Dall’inizio del training camp, le giornate dell’allenatore più giovane di tutta l’NBA cominciano con una seduta di aerobica in acqua. Le lunghe esperienze di sofferenza fisica testimoniate in prima persona — dalle traversie paterne ai continui disturbi del maestro zen Phil Jackson proprio sulla panchina gialloviola, fino al dolore alla schiena che ha costretto Steve Kerr a una lunga assenza a Golden State — hanno segnato Luke Walton. Consapevole di quanto sia importante la piena efficenza fisica anche per chi scende sul parquet in giacca e cravatta — soprattutto nel caso sempre più diffuso in cui si tratti di ex-giocatori reduci da una lunga e logorante carriera — dal suo approdo alla guida dei Lakers, Walton ha istituito, primo e finora unico nella lega, un’equipe medica deputata in via esclusiva al monitoraggio della salute sua e dell’intero coaching staff. Scelta, questa, che oltre a generare un dibattito acceso all’interno delle altre franchigie e nella Coaches Association, sintetizza in modo pressoché perfetto l’atteggiamento con cui Luke Walton intende affrontare il suo primo incarico da capo allenatore: trarre ispirazione dalla incomparabili esperienze maturate come giocatore e nel ruolo di assistente, provando al contempo a innovare laddove l’evoluzione del ruolo apra spazi per nuove visioni.
L’erede e il discepolo
Nato e cresciuto a San Diego, figlio di un’autentica divinità del gioco (l’evidente ereditarietà genetica, testimoniata da attitudine caratteriale e tratti somatici, è confermata dal tatuaggio a tema Grateful Dead, vero e proprio marchio di famiglia), la carriera da giocatore di Luke Theodore Walton si è dipanata in una delle più azzeccate e fruttuose interpretazioni del concetto di role player. Una parte del copione che, per quanto in apparenza marginale, è da sempre decisiva per il successo di squadra, in particolare quando capita di indossare la stessa maglia di superstar come Shaquille O’Neal e Kobe Bryant. La comprensione del gioco e la naturale disposizione a mettersi in relazione con compagni e staff tecnico, dopo avergli regalato undici stagioni nella lega e due anelli di campione, hanno reso quasi inevitabile il passaggio alla panchina, a cui Jackson lo preparava dandogli piccoli compiti di scouting e facendolo partecipare ad alcuni riunioni degli allenatori. Già sperimentato il ruolo come assistente alla University of Memphis durante il lockout del 2011 per poi far di nuovo rotta su L.A. e guidare i D-Fenders in D-League, il vero e proprio salto di qualità per Luke Walton è avvenuto risalendo la costa californiana fino alla Baia. I due anni trascorsi a fianco di Steve Kerr sulla panchina di Golden State sono stati il trampolino di lancio per poi ridiscendere verso sud e sedersi sul pino dell’antico maestro Phil Jackson. Tornando là dove aveva maturato i trionfi da giocatore, il figlio del grande Bill ha accettato una missione quasi impossibile: riportare in alto i Lakers.
Dal momento dell’avvento di Phil Jackson, anno domini 1999, la storia della seconda franchigia più vincente della storia NBA si divide in due tronconi. Nelle undici stagioni in cui il Maestro Zen è rimasto in panca sono arrivate sette finali, cinque titoli e una percentuale di vittorie in regular season del 68%. Nelle restanti sei, che hanno visto l’avvicendarsi di cinque diversi allenatori, la percentuale di vittorie è scesa ad un misero 38% e per ben quattro volte i playoff sono rimasti un miraggio. Al netto dell’inevitabile ciclicità a cui ogni squadra NBA che non si chiami San Antonio Spurs è soggetta, è evidente come a L.A. l’ombra lunga di Jackson — allungatasi poi anche sulla lunga faida famigliare seguita al decesso del patriarca Jerry Buss (l’ufficialità della separazione dopo 18 anni tra Phil e Jeanie Buss risale a poche settimane fa) — abbia finito per incombere sulla franchigia contribuendo a sabotare ogni tentativo di voltare pagina. Le ultime tre annate, poi, sono state le peggiori nella storia dei Lakers, i giorni più cupi per una squadra che mai aveva bazzicato i bassifondi della lega con questa continuità.
Non bastasse, la situazione a livello di dirigenza sconta ancora gli effetti della discussa presenza di Jim Buss, controverso figlio prediletto del proprietario scomparso nel 2013. Pur messe da parte le aspre polemiche con la sorella Jeanie a proposito del mancato ritorno di Phil Jackson al timone della squadra nel 2012, il responsabile tecnico dei Lakers ha messo in atto strategie confusionarie e foriere di pessimi risultati. Perso da tempo il glamour che permeava la franchigia, i Lakers nelle ultime estati sono stati regolarmente snobbati dai free agent più ambiti, molti dei quali hanno negato loro persino la possibilità di un colloquio conoscitivo, mentre altri (tipo LaMarcus Aldridge) hanno dovuto concederne un secondo per rimediare ai disastri del primo. La promessa fatta da Buss Jr. nel 2014, ovvero quella di riportare i Lakers ai vertici della lega entro tre anni, rischia seriamente di assumere le sembianze della celeberrima Profezia dell’Armadillo di Zerocalcare.
Tuttavia, nonostante le perverse strategie di mercato e l’imperscrutabile gestione delle varie guide tecniche succedutesi negli ultimi anni, la proverbiale fortuna gialloviola ha fatto sì che nei meandri dei vari Draft venisse accumulato un nucleo di giocatori giovani da cui ricominciare. E se D’Angelo Russell prima e Brandon Ingram poi sono state le scelte più alte dai tempi di James Worthy (anno 1982, giusto per capire quanto di frequente i Lakers siano stati costretti a ricorrere alle promesse in uscita dal college durante gli ultimi 30 anni abbondanti), i vari Julius Randle, Larry Nance Jr, Jordan Clarkson — e forse forse anche Ivica Zubac — sono stati colpi tutto sommato positivi, considerata la posizione in cui sono stati scelti. Il materiale, insomma, è di quelli ideali per un coach giovane, alle prime armi e armato di pazienza, perché in questa lega non si vince con i ragazzini (il maestro zen diceva che NBA stava per No Boys Allowed). Quanto all’essere snobbati dai grandi nomi, Walton non ha fatto mistero di preferire una ricostruzione più graduale attraverso lo sviluppo e la crescita dei giocatori a disposizione, puntando poi sul prossimo Draft per aggiungere l’ultimo e definitivo pezzo.
Quello del 2017 sarà infatti l’ultimo nel quale i Lakers godranno della protezione del loro pick nel caso fosse tra i primi tre, eventualità già verificatasi negli ultimi due anni (la fortuna di cui sopra, gentilmente fortificata dalla presenza di un mammasantissima del tanking involontario come Byron Scott), ma di cui non potranno avvalersi nel 2018, quando, indipendentemente dal posizionamento, la loro scelta andrà a Philadelphia (applausi, tardivi, per lo scienziato pazzo Sam Hinkie, please). Per gli adepti al culto gialloviola, la professione di Walton suona come una vera e propria messa nera. Ma i tempi sono questi, per essere una star globale va bene anche giocare a Oklahoma City o Milwaukee e la scritta Hollywood attira ormai solo turisti in cerca di un selfie celebrativo a basso coefficiente di creatività.
Non bastasse la diminuzione della forza di gravità che storicamente attirava le star verso L.A., il nuovo contratto collettivo recentemente rinnovato, che in sostanza concede un vantaggio nella proposta economica alla squadra che detiene i diritti del proprio giocatore pescato al Draft, rende ancora più complicato tentare campioni di quel calibro dal punto di vista economico. In ultima analisi, poi, quel motto che spesso si sentiva mormorare dagli addetti ai lavori nei corridoi della lega — “Ciò che è bene per i Lakers è buono per l’NBA” — non sembra avere più il riscontro che, in un’epoca non così lontana, concedeva ai Lakers, e ai Celtics rivali di sempre, un recondito vantaggio operativo sulle rivali. La missione di Walton sarà quindi quella di condurre la squadra privilegiando la ricerca di un’identità caratteristica, pur sapendo al contempo che la pazienza degli adepti di cui sopra e il boomerang rappresentato dalle scelte di mercato effettuate negli anni precedenti finirà giocoforza per accorciare i tempi della rincorsa verso una nuova era di supremazia purple&gold.
Il circo ha lasciato la città
Accampare confronti con la scorsa annata è un futile esercizio di stile. Quella che formalmente era la franchigia nominata Los Angeles Lakers per le 82 partite della scorsa regular season è stata una sorta di versione moderna del Buffalo Bill’s Wild West, con Kobe Bryant nel ruolo del famoso pistolero e showman e tutti gli altri a far da comparsa. Un anno sprecato secondo molti, soprattutto nell’ottica di concedere spazio e responsabilità ai volti nuovi; secondo altri un’inevitabile e per certi versi meritato tributo all’ultima divinità pagana della città degli angeli. Ad ogni modo, durante l’estate la dirigenza di casa Lakers ha messo sotto contratto giocatori d’esperienza come Timofey Mozgov e Luol Deng, veterani in grado di fornire un contributo ma con l’accordo implicito di non adombrare le giovani promesse, nei cui polpastrelli risiede il futuro prossimo della franchigia. Al di là delle opinioni circa l’adeguatezza degli stipendi elargiti agli ex di Cleveland e Miami, il disegno è apparso da subito piuttosto chiaro e lineare, particolarità non proprio di casa negli ultimi anni a El Segundo. Contando sul recupero, miracolosamente riuscito, di Nick Young (episodi di cleptomania a parte) e sull’affidabilità come realizzatore dalla panchina di Lou Williams, l’idea è apparsa da subito quella di volersi ispirare a Golden State, prendendo spunto ma senza copiare un modello che, per quanto soggetto a diversi tentativi di imitazione, rimane unico.
Al momento in cui scriviamo, il record dei Lakers è di 16 vinte e 32 perse, deludente ma tutto sommato in linea con le previsioni di inizio anno se si prova a mettere da parte l’insostenibile primo mese chiuso con 10 vittorie e 10 sconfitte. I numeri, in effetti, tratteggiano il profilo di una squadra che pur perdendo tanto muove i primi, timidi passi nel percorso di ricerca della propria identità. Dal punto di vista offensivo, i ragazzi di Walton sono 21° nella lega con un rating di 103.5, risultato in primis di una selezione di tiro ancora da perfezionare. Il 70% delle conclusioni prese dai Lakers sono da due punti, dato i cui margini di miglioramento, presi i parametri delle squadre leader della lega (Cleveland 60%, Golden State 65%), sono evidenti. Così come lo sono le percentuali al tiro, soprattutto da dietro la linea dei tre punti (35.2%), nemmeno troppo lontana da standard accettabili per puntare in alto, se aumentasse un po’ il volume. La relativa fluidità offensiva è testimoniata anche dal sostanziale equilibrio tra canestri assistiti (54%) e non assistiti (46%), dato che migliora sensibilmente se riportato al tiro dalla lunga distanza (81% di canestri assistiti).
Il dato delle conclusioni prese dalla media distanza, vera e propria terra di nessuno nella NBA contemporanea, è un rivedibile 14%, in sostanza uguale alla percentuale di conclusioni frutto di contropiede: su entrambi gli aspetti c’è parecchio da lavorare. Qualche dato di conforto che testimonia il timido plasmarsi di un’idea d’impostazione tattica, tuttavia, c’è: i Lakers sono 16° nella lega per triple messe a segno e 14° con un non disprezzabile 38.4% di realizzazione nelle conclusioni piedi-per-terra. Ma se per l’attacco qualche spiraglio si intravede, è nella propria metà campo dove i Lakers dovranno sudare ancora parecchio. Ultimi della pista per defensive rating (110.5), e con i soli Brooklyn Nets dietro le spalle quanto a net rating (-6.9), i Lakers sono i peggiori quanto a percentuale concessa agli avversari nel pitturato (65.2% per 47.2 punti concessi su 100 possessi), quartultimi per canestri presi dal palleggio (59.2%) e ultimissimi quanto a percentuale effettiva degli avversari (54%). Gli errori, innumerevoli, lasciano tuttavia margini di speranza in quanto spesso frutto di mancanza di comunicazione e scarsa abitudine a difendere, piuttosto che a veri e propri limiti individuali. Ciò non toglie che la difesa gialloviola sia stata sin qui una piccola bottega degli orrori:
Mancanza di comunicazione difensiva, atto I°.
Aiuti sui cambi difensivi, questi sconosciuti.
Difesa sulle rimesse avversarie, rivedibile.
Mancanza di comunicazione difensiva, atto II°.
Ma il motivo per cui Luke Walton è stato scelto va probabilmente ricercato al di fuori dai meri aspetti tattici. È infatti l’approccio al rapporto con i giocatori ad aver rappresentato il biglietto da visita con cui l’ex Warriors ha intrapreso la scalata al posto di head coach, e non è stato un percorso semplice.
Generazione di fenomeni
Tra i vari incarichi assegnati agli assistenti dal loro capo allenatore, c’è spesso quello di fare da collante tra lo spogliatoio (figura mitologica che simboleggia l’unione forzata tra personalità spiccate e poco inclini alla coesione) e la guida tecnica. Il grado di difficoltà connaturato a questo compito è strettamente connesso alla complessità dei soggetti che compongono il roster e ai relativi ego, tanto che, a volte in modo spontaneo e altre volte per espressa richiesta dei superiori, un giocatore particolarmente complicato da gestire viene assegnato in via informale a uno degli esistenti. Nel caso specifico, l’avventura di Luke Walton a Golden State si configura come un vero e proprio Master in Psicologia Cognitiva conseguito nella vicina Stanford. Il rapporto dell’attuale capo allenatore dei Lakers con Draymond Green, fortificato a colpi di trash talking durante l’assenza forzata di Kerr, ha rappresentato il pilastro su cui poggiavano i delicati equilibri di una squadra tanto straordinaria sul campo quanto instabile dal punto di vista emotivo.
L’innata capacità relazionale di Walton non è passata inosservata, finendo per pesare molto nell’orientare la scelta dei Lakers. Per una squadra con un roster caratterizzato dalla bassa età media, un coach in grado da subito di connettere con i molti giovani a disposizione, millenials con cui spesso esiste un divario culturale difficile da colmare, non può che rappresentare una priorità. Il materiale che Walton si trova per le mani ad L.A. è certamente più malleabile rispetto al vulcano in continua eruzione sulla Baia, anche se i soggetti da governare con attenzione non mancano (Russell e Young in primis, e non solo per l’affaire Snapchat-Iggy Azalea). Per quanto ovvio, costruire un rapporto aperto e proficuo con i singoli giocatori non significa tirarsi indietro quando si presenta il momento di richiamare la squadra alle proprie responsabilità, come successo dopo l’incresciosa sconfitta di Brooklyn.
Il trend di affidarsi a un coach giovane, con relativa esperienza in panchina e magari un passato da giocatore, si è peraltro consolidato nelle ultime stagioni. Infatti, per quanto l’età media degli allenatori rimanga sostanzialmente la stessa rispetto a 10 anni fa (51 anni, dato influenzato dalla permanenza in panchina di decani come Popovich, Carlisle, Gentry, D’Antoni e Van Gundy), il numero di head coach con meno di 45 anni è passato da 6 a 10. L’ultima finale se la sono disputata due allenatori rispettivamente al primo e secondo anno, quella precedente due esordienti totali. Ovviamente la giovane età non garantisce in alcun modo il successo, perché per i risultati di un Tyronn Lue o uno Steve Kerr ma anche di un Brad Stevens, ci sono gli Earl Watson e i Fred Hoiberg del caso che faticano a mettersi in luce e/o a farsi rispettare dai giocatori. La propensione a selezionare allenatori in grado di sfruttare il relativo gap in termini anagrafici, secondo alcuni, è da mettere in relazione con la tendenza del gioco a essere sempre più “a player’s game”. Forse è così, oppure più semplicemente si tratta di un fisiologico ricambio generazionale: pensandoci bene, anche se sembra difficile da credere, i vari Popovich, Jackson e Riley, in un’epoca lontana, sono stati anche loro degli esordienti. L’inventore dello Showtime, per dire, aveva esattamente la stessa età di Walton quando debuttava come capo allenatore a L.A..
In casa Lakers si spera che la coincidenza possa risultare benaugurante, anche se ad oggi non si intravede, tra il parco giocatori a disposizione, un uomo in grado di aiutare il figlio del grande Bill a riportare i gialloviola agli antichi splendori. L’impressione, però, è che più che affidarsi al classico “salvatore della patria”, i Lakers dell’era Walton intendano costruire una base solida su cui poter erigere con pazienza, mattone dopo mattone, il ponte verso il successo. Come sempre, l’assistenza della Dea Bendata sarà essenziale per raggiungere gli obiettivi prefissati che, chiamandosi Los Angeles Lakers, non possono che essere ambiziosi. Il processo, termine tra i più abusati dagli addetti ai lavori negli ultimi tempi, rischia comunque di essere lungo. Luke Walton, però, temprato dalle torrenziali setlist degli interminabili concerti dei Grateful Dead condivisi col padre, non sembra avere fretta. Resta da vedere se l’ambiente losangeleno, scalpitante per natura e poco avvezzo alle annate di magra, saprà sintonizzarsi sulla stessa frequenza.