che lo rende estremamente comunicativo. L’unica vera spiegazione è quella, ovvero che io ho parlato di basket, che è uno sport pazzesco per come arriva. E poi il basket significa Stati Uniti, che sono una rinnovazione continua, sono brulicanti e attraenti, perché ogni giorno propongono qualcosa che guarda avanti.
Quello che io ho trovato in voi è quello che poi ho trovato poi in altre cose, cioè concetti che mi costringevano a pensare, a vedere, a conoscere, a imparare per arrivare al vostro livello. Secondo me è per quello che voi avete avuto questa attrattiva sul pubblico della mia età.
Se fosse così sarebbe estremamente bello. Si cerca sempre di fare una cosa stimolante.
Hai avuto la sensazione che con Buffa Racconta e Storie Mondiali si sia smosso qualcosa nel modo in cui si fa racconto e giornalismo sportivo in Italia?
[Scuote la testa come se non ne avesse la più pallida idea, ndr]
No? Niente? Perché un po’ è quello che speriamo “noi” che facciamo cose di quel genere: speriamo che il tuo successo abbia portato a creare un pubblico per i prodotti che vogliamo proporre anche noi.
In questo caso è l’intervistatore che deve spiegare all’intervistato però.
Faccio l’esempio della chiusura di Grantland…
Dolorosissima. Non è possibile che chiuda una cosa del genere. Non si rendono conto del danno che hanno procurato all’umanità.
…perché quello che mi sono detto io è: se chiudono loro, che avevano tutto per riuscire ad avere successo…
E allora chi può farlo? Certo.
Poi però mi fermo e penso anche al successo che hai avuto tu con i tuoi programmi e mi dico: però un pubblico c’è. Un interesse c’è. Un’azienda come SKY ha voluto comunque investire su quel modo di fare racconto sportivo.
È vero, però la televisione è un medium diverso: ce l’hai lì, non fai sforzo, ha un’immediatezza spaventosa, accendi ed è lì che ti dà tutto. In più ha anche il vantaggio delle repliche, cioè continuare a riproporre cose che ha già fatto. Io credo però che ci sia una base di giovani italiani che vogliono vedere lo sport in maniera diversa, e non è necessariamente legato al fatto che siano stati fatti alcuni programmi. C’è e ci deve essere questa base. Però, nella nostra cultura latina, troppo raramente si ama il gioco per il gioco: perché ad esempio il cinema italiano non si interessa mai di calcio o di sport? La risposta è sempre: perché è troppo costoso. L’altro giorno pensavo parlando con Paolo: perché sulle Olimpiadi del 1960, che sono un progetto epocale della nostra storia, nessuno ha mai pensato di fare un film? Perché nessuno vuole raccontare storie come Abebe Bikila ai Fori Imperiali che corre scalzo rappresentando un paese in cui eravamo colonialmente dominanti? Perché è troppo costoso farlo? Non mi basta come risposta. Perché nella cultura anglosassone lo sport è visto in maniera opposta a come lo vediamo noi? Hanno anche loro le partite e soffrono quanto soffriamo noi, ma hanno un altro modo di intenderlo, altrimenti non gli darebbero così tanto spazio nella letteratura e nella cinematografia. Noi non raccontiamo lo sport. Siamo sempre così interessati a blindarlo in un contesto troppo stretto, e quindi si perde il senso epico e la bellezza del gioco. E non capirò mai perché questo sia stato così legato culturalmente al nostro paese. Adesso è più semplice provarci perché ci sono gli esempi degli altri, e quindi l’idea è che ci sia un gruppo di giovani italiani che abbia più attrazione a farsi raccontare lo sport per lo sport, rispetto a come gli è stato raccontato fino ad adesso, anche perché hanno accesso da soli a quegli altri esempi. Però, come tutti i pubblici giovani, vanno anche educati.
Nel corso della tua carriera ti sei mai sentito dire “Stick to sports”, stai nel tuo, non cercare di parlare anche di altro?
Beh avendo fatto solamente quello non ancora, ma sta per succedere.
Come pensi che reagirai?
Dicendo “Lo so anch’io, ma cerco di migliorare”.
E questo ci porta al teatro: se dovessi fare un bilancio della tua esperienza, quale sarebbe?
Mai fatto una cosa così eccitante nella mia vita. Mai. Perché ogni giorno impari qualcosa di nuovo e ho la fortuna di essere circondato da persone benevole con me, soprattutto perché so di ritrovarmi in una situazione quasi irripetibile. Noi facciamo 700, 800, anche 1000 spettatori, e io vedo i direttori dei teatri che mi dicono: “Qua avremmo potuto riempirlo di nuovo domani sera”. Al che io rispondo: “Beh ma ho visto che avete un bel cartellone, quanto fate nella altre sere?”. “200, 250”. Sì? Personaggi della televisione italiana che vanno a teatro e fanno 250? È una situazione paradossale: il mio regista è orgogliosissimo del nostro spettacolo, ma questo viene completamente snobbato dal mondo del teatro perché non ritenuto uno spettacolo da teatro. Non è mai stato recensito da un giornale importante né a Milano né a Roma, nessuno lo ha mai toccato. E lo capisco. Però nella settimana che abbiamo fatto a Milano era nettamente lo spettacolo più visto, a parte Odyssey di Robert Wilson allo Strehler. E anche in giro per l’Italia fa dei numeri che i direttori iniziano a dire: “Noi avevamo dei dubbi, ma abbiamo fatto il tutto esaurito con tre settimane d’anticipo”. La cosa curiosa è che, banalmente, il motivo è che ci sono 200 “impallinati” ogni volta che vengono e gonfiano in maniera esponenziale, ma il sogno dei direttori è far tornare quel pubblico a teatro. Loro mi dicono “Le sono molto grato perché almeno questi 200 sanno che c’è un programma e una cosa interessante, altrimenti non li avremmo mai visti. A noi serve allargare la base”, che è fondamentale. Però io sono anche il motivo per cui lo spettacolo può arrivare solo fino a un certo punto, perché io non sono un attore.
Pensi di aver imparato a fare una cosa che non sapevi fare, che era l’obiettivo iniziale?
Ogni giorno il mio regista mi insegna una cosa nuova. C’è una frase che ho sempre trovato difficile da comprendere: “Michael Jordan ha aspettato che la partita arrivasse a lui”. A me sembrava che ne facesse 50 ogni volta, non capivo bene cosa intendevano… [ride, ndr] E invece lui mi ha spiegato la stessa cosa: tu sai quando finisce la partita, cioè sai quando finisce lo spettacolo. Lascia arrivare le cose. Non avere mai fretta. Non andare presto dove sai che ti piace. Aspetta. Così quando arriverai al punto che ti piace sarai più equilibrato. Mi sono detto: Ah ecco where the Zen Master wanted to go with Mike… Solo che lui era Michael, io un po’ meno.
A proposito: Buffa racconta Michael Jordan
Per concludere… what’s next per Federico Buffa? Dove ti porterà la tua Disease?
Se posso resto dove sono, quindi non scendo dal palco.
Stando nello sport?
Non necessariamente.