15) BROOKLYN NETS
Ranking overall redazione UU: 29.5
Lorenzo Neri
I Nets della scorsa stagione sono stati una delle squadre più dimenticabili che abbiano mai calcato un parquet NBA nel recente passato, un’accozzaglia di giocatori assemblati senza uno scopo preciso. Una squadra figlia delle scelte del tremendo duo formato dal proprietario Mikhail Prokhorov e dal GM Billy King, che nel giro di un lustro hanno barattato prime scelte e futuro in cambio di giocatori in evidente (e inevitabile) declino come Kevin Garnett e Paul Pierce o di dubbia valutazione come Gerald Wallace - in cambio di quella scelta che poi si è materializzata in Damian Lillard - ottenendo come risultato massimo una apparizione alle semifinali di Conference.
Considerando poi che le prime scelte dei due prossimi draft sono nelle mani dei Boston Celtics, si capisce che la ricostruzione dei Nets rischia di essere lenta e difficoltosa. Per questo motivo Prokhorov ha sollevato dall’incarico King e messo al suo posto Sean Marks, ex-giocatore indicato da tanti addetti ai lavori come una delle figure più promettenti in campo dirigenziale, lasciandogli carta bianca decisionale.
Marks per prima cosa ha assunto come allenatore Kenny Atkinson, rinomato nei circoli NBA per la capacità di sviluppare i giocatori, e nonostante alcune trattative non andate a buon fine (le offer sheet a Tyler Johnson e Allen Crabbe su tutti) è riuscito ad allungare le rotazioni con elementi di esperienza come Luis Scola, Trevor Booker e Greivis Vasquez e dando una seconda possibilità nella Grande Mela a Jeremy Lin, firmato a 36 milioni in tre anni, un furto considerando le cifre che girano e la grande stagione da cui viene il prodotto di Harvard.
Ma cosa c’è da aspettarsi da questi nuovi Nets? Fondamentalmente che facciano meno danni possibili, perché come detto la prima scelta 2018 è ancora nelle mani dei Boston Celtics. L’attacco è affidato nelle mani di Brook Lopez, uno dei migliori ad attaccare nei pressi del canestro ma di cui non si smetterà mai di discutere della reale efficacia del suo gioco. A questo proposito, la presenza di Lin potrebbe aiutarlo in maniera considerevole nelle situazioni dinamiche, soprattutto nei pick and roll, dove potrebbero mettere in difficoltà le difese avversarie, soprattutto se i tagli e gli istinti di Rondae Hollis-Jefferson e la pericolosità perimetrale di Bojan Bogdanovic, atteso all’esplosione, risultassero delle valide alternative all’asse Brook-Lin (ok, la smetto).
RHJ non è solo il loro miglior (unico?) difensore, è anche una potenziale macchina da highlights
I problemi però rischiano di essere molteplici, a partire da una mancanza di soluzioni offensive alternative, i grossi punti interrogativi nelle posizioni di 2 e 4, e soprattutto una difesa che rischia di essere agghiacciante in area - la rotazione di lunghi composta da Lopez, Scola, Booker, McCullogh e dal redivivo Anthony Bennett non dà nessuna certezza da questo punto di vista. Ed è principalmente per tutti questi dubbi che al momento i Nets vengono dati in previsione come la peggior squadra della Lega, come testimonia il 29.5 di posizione media del nostro ranking redazionale (solo una persona li ha dati come 28esimi e quattro come 29esimi, su 14 votanti totali).
L’impressione è che sarà molto più importante quello che farà Marks da dietro a una scrivania rispetto a quello che faranno i giocatori in campo. Un buon segnale è l’acquisizione di una franchigia della D-League - i Long Island Nets - che verrà sfruttata per far crescere e sviluppare i prospetti nel migliore dei modi, senza doverli mandare a giro per affiliazioni come fatto finora. Nonostante le difficoltà sembra esserci un progetto, e questa potrebbe essere la miglior notizia della stagione.
14) PHILADELPHIA 76ERS
Ranking overall redazione UU: 28.4
Dario Vismara
Un mese abbondante prima dell’inizio della stagione, i bookmakers di Las Vegas hanno posto la quota dell’over-under dei Philadelphia 76ers all’altezza delle 27.5 vittorie — il che significa che questi nuovi Sixers potrebbero, secondo le loro previsioni, ragionevolmente spingersi fino ad almeno 28 vittorie, con un miglioramento di 18 W rispetto alla passata stagione, superiori perfino alle 13 che vengono prospettate ai lanciatissimi Minnesota T’Wolves. Questo dovrebbe più o meno darvi la percezione di dove si sia spinta la Macchina dell’Hype che è tornata a battere le strade della Città dell’Amore Fraterno.
Il motivo di tanto ottimismo sta nell’infornata di talento arrivata in estate per rimpolpare le fila di una squadra che di giocatori NBA, negli ultimi tre anni, ne ha visti ben pochi. Dal Draft sono arrivati la prima scelta assoluta Ben Simmons e la guardia-ala Timothe Luwawu; dal Draft del 2014, direttamente con una DeLorean, sono arrivati Joel Embiid e Dario Saric, scelti da Hinkie due anni fa ma pronti a giocare solamente ora, dopo infortuni e contratti in Europa; durante la free agency (ah ma quindi esiste ancora!) sono stati firmati Jerryd Bayless, Gerald Henderson e Sergio Rodriguez per dare un minimo di dignità al reparto guardie più derelitto della lega; e per guidare lo spogliatoio è stato richiamato il veteranissimo Elton Brand — minuti in campo 225, ma consigli e veteran leadership a palate per i giovani virgulti.
La domanda che a Vegas forse non si sono fatti è: bastano questi 8 nuovi giocatori (di cui quattro partiranno in quintetto insieme a Bobby Covington) a far vincere ai Sixers diciotto partite in più rispetto all’anno passato? La risposta è un sonoro e tonante NO (e infatti le quote si sono già abbassate parecchio), a maggior ragione dopo l’infortunio che terrà fermo Ben Simmons almeno fino al 2017. Ma questo non significa che la Speranza debba abbandonare Philadelphia, anzi: finalmente dopo tre anni potranno tornare a vedere un entry pass fatto come si deve per foraggiare il mostro a tre teste sotto canestro formato da Okafor, Noel e Embiid, e con Saric da playmaker occulto ci sarà più movimento per dare un minimo di brio all’attacco. Capire chi e come emergerà col maggior numero di responsabilità e minuti da questa rotazione è ancora tutto da scoprire, così come è puro esercizio di stile immaginarsi un sistema offensivo per coach Brown ora che la squadra è completamente nuova. Ma è inutile sottolineare quanto tutto il mondo si aspetti fuoco e fiamme dall’esordio dell’idolo delle folle Joel Embiid.
Dopo tutte le voci che si sono susseguite sui workout del centrone camerunense, delle due l’una: o il mondo si è coalizzato per volere davvero male ai tifosi dei Sixers, dipingendolo come una sorta di Olajuwon con tiro da tre punti per il solo gusto di vederli soffrire ancora; oppure quelli che lo hanno potuto osservare da vicino hanno visto Il Futuro e sono tornati da noi comuni mortali per raccontarcelo. Sia come sia, attorno al successo di Embiid e Simmons si gioca la sanità mentale stessa dei tifosi dei Sixers: se loro due non fossero quello che tutti si aspettano, o peggio ancora si infortunassero continuamente senza poter scendere in campo, vorrebbe dire aver buttato via tre anni della propria vita. Riuscireste ad immaginarvelo?
Alla fine, i loro tifosi dai Sixers chiedono solo questo: diteci che non è stato tutto inutile, che il Process vive e Sam Hinkie non è morto invano. Sarebbe già qualcosa.
13) ORLANDO MAGIC
Ranking overall redazione UU: 23.4
Fabrizio Gilardi
La forbice tra la migliore e la peggiore versione possibile dei Magic 2016/17 è forse una delle più ampie di tutta la NBA. Da una parte pendono i miglioramenti dei giovani, oltre che i nuovi arrivi in campo e in panchina; dall’altra le perplessità su struttura del roster, rendimento e monodimensionalità di alcuni singoli, a partire da Jeff Green (che è sempre una perplessità a sé stante). Il tutto senza prendere in considerazione la strategia a livello manageriale e gli obiettivi a medio-lungo termine fissati da Alex Martins e Rob Hennigan nei tempi morti tra un dispetto reciproco e l’altro - che per fortuna non hanno nulla a che vedere con il rendimento in campo nel presente e che quindi possono essere osservati distrattamente mentre ci si allontana fischiettando in direzione… boh, un’altra qualsiasi, basta passare oltre.
Il manifesto del nuovo capo allenatore Frank Vogel prevede che prima di tutto ci si preoccupi di difesa e controllo dei rimbalzi, come ammirato nel lustro alla guida dei Pacers. Il personale a disposizione sembra più che adatto (nella propria metà campo Biyombo e Ibaka assicurano un rendimento di altissimo livello) e trovare in fretta la necessaria solidità da questi punti di vista dovrebbe quantomeno permettere ai Magic di restare in partita contro la maggior parte degli avversari.
Lo scopo del gioco però è pur sempre avere il pallone in mano e sapere che farne e qui qualche lievissimo, marginal… ENORME dubbio c’è. Perché, pur senza arrivare agli estremi che andranno in scena sulla costa sud-occidentale del Lago Michigan, i concetti di pace and space ormai alla base di ogni attacco NBA di alto livello sembrano quanto di più remoto si possa immaginare. E se Vogel è decisamente un plus in difesa, in attacco è raramente andato oltre al palla-a-Paul-George-e-che-si-arrangi alternato a brevi tratti di palla-a-Lance (Stephenson) prima e palla-a-George (Hill) poi. Solo che qui di giocatori del livello di Paul George non se ne vedono, almeno per ora. Che abbia inizio l’Aaron Gordon Experiment da ala piccola in attesa che magari si porti in laboratorio anche Mario Hezonja, perché Evan Fournier è un buon giocatore e ottimo tiratore, ma la prima opzione offensiva di una squadra che punta ai playoff (eccome se ci punta) magari anche no.
Intanto a The Ringer si continua a dominare
12) MIAMI HEAT
Ranking overall redazione UU: 22.6
David Breschi
La stagione che sta per iniziare segna una nuova era per i Miami Heat: le rinunce estive di Luol Deng e Joe Johnson, il “divorzio” da un Heat-lifer come Dwyane Wade e la perdita di Chris Bosh hanno di fatto smantellato la squadra che lo scorso maggio ha portato a gara-7 i Raptors nelle Semifinali di Conference. Per la prima volta dal 2010 a South Beach si parte senza nemmeno uno dei Big Three e l’unico anello di congiunzione con il passato è il sempiterno Udonis Haslem.
I nuovi Miami Heat sono una squadra indecifrabile, rinnovata per 10 unità, il cui giocatore da rotazione più anziano - esclusi quindi gli ultratrentenni Haslem e Udrih, che avranno ruoli marginali - è il 30enne Goran Dragic. Il resto della squadra è costruito attorno ai 20 anni di Justise Winslow, i 23 di Josh Richardson, i 24 di Tyler Johnson e i 27 del “veterano” Hassan Whiteside. Alle loro spalle, come da prassi, sono stati aggregati comprimari esperti che hanno scelto Miami per rilanciare la propria carriera come ad esempio Dion Waiters, raccolto dal marciapiede con un contratto quasi al minimo salariale dopo aver flirtato con un pluriennale in doppia cifra a stagione con Oklahoma City e Philadelphia. L’ex Cavs dovrebbe essere il leader della second unit e potrebbe essere uno dei probabili candidati al premio di 6° Uomo dell’anno, testa permettendo.
La perdita di Wade priva Spoesltra del suo leader tecnico, quello da cui andare quando la palla scottava, ma anche di un giocatore che amava fermare la palla e costringeva la squadra a tenere un ritmo molto basso. Senza di lui l’attacco sarà incentrato sul movimento di palla, con particolare attenzione alle spaziature e girerà attorno al pick & roll Dragic/Whiteside: lo sloveno avrà le chiavi della squadra in mano e dovrà dimostrare che l’investimento fatto a febbraio 2015 (e poi la scorsa estate) non è stato un errore di valutazione. Il play è arrivato a Miami praticamente in cambio del futuro degli Heat sotto forma di scelte al draft in direzione Phoenix, e finora ha dimostrato solo a tratti di essere il pezzo giusto per questa squadra. Whiteside, invece, lo scorso anno è stato uno dei rollanti al ferro più devastanti della lega con i suoi 1.34 punti per possesso.
Il ruolo più scoperto è ovviamente quello lasciato vacante da Chris Bosh: Spoelstra in pre-season ha provato a dare una chance a Luke Babbit, Derrick Williams e James Johnson, tutte soluzioni di ripiego perché nella testa del coach di origini filippine, nei momenti clou delle partite, quello spot sarà riempito dal coltellino svizzero Justise Winslow per fare posto in quintetto a Tyler Johnson e Josh Richardson. Secondo i dati di SportVu della stagione passata, il terzetto J-Rich+TJ+Winslow ha giocato appena 115 minuti in 12 partite di regular season, molti dei quali di garbage time (e quindi con numeri da prendere con le molle), ma non ci sarebbe da stupirsi se la prossima stagione fosse una delle lineup più utilizzate. Anche perché nei playoff, nei 26 minuti e nelle tre gare in cui sono stati schierati assieme contro i Raptors, il trio ha risposto con un 112.9 di rating offensivo a fronte di un 88.6 difensivo.
La presenza di Bosh rendeva gli Heat una squadra da playoff in grado poter quantomeno replicare il risultato dello scorso anno; senza di lui, l’obiettivo è quello di essere quanto più competitivi possibile, ma lo scenario più plausibile resta quello di una stagione di transizione. Tankare? Non è nello stile di Riley, anche se la parola “ricostruzione” aleggia incessante nei corridoi dell’American Airlines Arena.
11) CHICAGO BULLS
Ranking overall redazione UU: 21.7
Nicolò Ciuppani
Chi è ansioso di vedere quattro ball hogger con attitudini al palleggio prolungato e zero tiro dimenarsi in un roster senza spaziature e identità difensiva? Paradossalmente, credo sia questa la domanda che la dirigenza Bulls si è posta questa estate, e questo è il modo migliore in cui riesco a pensarne - perché il rasoio di Occam indicherebbe che hanno semplicemente navigato a vista.
Dopo aver deciso che Butler fa parte dei piani e aver separato le proprie strade da quelle di Rose, i Bulls hanno preso Rajon Rondo poiché era l’unica PG rimasta e, una volta che anche Wade è finito (per certi versi sorprendentemente) sul mercato, hanno deciso di firmare pure lui, andando a comporre un backcourt senza tiro e uccidendo qualunque idea di spacing potesse esistere nella mente di Fred Hoiberg. Come ciliegina sulla torta, la notizia di pochi giorni fa è che hanno perfino finalizzato una trade per Michael Carter Williams, notoriamente una delle PG più scarse al tiro della NBA. Forse l’idea era trollare tutti ancora più forte sullo spacing - oppure intendono tankare nemmeno troppo velatamente?
Il neo-arrivo Robin Lopez non sarà mai Joakim Noah nel suo prime, e di sicuro non ha minimamente la capacità di playmaking del francese, ma potrebbe essere abbastanza solido e dovrebbe garantire un chilometraggio maggiore. Hoiberg ha fatto partire Taj Gibson in quintetto in pre-season, ma sarà Nikola Mirotic il titolare - a meno di ideare un quintetto cubista in cui nessuno è in grado di tirare da oltre 5 metri.
Mirotic, ad ogni modo, è tutt’altro che un tiratore affidabile e dopo le partenze dalla NBA di Bargnani e Antic è il favorito alla cintura di Campione Mondiale di Pump Fake Che Non Illude Nessuno. Bobby Portis, che è stata una delle poche piacevoli sorprese dell’anno scorso, potrebbe pure rubargli il posto nel corso della stagione. Il centro di riserva Cristiano Felicio potrebbe tornare utile come portatore di blocchi granitici e un minimo di intimidazione, e a completare il roster rimane Doug McDermott, dal quale sono richiesti miglioramenti sul piano della continuità. Tutti gli altri dovranno lottare per trovare minuti.
Le buone notizie per Chicago sono che questo è un anno di transizione, ma che già dal prossimo Giugno possono tornare in Free Agency a dettare voce grossa e… basta così. Se vogliamo fanciullescamente credere che tutti i pezzi di quello spogliatoio funzionino caratterialmente, che esista un sistema offensivo che esalti le caratteristiche di tutti e che Hoiberg riesca al 2° anno in NBA a dare una direzione difensiva ad una squadra zeppa di veterani, allora i Bulls potrebbero pure pensare di ambire ad uno degli ultimi posti in zona playoff.
Il peggior caso possibile invece sarebbe quello in cui lo spogliatoio si spacca tra le 3 personalità più ingombranti, Hoiberg perde il posto e dal prossimo anno occorre tirare una linea sopra al roster attuale e ripartire da capo, con la scelta in lottery a seguito dei mancati playoff come una vera blessing in disguise. O magari l’obiettivo è proprio quello?
10) MILWAUKEE BUCKS
Ranking overall redazione UU: 21
Francesco Andrianopoli
Lo strappo ai flessori della coscia sinistra subito da Khris Middleton - fuori per almeno sei mesi, sempre che la squadra non decida di tenerlo ai box per tutta la stagione, per evitare strascichi e ricadute - ha fatto deragliare tutte le previsioni ottimistiche sulla stagione di Milwaukee. I Bucks senza di lui passano da essere una squadra in ascesa, pronta a provare il salto di qualità, all’ennesima franchigia impantanata in mezzo al guado, troppo lontana da un invito per la post-season ma non (ancora) pronta al tanking a tempo pieno.
Per sperare in qualcosa di più, gli unici due motivi di entusiasmo sono Jabari Parker e ovviamente Giannis Antetokounmpo, a cui già nel corso dell’ultima stagione Kidd aveva affidato il ruolo di PG a tutti gli effetti, ma che adesso vedrà ulteriormente aumentare i suoi compiti e le sue responsabilità. Il greco non è più un segreto o una scelta hipster, ma uno dei giocatori più interessanti e seguiti dell’intera lega: non c’è niente da scoprire, solo da assistere alla sua evoluzione.
Anziché affiancargli un “playmaker classico” (sempre che questa definizione abbia ancora un significato e un valore nel basket contemporaneo), i Bucks hanno deciso di affiancargli come compagno di reparto Matt Dellavedova, che appare il perfetto complemento per occupare nominalmente la posizione di PG ma lasciare in realtà gran parte delle incombenze di playmaking a Giannis, che sarà il principale portatore di palla e creatore di gioco, mentre l’australiano garantirà difesa, equilibrio e spaziature grazie alle sue doti balistiche. In tema di tiri piazzati, anche Mirza Teletovic sembra un acquisto intelligente e azzeccato, dopo una stagione con 181 triple messe a segno (record assoluto per un giocatore NBA dalla panchina, scalzando nientemeno che Chuck “The Rifleman” Person) con una percentuale del 39%.
L’impatto potenziale di due tiratori del genere sul gioco dei Bucks non è da sottovalutare: nella scorsa stagione i due nuovi acquisti hanno segnato complessivamente 279 triple (con il 40% complessivo), mentre tutti gli altri Bucks, tolto Middleton, ne hanno segnate 297, con un misero 32%. I Bucks dello scorso anno erano una delle peggiori squadre della lega in termini di spaziature, e l’assenza di solidi tiratori perimetrali soffocava e congestionava le giocate interne dei loro giocatori più talentuosi.
I nuovi acquisti (senza dimenticare Jason Terry, che su queste colonne non riceverà mai apprezzamento, ma comunque conserva ancora un dignitoso tiro piazzato) potrebbero permettere a Kidd di poter variare maggiormente il gioco, soprattutto utilizzando giochi a due, pitch e passaggi consegnati tra i suoi esterni, Dellavedova, Giannis e Jabari, che potrebbero dare un po’ di pepe a un attacco tradizionalmente asfittico e prevedibile.
La difesa rimane invece il punto interrogativo principale: dopo essere stato uno dei migliori reparti in assoluto due anni fa, nella scorsa stagione il rendimento del reparto è crollato miseramente, a causa di un’attitudine iper-aggressiva nel collassare verso il centro che gli si è ritorta contro, a causa di gravi carenze nelle rotazioni e nei closeout. Problemi che non appaiono risolvibili, perché i nuovi acquisti (tranne Dellavedova) sono gravemente deficitari nella propria metà campo, e l’assenza di Middleton peserà moltissimo.
Il roster rimane inoltre incompiuto e in divenire: Greg Monroe ha deluso e viene offerto sul mercato a destra e a manca alla luce del sole, ma resta comunque a tutt’oggi la migliore opzione nel ruolo di centro; vedrà il campo, giocoforza, per molti minuti, a meno che i Bucks non decidano di liberarsene come fatto con l’altro equivoco tattico Carter-Williams. Nel reparto lunghi Henson e Thon Maker sono due buoni cambi, ma tra gli esterni l’assenza di Middleton lascia dietro di sé il vuoto: per racimolare qualche minuto nel secondo quintetto Kidd dovrà fare massiccio affidamento a carneadi come Rashad Vaughn (semplicemente inguardabile nella sua prima stagione), Malcolm Brogdon (un rookie ormai quasi 24enne dal fisico massiccio, educato e completo tecnicamente, ma con un tiro perimetrale tutto da verificare a livello NBA) e Tony Snell (buon difensore sulla palla e pessimo lontano dalla stessa, attaccante disastroso se deve crearsi un tiro ma dignitoso nel catch and shoot).
Alla fine della fiera sarà una stagione di transizione, da cui i tifosi e la dirigenza vorranno veder crescere Giannis e Jabari e poco altro: una brutta partenza, o qualche altro infortunio, potrebbero però farla deragliare in modo drammatico, anche per la traballante posizione di Kidd.
9) NEW YORK KNICKS
Ranking overall redazione UU: 19.1
Daniele V. Morrone
I Knicks rappresentano un mondo a parte interno dell’universo NBA, e provare a scrivere una preview completa della loro stagione è un compito francamente impossibile. Sono un castello di carte costruito da Phil Jackson che si regge sul talento incredibile di Porzingis, sull’avere in squadra uno scorer ancora élite come Anthony, sul doversi attenere alle regole auree della Triangolo, su scommesse più o meno grandi dal punto di vista tecnico e fisico (Rose e Noah) e su giocatori di ruolo che però spostano poco se l’obiettivo è assestarsi tra le migliori del lotto. Che possa tutto questo mantenersi in equilibrio tutta la stagione è in realtà la vera scommessa fatta da Jackson. Molto più dello scegliere Jeff Hornacek come allenatore di questo roster.
Comunque, il fatto che l’identità della squadra sia ancora tutta da definire è una cosa da dover approfondire, a cominciare dal tipo di gioco che effettivamente Hornacek avrà il permesso di sviluppare. L’ex coach di Phoenix ha detto di voler cercare canestri veloci in transizione in modo anche sistematico con il portatore di palla - una scelta in controtendenza con i Knicks della scorsa stagione, che hanno racimolato solo 8 punti a partita con azioni in transizione. E ovviamente si tratta di una strategia antitetica all’attacco posizionale per eccellenza della Triangolo, un sistema di letture e reazioni al contesto che richiede quindi un ritmo di gioco ragionato per poter essere utilizzato da chi non è un fenomeno.
Ma il vero pomo della discordia è l’utilizzo dei pick and roll: Hornacek ha individuato nell’utilizzo dei giochi a due all’interno dei suoi schemi una delle situazioni ideali per poter integrare Rose in una squadra con Porzingis e Anthony. Il Pick and Pop tra Rose e Porzingis non solo aiuta la point guard ad essere utile con la palla (nonostante i suoi problemi ad arrivare a canestro dopo la perdita quasi totale dell’atletismo dei tempi migliori), ma è anche la direzione giusta per sviluppare il talento del lettone (Porzingis ha tirato solo con il 34% i piazzati la scorsa stagione nonostante una meccanica che invita a pensare di meglio). Lo stesso Melo sembra poter essere usato da iniziatore del pick and roll, una situazione poco esplorata nella scorsa stagione (solo 218, meno di Dion Waiters) quando finiva per consumare secondi preziosi in isolamento prima di provare un tiro a bassa percentuale.
Il lavoro dal punto di vista tattico sarà enorme per un allenatore che avrà a che fare non solo con il rebus di mettere insieme la necessità di sviluppare il futuro della squadra (Porzingis) e l’ottenere risultati per giustificare il presente (Melo), ma anche di mettere insieme un roster eterogeneo che oltre alle due stelle ha una chiara spaccatura interna. Il resto della squadra si divide infatti tra giocatori adatti alla Triangolo come Noah, Lee e Hernangomez e giocatori adatti a un gioco più dinamico come Rose, Jennings e Lance Thomas. Un rapporto così diverso di anime in campo che ha portato a non chiarire nulla in pre-season (anche per l’assenza di Rose per via del processo civile che lo vede coinvolto).
C’è di buono che i Knicks vantano una certa profondità in ogni ruolo, con ad esempio un Jennings carico in pre-season, il quale attenta in modo concreto a superare Rose per numero di partite giocate. Ma anche un Hernangomez che si è preso subito i minuti in rotazione mangiandoli all’ormai chiaro equivoco O’Quinn, o tantissimi giocatori ancora da scoprire ma che ben hanno fatto in pre-season come Kuzminskas o Chasson Randle.
Phil Jackson ha costruito un roster con l’ambizione chiara di portare per la prima volta la sua versione dei Knicks ai Playoff. Ma il castello di carte si regge su troppe scommesse perché possa reggere l’urto delle 82 partite in una piazza come New York. Molto probabilmente assisteremo a una stagione di tanti alti e bassi, con vittorie esaltanti e sconfitte inaspettate poco sotto la zona Playoff.
8) WASHINGTON WIZARDS
Ranking overall redazione UU: 19.1
Ciuppani
La caduta degli Wizards fuori dalla zona playoff nella scorsa stagione ha colto quasi tutti di sorpresa. Dopo aver raggiunto il 5° posto per efficienza difensiva e conquistato il fattore campo nei Playoff, l’arrivo di un veterano come Pierce e la maturazione delle proprie stelle sembrava che potesse portare a un salto di qualità per la squadra della capitale. Invece l’ultima stagione di Wittman ha visto una regressione sotto più punti di vista e Washington si è ritrovata fuori dai playoff con un record interlocutorio di 41-41.
Per cambiare le carte in tavola è stato chiamato Scott Brooks, del quale sono ottime le credenziali (record in carriera del 62% di vittorie, apparizione alle finali NBA 2012, coach dell’anno) ma sono sospetti i meriti, dato che quei Thunder erano una delle squadre più talentuose di sempre (Westbrook+Durant+Harden+Ibaka tutti assieme!), indipendentemente da chi li avesse allenati. Ciò che risulta innegabile è il fatto che Brooks sia abile a legare coi propri giocatori e farli rendere al meglio su entrambi i lati del campo, cosa che agli Wizards è richiesta come priorità altissima.
Wall e Beal infatti hanno ammesso i propri problemi, dicendo che in campo a volte si limitano a sopportarsi invece di coesistere e il ruolo di Brooks dovrà essere quello di far funzionare il dynamic duo della capitale come mai sono riusciti a fare finora. Nello specifico la percentuale di Beal cala di sei punti percentuali quando Wall è in campo con lui, e la solida difesa dei Wiz è passata a essere motivo di continue incomprensioni e faide personali.
O come nel caso di Otto Porter, che era assorto a ripensare tra sé e sé alla caducità della vita.
Beal e Wall devono quindi dimostrare di essere due giocatori migliori rispetto a quanto mostrato finora, per un motivo o per un altro. I numeri per 36 minuti di Beal nella passata stagione erano notevoli (20.2 punti, 4 rimbalzi, 3.5 assist con il 38% da 3), ma restare sano è ormai un obbligo e non più un lusso. Wall è ormai nell’età in cui dovrebbe far pesare un po’ di più il fatto di essere quasi sempre il miglior giocatore in campo, e la sua leadership non può essere delegata a veterani di passaggio.
L’attacco di Brooks era prevalentemente composto da isolamenti ripetuti, ma la scusante era che con Westbrook e Durant ciò fosse più imposto che voluto. Con gli Wizards c’è possibilità di variare l’assetto, e con Beal e Satoransky a muoversi senza palla, Wall e Gortat a giocare il pick&roll e ali piccole versatili come Porter e Kelly Oubre dovrebbero consentire un attacco più fantasioso e meno stantio sia dei vecchi Thunder che dei passati Wizards. Con un attacco rinvigorito e una difesa ritrovata non c’è motivo per escludere gli Wizards dalla corsa ai playoff, ma per ora restano due grossi “se” da risolvere.
Oltre al già citato Satoransky, la presa di Ian Mahinmi potrebbe essere un’ottima operazione passata sottotraccia, se rispettasse le aspettative. L’anno scorso la sua stagione è stata tremendamente solida, in grado di fornire un’elevata protezione in una Indiana che sembrava a corto di interpreti. La sua fisicità è essenziale a Washington dopo che per anni ci si è affidati alla Saudade e indisponibilità fisica di Nené. Se la difesa collasserà nuovamente, Mahinmi potrebbe addirittura scalzare le gerarchie e partire davanti a Gortat, anche se al momento appare solo un azzardo.
Infine Trey Burke è chiamato a fare il vice Wall, compito che è stato la condanna a morte di innumerevoli giocatori nel passato. Ma gli Wizards ci hanno scommesso molto, pagandolo una prima scelta, e se anche questa parentesi professionale fallisse, la carriera NBA di Burke rischia di essere arrivata ad un binario morto.
7) CHARLOTTE HORNETS
Ranking overall redazione UU: 16.7
Davide Casadei
Quando coach Steve Clifford ha preso in mano questa franchigia, questa franchigia aveva ancora il nome di Bobcats e pascolava inerme nella desolazione di un romanzo apocalittico di Cormac McCarthy. Clifford è l’epitome dell’uomo intransigente ma comprensivo che riesce ad adattarsi a ciò che il buon dio, o il buon Michael Jordan che dir si voglia, ha da offrire. Pur senza un rim protector e con il play titolare bollato da subito come buco nero difensivo, ha costruito un sistema che mirava soprattutto a proteggere l’area dalle penetrazioni. E, sorprendentemente, ci è riuscito.
Gli Hornets hanno chiuso la stagione appena passata con la nona miglior difesa della NBA, recuperando quasi l’80% dei rimbalzi nella propria metà campo (miglior dato della lega) grazie a un sistema molto conservativo. E allora quale posto migliore per provare a rilanciare la carriera di Roy Hibbert? Hibbert fu il pioniere della “verticality” tanto in voga fino a circa tre anni fa nella NBA. Ci fu un periodo in cui l’asset più importante per un lungo era difendere il ferro stando in posizione braccia e mani alte. Persone come Towns o Porzingis sono arrivate come il luteranesimo a bussare alla porta, ma la verticality rimane una qualità invidiabile, per quanto meno appariscente di una stoppata che finisce in terza fila.
La perdita di Al Jefferson, in compenso, si sentirà soprattutto quando l’attacco diventerà stagnante: il suo gioco in post ha rappresentato un’ancora di sicurezza quando il tiro da fuori non entrava. Il resto della rotazione dei lunghi è formato da Frank Kaminsky, che deve ancora passare il Dottorato in Lungo Moderno, e Cody Zeller, chiamato a confermarsi macchina dal moto perpetuo sui due lati. Marvin Williams, dopo un’introspezione durata un lustro, forse ha capito chi è davvero giusto in tempo per strappare un quadriennale da 54 milioni.
Il reparto esterni ha visto la breakout season di Batum - che al dizionario NBA trovi alla voce “collante” ma anche “incostanza” - e di Kemba Walker. Il play da UConn è migliorato in ogni cruda statistica, anche se non soprattutto da 3. La sua eredità più duratura risiede però nell’aver guidato gli Hornets all’attacco con meno palle perse della NBA, e considerando che hanno chiuso nella top-10 anche per rating offensivo, un baciotto agli haters lo può anche lanciare. Più dubbi ci sono su come Belinelli e Lamb riusciranno a sopperire al playmaking secondario dalla panchina che garantiva Jeremy Lin, mentre per l’enorme quantità di video di highlights su YouTube che il taiwanese generava (50.900, per la cronaca *faccina wow di Facebook*) non c’è molto da fare.
La differenza tra una primavera a rilassarsi sui Monti Appalachi e un alveare ronzante nella Buzz City la può e deve fare Michael Kidd-Gilchrist. È l’esterno difensivamente più versatile a est di Kawhi Leonard, rientra da un infortunio serio alla spalla con la responsabilità di marcare il giocatore avversario più forte. MKG mostra mobilità e buona comprensione del gioco, ma anche se il tiro non è certo la barzelletta che l’ha accompagnato nel primo biennio nella lega, non è nemmeno diventato quello di Kevin Durant nel giro di qualche stagione.
Una marionetta che ti copia i movimenti e ti ruba l’ombra alla Shikamaru Nara
Nota di colore: Charlotte ha perso un All Star Game per colpa di assurde leggi statali che ledono i diritti della comunità LGBT. Bravissima la NBA, meno bravo il governatore della North Carolina. Enorme occasione persa - mentre continuano a perdere sponsorship per eventi sportivi di ogni genere. Un peccato.
6) INDIANA PACERS
Ranking overall redazione UU: 16.7
Lorenzo Bottini
Chiusa con non pochi colpi di tosse l’era Vogel, Larry Bird, invece di invertire la rotta con cautela, mettendo la freccia e usando nel modo appropriato gli specchietti, si è lanciato direttamente in un’inversione a U sulla tangenziale che neanche GTA San Andreas. Con la promozione a capo allenatore di Nate McMillan, la cinquantesima stagione dei Pacers parte schiacciando ancora di più sul pedale dell’acceleratore (l’anno passato avevano il 10° numero di possessi della lega), un modo pavloviano per aumentare il ritmo di gioco e mettere le pezze ad uno sviluppo offensivo a tratti davvero offensivo per chi lo guardava. A tal scopo gli allenamenti estivi sono stati condotti con il cronometro di gioco fissato a 14 secondi, per affinare il run&gun che dovrà diventare il nuovo mantra filosofico di George e compagni.
E fino a qui tutto bene. I Pacers erano arrivati alla cuspide del loro gioco ispido e spigoloso contendendo il titolo della Eastern Conference ai Big 3 di Miami senza mai riuscire a mettere a segno il colpo gobbo. Da lì una lunga agonia discendente, coincisa con l’infortunio vietato ai minori di Paul George e con l’invenzione del tiro da tre punti che ha di colpo ingrigito il modo di giocare il basket in Indiana. La rivoluzione doveva arrivare e la rivoluzione è arrivata, non sotto forma della tarantella “PG13 da 4 sì, PG13 da 4 no” che furoreggiava 365 giorni or sono, ma più canonicamente aumentando il ritmo di gioco per allinearlo a quello delle altre squadre di vertice. Come e quando arriverà questa trasformazione, o se avrà successo, è ancora tutto da scoprire.
L’unica certezza rimane il talento sconfinato di Paul George, finalmente ristabilito e reduce da una serie di Playoff contro Toronto in cui ha quasi eliminato da solo la squadra vicecampione della Conference. George, lo ricordiamo ai meno attenti, è pur sempre il miglior giocatore della costa Est a non vestire la maglia Cavs.
Ma l’equazione miglior giocatore = migliore squadra non risolve tutti i problemi dei Pacers: attorno a PG infatti il roster sembra essere stato composto premendo il tasto shuffle sul Generatore di Squadre Anonime Che Usciranno al Primo Turno dei Playoff. Sostituire George Hill con Jeff Teague, ad esempio, non sarà così meccanico come previsto: il giocatore di casa conduce l’attacco con una frenesia maggiore rispetto al precedente ossigenato playmaker, ma è allo stesso tempo esige di avere spesso la palla in mano. Se Hill si era reinventato come tiratore piazzato (il 43.4% delle sue conclusioni sono arrivate senza mettere palla a terra, contro il 16% di Teague) per concedere a Monta Ellis e a George di guidare l’attacco, JT dovrà mettere dentro con regolarità i tiri aperti che gli saranno concessi. Poi c’è l’altra metà campo: Teague non è un difensore naturale e potrebbe esporre tutti i limiti di Monta Ellis che la tetragona apertura alare di George Hill in qualche modo tamponava. Se a questo si somma l’indisciplina tattica di Thaddeus Young e l’inesperienza di Myles Turner, c’è il rischio che tutte queste attenzioni rivolte all’attacco non scoprano la coperta in difesa, da sempre il Marchio Registrato della Pacers S.r.l.
Poi ci sarebbe la panchina, una pregevole raccolta di ball stopper da conservare in una di quelle teche da collezione di cui fa la pubblicità Massimo Dapporto e da far vedere ai vostri figli per spiegargli com’era il gioco prima della scoperta del fondamentale del passaggio. Posso testimoniare di aver visto Rodney Stuckey prendersi sei tiri su sei possessi senza neanche far finta di passarla. Una roba che se la fai al campetto cominciano a cercare di toglierti la palla anche i tuoi compagni. La second unit dovrebbe appoggiarsi spesso e volentieri nel post basso di Al Jefferson come ha fatto lo scorso hanno Charlotte, ma Big Al dovrà prima trovare qualcuno in vena di passargli la palla. La stagione di Indiana vivrà di questa doppia velocità: prima i titolari a correre e a tirare nel minor tempo possibile, poi la panchina a rallentare in slowmotion l’attacco e cercare continuamente la palla dentro.
Il vero motivo di interesse per questa stagione di transizione sarà osservare lo sviluppo di Myles Turner, uno dei giocatori più rari che potete trovare nel vostro Pokedex: un centro capace di spaziare il campo con il suo tiro da fuori e allo stesso tempo abile a difendere il ferro con efficienza.
Timbrare il biglietto da visita
Si vocifera che Vogel sia stato allontanato anche a causa del suo scarso minutaggio, quindi McMillan giocoforza dovrà metterlo al centro della sua presunta rivoluzione. Nessuno sa però quando quest’ultima arriverà. D’altronde pretendere risultati immediati da una squadra che ha effettuato un cambio di rotta così repentino è ingiusto: Indiana ha accettato malvolentieri di doversi rifare il trucco e come tutte le donne offese potrebbero volerci mesi prima che si decida ad uscire da quel dannato bagno.
5) DETROIT PISTONS
Ranking overall redazione UU: 13.5
Dario Ronzulli
A Detroit si riparte da quanto di buonissimo è stato fatto la scorsa stagione: ottavo posto ad Est con record positivo, una serie playoff combattuta contro Cleveland, la crescita esponenziale di Andre Drummond - anche nel salario, dopo la firma del quinquennale da 130 milioni che ne fa il faro del team anche solo per via del conto in banca. I Pistons non andavano così bene dal 2007-2008, quando persero in finale ad Est con Boston: insomma il lavoro di Stan Van Gundy, dal repulisti generale al ringiovanimento del roster, ha pagato dividendi interessanti. La stagione 2016-17 deve però essere l’annata quantomeno del consolidamento del ruolo di possibile potenza nella Eastern.
Di fatto la struttura dello starting five è rimasta la stessa e questo è un plus non da poco da sfruttare nella fase iniziale della stagione. Inoltre gli arrivi dal mercato dei free agent di Ish Smith (bene in pre-season al posto dell’infortunato Jackson), Jon Leuer e Boban Marjanovic (entusiasmo!) hanno dato più profondità alla panchina, il vero punto debole della passata stagione. Tutto nel solco di quanto mostrato dopo l’arrivo alla deadline di Tobias Harris: squadra forte fisicamente, con età media bassa, che vuole e può dominare a rimbalzo, che ha nel duo Jackson-Drummond l’asse portante per arrivare a una posizione playoff di rilievo.
Un assaggio di quello che possono fare i due se in serata
Ma è anche una squadra che non ha tiratori totalmente affidabili e che non offre garanzie di continuità, anche per la beata gioventù di cui è intrisa, e per questo l’opera di modellamento di mastro Van Gundy non è dunque finita, anzi. Tuttavia, nel grande equilibrio che si preannuncia ad Est, i Pistons partono con punti più fermi rispetto alle rivali: superare il primo turno playoff è l’obiettivo primario, ma se attorno a Drummond gli altri alzassero la qualità del proprio gioco - al riguardo terrei molto d’occhio la stagione di Caldwell-Pope, che dall’anno prossimo avrà un contratto che non vi aspettate - la finale di conference non è poi così un miraggio.
4) ATLANTA HAWKS
Ranking overall redazione UU: 11
Marco Vettoretti
L’inizio della striscia da nove qualificazioni consecutive ai playoff degli Atlanta Hawks - la seconda più lunga tra quella ancora aperte, dopo gli irraggiungibili Spurs - è coincisa nel 2008 con la prima stagione nella Lega di Al Horford. Oggi, nove anni e una finale di conference più tardi, le strade dell’ex Florida e degli Hawks si sono separate. Una separazione tutt’altro che indolore, ma per la quale i tempi parevano ormai maturi.
A sostituirlo è arrivato Dwight Howard, nato proprio ad Atlanta l’8 Dicembre di 31 anni fa. Figliol prodigo in cerca di redenzione, l’Howard che sbarca in Georgia è al tempo stesso la più pericolosa e la più affascinante scommessa che si potessero permettere alla Philips Arena, per quanto il titolo DH12 sia in lento, inesorabile calo da ormai quattro/cinque anni. Più o meno da quando Superman ha vestito per l’ultima volta la canotta degli Orlando Magic, periodo nel quale mandava a registro un valore di win shares in doppia cifra e raccoglieva, sempre per l’ultima volta, una percentuale di rimbalzi difensivi superiore al 30%. Eventualità mai verificatesi nella sua fugace apparizione a Los Angeles e nei tre anni trascorsi in maglia Rockets. Perché allungargli un triennale da 23 milioni annui, pertanto?
Perché, nonostante tutto, può essere esattamente quello di cui hanno bisogno ad A-Town. Un esempio: lo scorso anno Howard ha raccolto il 29.1% dei rimbalzi difensivi disponibili. Il migliore di Atlanta nel medesimo parametro? Paul Millsap con il 21.3%, seguito da Horford con il 18.0%. Basta per giustificare il sopracitato triennale? Assolutamente no. Dovranno funzionare un’infinità di cose in più, in primis la convivenza con Dennis Schröder, le spaziature - che in un sistema pass-oriented come quello di Mike Budenholzer svolgono un ruolo vitale - e la condizione psicofisica di Howard. I playoff sono ancora ampiamente alla portata, anche con il vantaggio del fattore campo. Va però messo in preventivo che se non dovessero scattare gli interruttori giusti, al pulsante del reset è stata tolta la sicura.
Postilla: la costosa conferma di Bazemore, paradossalmente più importante di quella poi non avvenuta di Horford, solleva il non trascurabile quesito su chi sarà, dopo DeMarre Carroll e Baze, il prossimo giocatore perimetrale (sottopagato) ad esplodere sotto le mani di Coach Budenholzer. Se vi avanza una fiche, puntatela su Moose Muscala.
3) TORONTO RAPTORS
Ranking overall redazione UU: 6.9
Casadei
I Toronto Raptors ripartono dal migliore anno della loro esistenza da quando l’NBA ha ammesso l’esistenza del Canada: All-Star Game tra le mura di casa, due gare strappate con gli artigli a dei Cavs schiacciasassi e un restyle completo brandizzato Drake e #WeTheNorth. Un entusiasmo che li ha portati a confermare la loro stella, DeMar DeRozan, con un contratto da 137.5 milioni in cinque anni.
Non tutto però luccica come sembra: DeRozan sembra sempre più un dinosauro - sigh - rispetto alle filosofie avanguardiste della NBA, essendo uno scorer poco efficiente, dedito religiosamente alla forzatura, che tira poco da 3 e oltretutto con percentuali ampiamente sotto media. Si è salvato dal processo darwinista che lo costringerebbe all’estinzione solo perché quello che sa fare su un campo da basket - e sono tantissime cose, per carità - sono fatte veramente bene.
Toronto è strutturata e forse a suo modo costruita per assorbire gli assoli di DeRozan e Lowry, che ai playoff hanno fatto enormemente fatica al tiro, ma che in regular season erano andati talmente bene da chiudere con il quarto rating offensivo della lega. Un aspetto non da sottovalutare è che i canadesi possiedono un cachet offensivo di estrema varietà, pur senza brillare in nessuna situazione d’entrata specifica.
I Raptors al loro meglio (via hashtagbasketball.com)
I Raptors erano però riusciti a trascinarsi fino alle finali di conference grazie anche a una ritrovata efficienza nella propria metà campo. Guess the news? Bismack Biyombo, la loro grande anima difensiva una volta perso Valanciunas per infortunio, è volato destinazione Orlando ed era l’unico rim protector di livello a roster. Schifo non faceva, diciamo. Gli altri lunghi che sono rimasti hanno caratteristiche diverse: Patterson è uno stretch 4 con esperienza nel ruolo, e in questo senso l’aggiunta di Jared Sullinger ha un perché ma non risolve la mancanza di cui sopra. Bebe Nogueira è un bel faccino buffissimo e poco più, mentre Jakob Poetl è un prospetto affascinate che si trascina dietro i soliti dubbi sull’adattibilità al gioco più fisico del piano superiore: avrà tempo per crescere, ma non ha le stigmate della star o tantomeno dello scudiero Tarly da pick and roll con Lord Commander of the Night Watch Kyle Lowry. Una promessa molto più solida risiede sulle spalle di Norman Powell, che contro Miami ha fatto vedere sprazzi da 3&D con upside. In quel ruolo parte dietro a un Carroll da rilanciare e a un Ross ai margini delle rotazioni e in odore di trade.
Se Toronto ha un vantaggio sulle altre contender è quello di potersi riconoscere fin da subito allo specchio: franchigia consolidata sia a livello dirigenziale che nella propria identità di gioco, resta da capire se abbiamo già visto il massimo che questo gruppo sa offrire o se questa squadra ha qualche margine di miglioramento. Se le tessere del domino si innescano come un live di Drizzy sono da finali di conference e poi vediamo; se invece arrivassero infortuni, invasioni di Bruti e qualche colpo in meno da Lowry, quelli del nord rischierebbero di fare la fine degli Stark.
2) BOSTON CELTICS
Ranking overall redazione UU: 5.8
Bottini
Inutile girarci intorno: il quarto anno di Brad Stevens ai Celtics segna la chiusura dei cantieri a forma di quadrifoglio e certifica il ritorno nel nucleo delle contender. Era solo il 2013 quando Danny Ainge premeva il pulsante dell’autodistruzione sull’era dei Big Three e spediva Pierce e Garnett a Brooklyn in cambio di un numero inverecondo di prime scelte (ci sono ancora quelle del 2017 e del 2018 da incassare), decretando di fatto la fine di una squadra che era riuscita a riportare l’anello nella Bean Town dopo anni di magra. Il cartello “lavori in corso” sopra il Garden però è rimasto affisso meno del previsto, complice una serie di trade azzeccate che hanno costruito un gruppo solido impreziosito in estate dalla firma di Al Horford, il secondo miglior free agent disponibile sul mercato.
Il lungo strappato ad Atlanta è un innesto di assoluto valore in quanto rappresenta un netto upgrade rispetto al pacchetto sotto canestro della scorsa stagione. È come se tutte le qualità dei lunghi a roster si fossero fuse in un unico corpo di 208 cm, garantendo a Stevens una multi dimensionalità finora sconosciuta. Per la prima volta l’ex coach di Butler ha in mano il materiale tecnico per sviluppare appieno il suo gioco, fatto di spaziature sartoriali e difesa all’arma bianca. La scorsa stagione Boston ha chiuso con il quarto miglior Defensive Rating (100.9) della Lega nonostante l’assenza di un Rim Protector d’elitè. Horford, che ha concesso meno del 50% al ferro lo scorso anno, migliorerà l’efficienza difensiva dei C’s anche solo per il fatto di permettere a Stevens di schierarlo a lungo in coppia con Amir Johnson senza congestionare le spaziature nell’altra metà campo. Anzi, la sua capacità di colpire oltre l’arco (34% la scorsa stagione, in netto miglioramento) e di essere una minaccia concreta nel pick&pop, nonché un eccellente passatore dal post alto, renderà le esecuzioni della motion di Stevens ancora più armoniose ed efficaci.
Finalmente hanno dato un lungo a Isaiah con cui giocare liberamente
Uno dei limiti più evidenti dell’attacco di Boston era quello di non essere in grado di convertire le molte triple aperte che creava, segnando solo 33,5% di media (terz’ultimi nella NBA), solo 37% in quelle smarcate. I Celtics non si sono mossi in offseason per colmare questo gap, con la speranza che Avery Bradley e Jae Crowder continuino quel percorso di crescita che li ha trasformati da specialisti difensivi in attaccanti da rispettare, specialmente il prodotto di Texas che negli anni ha costruito un gioco dalla media molto pulito pur imponendosi come uno dei migliori difensori esterni della lega (Primo Quintetto difensivo nel 2016). Una strada che lo staff di Stevens spera di far imboccare anche a Jaylen Brown, preso con terza scelta nel recente Draft e chiamato fin da subito a dare esplosività sui due lati del campo.
Benvenuto Jaylen, facci volare
Dalla panchina si alzeranno anche Marcus Smart e Terry Rozier, molto positivo in pre-season, per cercare di dare qualche turno di riposo a Isaiah Thomas, risparmiandogli per qualche sera l’interpretazione da salvatore della patria. “Mr. Irrilevant” resta il cuore pulsante della squadra che proverà a sfidare Cleveland per il trono dell’Est ma la strada è ancora molto tortuosa e fare il passo più lungo della gamba per una franchigia che non vince un turno di playoff dal 2012 potrebbe rivelarsi fatale.
1) CLEVELAND CAVALIERS
Ranking overall redazione UU: 2
Vismara
È opinione pressoché universale che i Cleveland Cavaliers abbiano la strada spianata quantomeno per tornare in finale di conference, se non proprio preparare già le valigie per il terzo viaggio consecutivo alle Finali NBA. D’altronde LeBron James logora chi non ce l’ha, e se gli ultimi sei anni ci hanno insegnato qualcosa, è che il Re si tiene sempre da parte un paio di marce da poter scalare pressoché a comando per accelerare in vista dell’appuntamento con il Larry O’Brien Trophy.
Il lato oscuro di questa onnipotenza sono tutte le volte che, invece di ingranare la quarta-la quinta-la sesta-la settima, si auto-limita alla seconda e alla terza durante il corso della logorante regular season e mantiene una velocità di crociera costante (facilitatore per 43 minuti su 48 e dominatore negli ultimi 5, con pause di riflessione difensive sempre più lunghe) facendo oscillare l’intera squadra al ritmo della sua voglia di impegnarsi. Un ritmo che può tenere sostanzialmente solo lui, e che rimane intoccabile per il 90% della lega, ma che ha un effetto fin troppo calmante sui suoi compagni, che hanno appreso piuttosto velocemente la tendenza a trattare la regular season come un lungo aperitivo sonnacchioso in vista dei playoff.
Ora che hanno vinto il titolo NBA, i Cavs possono permettersi di rilassarsi, tanto da un punto di vista emotivo (anche l’impasse con J.R. Smith è stata superata con 57 milioni di buoni propositi) quanto finanziario, visto che per motivi salariali sono stati lasciati partire due giocatori di rotazione come Dellavedova e Mozgov, che nelle Finali del 2015 erano stati i principali scudieri di LeBron e nella serie dello scorso giugno sono scomparsi sul fondo della panchina. La profondità nel ruolo di point guard e di centro di questa squadra, però, rimane sospetta: alle spalle di Kyrie Irving (atteso non solo a giocare 82 partite, ma ad avere una continuità finora mai vista in carriera) si contenderanno i minuti un giramondo come Toney Douglas e una seconda scelta come Key Felder (tanto la PG di riserva è sempre LeBron); dietro Tristan Thompson, invece, è stato chiamato il pretoriano Chris Andersen, che sa ricoprire il ruolo di rim-runner della second unit in mano a LeBron come un Johnny Depp nell’ennesimo film di Tim Burton, ma di candeline ne ha spente già 38.
Al di là di tutto, la combinazione di attaccanti con la palla in mano (LeBron e Kyrie) e di cecchini appostati sul perimetro (Smith-Love-Shumpert-Jefferson-Frye, tutti sopra i 38% da tre negli scorsi playoff, a cui si aggiunge il nuovo arrivato Mike Dunleavy) continua a essere un enigma irrisolvibile per chiunque, dando il tempo di capire se si può tirare fuori un giocatore di rotazione da Jordan McRae. Un attacco da top-5 dovrebbe essere ampiamente nelle corde di questa squadra anche senza il tentativo di default che verrà fatto per riscoprire le doti perdute di Kevin Love come punto focale di un attacco. Attorno al sospetto fit tecnico dell’ex T’Wolves gireranno gli unici punti di domanda di una regular season che si annuncia altrimenti senza drama per i campioni in carica, visto che anche la panchina è saldamente in mano a Lue.
Vincere un titolo NBA fa anche se non soprattuto questo: ti garantisce una relativa tranquillità per poter gestire le forze, e anche un eventuale secondo o terzo posto a Est potrebbe essere accettato senza farsi troppi problemi, a patto che l’intero roster sia integro e riposato in vista dei playoff. Tanto poi, quando si fa sul serio, ci pensa il Re a far capire che è arrivato il momento di giocare per davvero.