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La maglietta perfetta
22 gen 2014
Con il pretesto di un regalo di Natale, una riflessione su quale canottiera NBA sia quella giusta da indossare; che non soltanto sia duratura, ma che sappia anche renderci migliori.
(articolo)
15 min
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Quando di punto in bianco un’anziana vicina di casa mi ha chiesto un favore e consegnato cinquanta euro chiedendomi di spenderli per una “canottiera” di basket per un suo nipotino di sei anni mi sono sentito investito di una responsabilità enorme. Poteva essere un imprinting decisivo: a chi dovevo far appassionare quel ragazzino: Lebron James? Carmelo Anthony? Chris Paul? Kobe Bryant? Kevin Durant? Russell Westbrook? Dal primo nome portato sulla schiena sarebbe dipesa l’angolazione da cui si sarebbe appassionato al gioco: cosa dovevo insegnargli, che conta il talento, che conta il fisico, l’atletismo, la spettacolarità, i muscoli? A ogni nome corrisponde una caratteristica più marcata, cosa dovevo dirgli attraverso quel nome? Visto che avrebbe gioito e si sarebbe sentito più coinvolto del solito davanti alle giocate del tizio di cui portava la canotta, dovevo fare in modo che accadesse per un giocatore di che tipo? Cosa dovevo dirgli, che conta la fantasia, la dedizione, o che contano più i colori della squadra del nome sulla canotta? E anche, in quel caso, quali colori? In fondo col calcio sarebbe stato tutto più istintivo e semplice, mentre l’NBA mi permetteva di dare distanza e lucidità alla decisione. Non potevo cavarmela con la maglietta della squadra del padre o della squadra rivale di quella del padre: dovevo ponderare la scelta.

D’altra parte di tempo per ragionare me ne era stato lasciato in abbondanza: due mesi. La vicina preparava i regali di Natale già a inizio novembre. Voleva organizzare tutto con anticipo perché l’anno prima s’era affidata al figlio e quello aveva comprato il regalo l’ultimo giorno e non solo non era la stessa pista desiderata dal nipote, ma c’aveva anche messo due ore a costruirla imprecando per l’intera mattinata di Natale contro i parenti che avevano osato offrirgli un aiuto senza essere in grado di riconoscere la differenza tra un cacciavite a stella e uno semplice e senza avere la necessaria intelligenza intuitiva a comprendere quelle che secondo lui erano le inintelligibili immagini del manuale d’istruzioni. Una situazione che conoscevo fin troppo bene per appesantirla con altre domande.

Così prendevo i soldi e cominciavo a riflettere. E a scartare ipotesi. Gli scelgo Manu Ginobili perché voglio che diventi un estroso che passa la palla sotto le gambe degli avversari? Gli prendo Dwyane Wade perché deve diventare un vincente? Gli prendo Blake Griffin perché voglio che, anche se non vincerà mai nulla, schiacci senza rispetto in faccia a chiunque? Gli prendo Marc Gasol perché deve essere un muro nel basket e nella vita? Gli prendo Dirk Nowitzki perché deve lavorare sulla tecnica? Pau Gasol perché la concentrazione è decisiva? DeMarcus Cousins per farlo cascare da subito nel binomio genio e sregolatezza? Tony Parker perché avverta che il personaggio conta quasi quanto il giocatore che sei? LaMarcus Aldridge perché impari ad adorare se stesso? O vado su un semplice Ricky Rubio visto che, dopotutto, anche il nipote della vicina sarà un biancastro che salta poco e corre con intelligenza?

Sull’ipotesi Ricky Rubio mi sono ricordato che un amico allenatore di minibasket, rispettando indicazioni della società, redigeva un quaderno con le altezze in centimetri dei genitori dei suoi ragazzi: non poteva premiare troppo giocatori che, presumibilmente, erano stati dotati in equilibrio e precisione ma non in stazza. Il ricordo di questa consuetudine eugenetica all’acqua di rose mi aveva fatto avvertire l’assurdità di prendere una decisione senza aver mai visto il nipote. Poteva avere gli occhiali e a quel punto la scelta sarebbe ricaduta immediatamente su Wade. Come avevo potuto avere un approccio così superficiale a un momento fondante del bildungsroman di quel ragazzo? La nonna era stata felicissima di mostrarmi una foto, tuttavia questa non era affatto eloquente come speravo. Si vedeva un tipetto longilineo, con un sorriso non tirato, che la nonna diceva molto alto per la sua età (e anche il papà, altissimo), ma la signora era molto bassa e non potevo fidarmi del tutto. E poi aveva confessato di aver superato l’imbarazzo chiedendomi un aiuto—nonostante una frequentazione che non era mai andata oltre i buongiorno-buonasera—solo perché mi aveva visto uscire correndo. La sua confusione tra corsa e sport non era affatto di buon auspicio sul patrimonio sportivo della famiglia né, d’altra parte, lo era il ritrarsi del padre da una decisione che per me era della massima serietà.

Insomma dovevo cavarmela da solo. Il passo successivo è stato andare su un campo di allenamento di ragazzini per vedere quali canotte piacciono. Illudendomi che le preferenze e la moda, tra ragazzini, si formino semplicemente sull’imitazione di quelli un po’ più grandi. In realtà vedo spesso gli allenamenti di basket perché mio figlio gioca a tennis in un circolo lungo i Navigli a Milano, ma preferirebbe giocare a basket (anche se non lo ammette mai) e ogni volta che finisce la lezione di tennis mi chiede di entrare in palestra per guardare i decenni che si allenano. Nonostante la voglia che avrebbe di giocare a basket mio figlio è paralizzato dall’altezza del canestro. Non serve a niente spiegargli che lui non tirerebbe a un canestro così alto perché—lui ne ha cinque—lo farebbero giocare con quelli bassi. Quando entra in palestra i canestri bassi non ci sono e se non li vede per lui semplicemente non esistono. È come quando gli dico che la giornata all’asilo finirà in fretta e che in un niente tornerò a prenderlo. I canestri sono altissimi e come in quel racconto di David Foster Wallace in cui il bambino è paralizzato all’idea di tuffarsi, mio figlio è paralizzato dall’idea di lanciare la palla verso il canestro e sentirsela ricadere in testa tra le risate dei compagni senza che quella abbia neanche sfiorato la retina. Così guarda i grandi giocare e aspetta di avere sufficiente fiducia in se stesso.

Nel frattempo, lasciandolo a meditare, io non riuscivo a registrare nessuna tendenza particolare. Una maggioranza relativa di Rajon Rondo—e quellapoteva essere un’idea anche se bizzarra visto che Rondo è un giocatore “che non tira” e perché dovremmo essere così hegeliani da insegnare a un ragazzino a essere bravo senza tirare?—ma c’erano altrettanti LeBron James, e quello no, mi sembrava non fosse istruttivo. Ma visto che, dopotutto, LeBron James sembrerebbe la scelta più scontata, come Jordan vent’anni fa o Kobe dieci, una piccola postilla sul perché no James forse è necessaria. Capisco perfettamente possa dare molta fiducia essere soprannominato “il prescelto” quando si sa già giocare, ma se hai sei anni e hai addosso la maglia del prescelto senza esserlo, probabilmente finiresti col pensare di poter essere bravo e di meritarlo senza aver ricevuto la grazia divina.

L’unica conferma degna di interesse è stata che nessuno, a Milano, indossa la maglia della squadra di basket della propria città. Ora, che io ricordi, quando ero ragazzino, a Caserta, tutti desideravano avere la maglietta della propria squadra, della Juvecaserta, prima ancora di avere quella di un team NBA. E non so se è solo che il campionato italiano di basket è ormai la cosa meno cool possibile oppure, già allora, era un’altra mitomania tipicamente casertana. Fatto sta che convinto d’aver ancora un’infinità di tempo a disposizione ho lasciato passare una ventina di giorni in tranquillità fin quando, il 20 novembre, la mia anziana vicina m’ha detto cheaveva molta fretta, che doveva spedire il pacco, e le serviva la maglia entro quel pomeriggio. L’avevo già presa, vero? Il pacco, quale pacco? “Non le avevo detto che spedisco tutto via pacco? Facciamo il Natale da mia figlia in Puglia quest’anno.” Non mi aveva detto che spediva tutto via pacco. Ma perché tanto anticipo poi? “Le poste a Natale… Ma vuol dire che non mi aiuta più? Che delusione, ci fosse ancora mio marito.”Ma detto così affettato che ho sacrificato la pausa pranzo dal lavoro, sono andato al negozio e ho chiesto cosa avevano.

E a quel punto la scelta s’è complicata terribilmente perché era la mia unica chance per comprarla e loro avevano solo quattro canotte adatte a un bimbo di sei anni. Il commesso le tirava fuori da uno scatolone controllando le taglie e me le elencava. Abbiamo Kevin Garnett/Boston Celtics, Dwight Howard/L.A. Lakers, Bargnani/Toronto Raptors. A quel punto l’ho fermato. Gli ho chiesto se avevano anche magliette di un giocatore che non avesse cambiato squadra durante l’ultima estate. Il tizio mi ha detto di sì. “Questa è l’unica, temo.” Allora gli ho immediatamente risposto che poteva già darmela, fosse stato anche Chris Bosh—ho incrociato le dita, per fortuna non lo era—l’avrei presa.

Per qualche momento ho anche considerato l’ipotesi di prendergli quella di Garnett perché resterà sempre un classico, ma, diamine, è un regalo per un bambino piccolo e non potevo già educare il suo gusto per il vintage. Ho immaginato che se a nove anni se ne fosse andato in giro con quella in skate e il fare da gangsta sulla pista dei giardinetti di via Tolstoj sarebbe stato un fico agli occhi dei suoi amici, ma forse era troppo piccolo per godersela in quel modo. E va bene prendere le maglie abbondanti per quando crescono, ma non potevo esagerare. Io, a dieci anni, avevo la canotta di Larry Bird nel primo Dream Team e tanto non la capivo—visto che Bird non c’era sulle card Upper-Deck perché s’era ritirato—che la regalai ai poveri della parrocchia. E avrei preferito perfino l’assai meno memorabile Eric Williams solo perché ancora in attività.

Il tipo del negozio si giustificava. Diceva che il suo piano era semplice: avere a disposizione la maglia di un giocatore italiano e che l’accoppiata Knicks/Gallinari era perfetta, ma che non aveva più preso la canotta della nuova destinazione di Gallinari, Denver, perché aveva preferito Bargnani che segna anche di più. Va bene. Un errore ci sta. E Garnett, invece, l’aveva presa perché non s’aspettava mica che Garnett cambiasse squadra. Pensava che Garnett avrebbe chiuso a Boston. E va bene, due. Ma Dwight Howard? Come gli era venuto in mente? Perché non Kobe a quel punto? Pesava ancora l’incognita stupro? Kobe parla anche italiano…

A suo dire, lui la segue un po’ l’NBA, “ma si fanno troppi scambi. Non riesce ad aggiornarsi. Fanno troppo mercato. Non ci sono le bandiere. Le carriere sono brevi”.Mah. Non è del tutto vero. Ci sono più bandiere che nel calcio, invece, perché c’è meno tifo estremo ed è più facile diventare bandiere. E poi le carriere non sono affatto più brevi, solo gli scarsi hanno carriere brevi e infine il mercato è divertentissimo e c’è tanto mercato perché si programma di più non perché lo si faccia di meno. Ma era una discussione lunga, non c’era davvero il tempo. In realtà non abbiamo conversato. Ho annuito alle sue lamentele, sorriso, pagato la mia maglietta (con pantaloncino) e sono andato via. Cinquantacinque euro. C’avevo pure rimesso.

Tornando a casa ho cominciato a ragionare sulla possibilità di studiare la formula perfetta per avere canotte il più durature possibili. Una formula che andasse bene ai negozianti e che, di conseguenza, desse anche più chance ai compratori.

La prima incognita (a)—che solo a prima vista può apparire l’unica—è la bravura di un atleta. Basta un sito di statistiche a verificare quanto avere un giocatore di alto livello, la star di una squadra, o un giocatore in crescita sia fondamentale per avere una canotta duratura. È il criterio che rende buoni acquisti la maglia di Damian Lillard (alto livello), Anthony Davis (star di una squadra) o Larry Sanders (giocatore in crescita).

La seconda incognita (b) da tenere in conto è sicuramente la durata del contratto. Non si può andare in un negozio e comprare una canotta da ottanta euro per un giocatore col contratto in scadenza entro pochi mesi, o che sia in odore di trade perché ha un contratto troppo oneroso o in una squadra che vuole rifondare, etc, etc. Perciò occorre controllare le classifiche e le scadenze. Per esempio, LeBron James diventerà free agent quest’estate e non credo sia stata una buona idea comprare la sua canotta per Natale se si voleva essere attuale il più a lungo possibile. Ma anche LaMarcus Aldridge potrebbe essere una cattiva idea se Portland non riuscisse a competere davvero per il titolo. Mentre il fresco di rinnovo John Wall è, per fare un nome, una sicurezza.

La terza incognita (c) possiamo definirla indicativamente come “prestigio” ed è quella di più difficile misurazione. Si può definire il prestigio come la capacità di un giocatore di essere decisivo o di far parlare di sé a prescindere da tutte le fondamentali statistiche per impallinati di NBA in giro. Il metro di misura del prestigio è, dunque, la chiacchiera generata da un giocatore. Dennis Rodman è stato uno dei talenti più incredibili di sempre, ma la chiacchiera generata da Dennis Rodman, il “prestigio”—da intendere anche in senso negativo—è di tale vastità da oscurare persino gli spaventosi dati su rimbalzi per giunta in relazione all’altezza e rendere le sue canotte mettibili fin quando esisterà il basket. Per tornare a esempi di giocatori in attività una canotta di Metta World Peace puoi indossarla anche se ha cambiato squadra. Anche solo cambiare il proprio cognome da Artest in World Peace ti offre “prestigio”, come anche Jabbar\Alcindor o Abdul Raouf\Jackson hanno dimostrato. Così come una di Chris “Birdman” Andersen per quanto sia, ai fini del gioco, un giocatore del tutto trascurabile. Ma il prestigio vale anche per giocatori molto più abili. Ginobili, per esempio, pur facendo ormai cifre inadeguate a una superstar (e anzi, senza averle mai fatte), ha la standing e il prestigio tipici da giocatore di prima fascia. E come Ginobili anche lo stesso Tony Parker: pur avendo entrambi cifre simili (e a tratti inferiori) a Monta Ellis lo battono in milioni di risultati su Google.

Va da sé che nell’incognita prestigio va considerata la nazionalità. Vista dall’Italia, la canotta di Datome ai Pistons ha un senso, da ogni altro paese al mondo ne avrebbe molto meno. O anche la storia così teneramente global di Giannis Antetokounmpo, il greco di colore, può avere un senso dal punto di vista di un europeo, per gli americani è solo un nero come gli altri.

Il risultato delle tre incognite deve essere diviso per la popolarità del team. Più è rilevante il team o, per certi versi, la città-bacino (Knicks, Celtics, Lakers) più il coefficiente è basso: una maglietta dei Minnesota Timberwolves, anche se di Kevin Love, sarà sempre una maglietta con un lupo enorme sulla pancia. O, se il lupo piace, quantomeno si tenga in considerazione che alcune squadre, come Minnesota o i L.A. Clippers o Washington, vivono di ricostruzione in ricostruzione da diversi lustri ma anche quando migliorano non vincono mai. In definitiva la formula può essere:

a+b+c

_____

x

Ovviamente, mi sto riferendo ai giocatori in attività. Sul vintage va aggiunta un’ulteriore incognita (y) che equivale alla carriera completa. Perché una carriera—coi titoli vinti, con le scelte fatte—ha un valore di completezza che dà un peso diverso alle stagioni regolari (e playoff) giocati. E la formula diventa:

(a · y) + b + c

_________

x

La maglietta di Kevin Garnett che il tizio non è riuscito a rifilarmi appena KG si ritirerà tornerà a essere attuale. Così una canotta di Garnett ai Wolves sarà sempre fica, ma sempre un po’ meno di una Garnett ai Celtics, per via delle vittorie dei Celtics sia con che senza Garnett. Mentre, con buona probabilità, Dwight Howard non tornerà mai più mettibile visto che il suo passaggio ai Lakers verrà considerata una tappa fallimentare di una carriera prestigiosa o, in alternativa, una grande chance fallita. E ancora Bargnani avrà valore giusto in Italia o tra i fan delle prime scelte assolute più sballate di sempre in uno dei draft più sballati di sempre.

Quello delle “repliche” degli ex-giocatori è, dunque, un mercato in cui le variabili elencate valgono esattamente allo stesso modo pur entrando in collisione con quell’incognita (y) che è la distanza perché estraendo il giocatore dal flusso degli eventi lo si può valutare con la lontananza necessaria. In più il tempo scolpisce il valore non solo rispetto alla popolarità dell’atleta perfino a prescindere dalle cifre, ma anche alla peculiarità e al prestigio della “replica” e, a volte, capita che le più brutte e sconsiderate—lo skyline di Denver su mattoncini colorati da videogame anni ’80, la canotta dei Vancouver Grizzlies—facciano il giro completo e diventino belle.

1. Significa, inoltre, che giocatori di basso livello purché vincenti diventano più appetibili di giocatori medi. Una canotta di BJ Armstrong batte una di Keith Van Horn. 2. Significa anche che, come per i caratteristi della commedia all’italiana, gli sparring partner di sostanza restano più memorabili delle primedonne, quindi Scalabrine e Bill Wennington battono John Starks o Joe Smith. 3. Significa anche che John Stockton batte Malone. Perché inseguire il titolo non è un valore tout court. 4. Significa che Laimbeer ai Pistons (giocatore “debole” ma vincente), Skip to my Lou ai Magic (giocatore “debolissimo”, ma l’unico idolo dei playground ad aver avuto davvero successo in NBA) valgono più di Jim Jackson cioè protagonisti presto ingrigitisi. Anzi, a furia di verificare come ogni esempio si inscriva nella regola si finisce per notare come il prestigio dei giocatori “pazzi” oggi sia molto scemato rispetto a pochi anni fa quando giocatori più carismatici riuscivano a ritagliarsi molto più spazio. Fatto sta che, dopo aver elaborato questa teoria, ero molto fiero del mio acquisto: Derrick Rose – Chicago Bulls.

Perché Derrick Rose non dovrebbe cambiare squadra a breve, è un leader indiscusso, è stato un MVP, ha una squadra prestigiosa a disposizione, lotterà per il titolo, è un protagonista di pubblicità, non è altissimo e ha il carattere giusto. Poi, come molti sapranno, s’è rotto il ginocchio, e tutto il castello di incognite è precipitato. Io non ho detto nulla alla vicina di casa,—peggio del commesso!—né allora né quando l’ho rivista dopo le feste e m’ero anche preparato un discorso per giustificarmi sul ritorno dall’infortunio, sui free agent, sul perché Chicago ha venduto Deng e sul prossimo draft. Forse nessuno s’è accorto di nulla o forse non l’hanno semplicemente detto alla nonna. Quel che so è che nella foto che mi ha mostrato il bambino troneggia sul tavolo natalizio con la canotta di Rose indossata sopra un maglioncino rosso e sembra molto felice, ma ancora più felice sembra il papà che non ha avuto niente da montare e non l’avrà almeno fino a quando il figlio non comincerà a palleggiare tra le gambe in casa.

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