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Mega guida alla Western Conference 2016/17
21 ott 2016
C'è vita oltre Golden State?
(articolo)
37 min
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(ON)

15) LOS ANGELES LAKERS

Ranking overall redazione UU: 28.2

Marco D’Ottavi

No more parties in El Segundo avrebbero dovuto cantare più correttamente Kanye West e Kendrick Lamar. Perché se a Los Angeles paiono sempre tutti pronti a far festa - pure i Clippers, per dire - solo i gialloviola sembrano non avere nulla per cui stappare un Asti Gancia nel breve. Dopo una stagione da 17 vittorie e tanti saluti a Kobe, è arrivata l'ora di rimboccarsi le maniche e capire se c'è una luce in fondo a quel tunnel che sembra infinito.

Partiamo dalle note positive: dal Draft è arrivato Brandon Ingram, un talento incredibile, ma che ha bisogno di tempo e panca piana prima di fare la differenza in NBA; in panchina è arrivato Luke Walton, il prospetto di allenatore più interessante e (pare) la mossa più intelligente fatta a Los Angeles da un bel po' di tempo, ma anche lui avrà bisogno di tempo e di errori (tipo l'idea di promuovere Lou Williams in quintetto); D'Angelo Russell avrà finalmente minuti e pallone in mano per dimostrare di poter diventare la faccia di questa franchigia; Julius Randle avrà un anno in più sulle spalle e se migliora al tiro può essere una pedina fondamentale nella pallacanestro small ball di oggi; Jordan Clarkson continua ad impressionare e sotto la guida di Walton può ancora migliorare.

D’Angelo intanto riparte dal GHIACCIO NELLE VENE

Il problema è tutto il resto: in estate i big sul mercato hanno completamente snobbato i Lakers, che sono riusciti solo ad accaparrarsi due veterani affidabili come Deng e Mozgov, buoni da accostare al cuore giovane della squadra, ma pagati più del loro reale valore e non in grado di spostare gli equilibri; sono rimasti i tiri su un piede di Huertas, le pazzie di Nick Young e a quanto pare Metta World Peace è vivo e lotta insieme a noi; è arrivato un Calderon sul viale del tramonto (ma che comunque porta in dote il suo 41% da 3) e in generale il roster sembra ancora lontano dall'essere competitivo.

In campo Walton sembra intenzionato a portare a Los Angeles una certa idea di basket moderna, che poi è quella appresa alla corte di Steve Kerr: ritmi alti, palla che si muove, quintetti versatili, spaziature decenti e – se proprio ci si riesce - tiri da 3. Installare questa mentalità in una squadra da troppo tempo allo sbando richiederà lavoro ed errori, per cui è prevedibile un'altra stagione deludente per i tifosi, anche perché il verbo to tank già gira nei corridoi della dirigenza. I Lakers infatti hanno una prima scelta protetta solo se in top-3 (e tenendola non dovrebbero dare la prima scelta 2019 al Magic, facendola diventare due comode seconde scelte 2017 e 2018) e il Draft di quest’anno sembra pieno di guardie di talento, per cui cercare l'obiettivo delle 30 vittorie per la gloria non sembra poi un’idea geniale. Ma chi glielo spiega ad un allenatore abituato a stagioni da 73 W?

14) PHOENIX SUNS

Ranking overall redazione UU: 27.5

Nicolò Ciuppani

Anche dopo anni passati a ricostruire, i Suns sembrano non schiodarsi mai dal punto di partenza. Ogni estate scelgono al Draft una guardia da Kentucky, accumulano talento giovane nelle stesse posizioni del roster e si affidano a veterani in calo per tappare ampi minutaggi in un ruolo. Nonostante tutto, un raggio di flebile positività sembra filtrare nelle mosse di Phoenix: la dirigenza e la proprietà sembrano aver preso una direzione comune, quella della ricostruzione, e ciò è già un passo in avanti rispetto al recente passato.

Earl Watson è stato confermato come coach nonostante non abbia dimostrato nulla se non di essersi guadagnato la fiducia dei giocatori. La squadra sembra strutturata con Bledsoe e Booker a guidare i titolari e Knight le seconde linee, un nutrito gruppo di giovani da sviluppare (Warren, Bender, Chriss, Ulis), un paio alla resa dei conti per dimostrare che meritano rilevanza (Len, Goodwin) e veterani e journeyman per tenere insieme uno spogliatoio sgretolato dall’esperienza-Morris nelle passate stagioni (Dudley, Barbosa, Chandler, Alan Williams).

I Suns giocano al solito un attacco ad alto ritmo, con pochi passaggi e numerosi isolamenti, ma spettacolare abbastanza da rubare l’occhio in qualche nottata noiosa di League Pass. La difesa resta sempre il tallone d’Achille che li porta verso numerose sconfitte e il fondo della classifica, per quanto a roster ci sarebbero pure dei buoni difensori - ma il loro rendimento è scarso o per età elevata o per disimpegno personale. L’atletismo e la velocità sono decisamente dalla loro parte, ma senza giocatori (a parte Booker e Dudley) con un QI cestistico sopra la media per incanalare al meglio le energie.

A parte la parata di lunghi avversari che avanzano indisturbati a canestro, la stagione dei Suns riceverà attenzioni soprattutto per l’evoluzione dei suoi giovani, con riflettori puntati su Booker, la cosa più vicina a un All-Star che i Suns hanno avuto da Steve Nash in poi. Oltre ad un rilascio di tiro celestiale e la capacità di segnare a piacere, Booker non ha ancora compiuto 20 anni, e di giocatori di quell’età che dimostrano una tale comprensione del gioco ce ne sono pochissimi.

È persino riuscito a far giocare un pick&roll decente alla salma di Tyson Chandler per mezza stagione

In Summer League ha giocato solo le prime partite, dando l’impressione di essere davvero un adulto in mezzo ai bambini e i tifosi di Phoenix aspettano a gloria un giocatore capace di rimetterli nella mappa della NBA che conta.

Come al solito, sarà la rotazione tra le guardie a richiamare le maggiori attenzioni: Brandon Knight in estate aveva dichiarato di sentirsi un titolare, ma Watson ha già fatto sapere che sarà il primo delle riserve. Paradossalmente la miglior stagione di Knight è stata proprio quella in uscita dal pino a Milwaukee, ma per contratto e per età è una soluzione che adesso potrebbe risultargli stretta. Lo stesso Bledsoe, anche se ancora il miglior giocatore della squadra, è spesso incline agli infortuni e da troppi anni si ritrova in una squadra senza sbocchi. Entrambe le guardie sono potenzialmente sul mercato, possibilmente in cambio di pezzi più futuribili, e i loro contratti con il nuovo cap sono delle potenziali steal. Ma il mercato di PG è sovrasaturo e nessuno sarà disposto a strapagare uno dei due se il malumore nello spogliatoio dovesse risorgere come nel 2014, quando l’Hydra formata da Bledsoe, Dragic e Thomas vide quasi tutte le sue teste tagliate in una notte.

Vincere non sarà prerogativa stagionale - a meno di partenze record che farebbero di nuovo cambiare i piani - perché lo sviluppo dei giocatori, dell’allenatore e un altro giro in Lottery sembrano più auspicabili.

13) SACRAMENTO KINGS

Ranking overall redazione UU: 25

Francesco Andrianopoli

Il rischio che Boogie Cousins possa lasciare i Kings per altri lidi è ormai da anni l’incubo peggiore di questa franchigia. In realtà, a ben vedere, le occasioni per andarsene gli sono già state prospettate in passato e lui le ha sempre rifiutate, quindi non si vede perché dovrebbe andarsene proprio ora che è ormai radicato nella comunità e può giocare in una nuova arena, con un nuovo allenatore e con una squadra drasticamente rivoluzionata.

Nessun’altra franchigia ha adottato un cambio di rotta radicale quanto quello di Sacto: dopo essere stati la squadra che giocava al ritmo più alto della lega, grazie agli scriteriati principi di George Karl, la guida tecnica è passata a Dave Joerger, un allenatore che a Memphis ha tenuto più che altro un ritmo lento, con attenzione maniacale alla metà campo difensiva, ricerca del gioco in post e di vantaggi in termini di centimetri, chili e muscoli, in totale controtendenza rispetto al trend generale che punta alla small ball e a quintetti sempre più piccoli e veloci.

Un cambio di mentalità fatto con il sarto per il gioco di Cousins, che finalmente non dovrà sfiancarsi correndo a destra e a manca, o ridursi a tirare triple in transizione, ma potrà finalmente vedere il gioco della squadra fluire attraverso di lui in un ruolo da “point center”, con set predicati sul suo gioco in post e le sue mani educatissime: una prospettiva entusiasmante, da cui potrebbero venir fuori numeri e rendimento da MVP.

Per mettere Joerger nelle migliori condizioni di perseguire questa rivoluzione tattica, il front office ha ribaltato il roster anche numericamente, liberandosi di giocatori fuori dal progetto come Rondo, Belinelli e Caron Butler, in favore di veterani tosti, affidabili e dall’attitudine spiccatamente difensiva e senza fronzoli come Garrett Temple (che Joerger potrebbe plasmare nel suo nuovo Tony Allen), Arron Afflalo, Matt Barnes e Anthony Tolliver.

Le prospettive sono quindi molto promettenti, anche se ci sono alcuni caveat: il roster è estremamente profondo nel reparto lunghi (oltre a Cousins ci sono Tolliver, Koufos, il talentuoso Cauley-Stein, che Joerger potrebbe far diventare un vero e proprio mostro difensivo, e i promettenti rookie Labissiere e Papagiannis), ma è una abbondanza che rischia di essere superflua, visto che il quintetto migliore sembra essere quello senza alcuna PF di ruolo e con Casspi e Gay accanto a Cousins; Rudy Gay, già che siamo in tema, avrebbe voluto essere spedito altrove e non fa nulla per nascondere il suo malcontento. Il backcourt è in condizioni disastrate, perché Darren Collison sarà sospeso per le prime otto gare stagionali (di cui sei, peraltro, in trasferta) a causa di problemi di violenza domestica, e questo lascerà per le prime partite le chiavi in mano al solo Ty Lawson e alla sua voglia di ricostruirsi una carriera che allo stato sembra precipitata: una prospettiva non proprio allettante, visto che ha già cominciato a saltare gli shootaround.

I Kings hanno mostrato nel corso degli anni di saper trovare soluzioni sempre più fantasiose per farsi del male: anche se questa sembra la squadra più completa, talentuosa e meglio allenata dai tempi di Adelman, una partenza difficile potrebbe essere il viatico per l’ennesimo psicodramma, in campo e fuori.

12) NEW ORLEANS PELICANS

Ranking overall redazione UU: 23.4

Marco Vettoretti

When it rains, it pours. Se le cose possono andare male, in Louisiana andranno peggio.

All’alba della quinta stagione post-discesa di Anthony Davis sulla Lega, i New Orleans Pelicans non sembrano essere ancora venuti a capo del loro secondo grande interrogativo, dopo che AD, a suo tempo, era stato la risposta al primo. Come si costruisce una contender una volta trovata la sua chiave di volta?

Intanto lui rimane un bel primo mattone, eh

Perché al di là di una condizione fisica non esattamente rassicurante - mai sopra le 70 partite giocate nei suoi quattro anni nella Lega e già un guaio alla caviglia con cui fare i conti in questa pre-season - che la prima scelta assoluta del Draft 2012 abbia le carte in regola per poter guidare una franchigia NBA ai playoff, è palese. Dando per scontato il contributo di un adeguato supporting cast. Eppure allo stato attuale delle cose i Pelicans sono ben lontani dall’essere adeguatamente competitivi.

Il secondo violino, Jrue Holiday, è al suo ultimo anno di contratto e starà lontano dai parquet NBA a tempo indefinito per le ormai note e sfortunate vicende personali, consegnando le chiavi del gioco a uno tra Tim Frazier, E’Twaun Moore e Langston Galloway, mentre si spera che Buddy Hield, bahamense prodotto di Oklahoma, confermi di essere uno dei giocatori più pronti ad essere usciti dall’ultimo Draft.

Posto che i playoff resteranno un miraggio per la quinta delle ultime sei stagioni, sarà lecito attendersi un sostanziale ridimensionamento del defensive rating, assestatosi sui 107.9 punti subiti ogni 100 possessi lo scorso anno (27° dato nella NBA). Decisamente troppi per un roster che contempla, tra gli altri, Omer Asik e i due free agent Solomon Hill e Moore. Nonostante Davis sia contrattualmente blindato da un quinquennale da 145 milioni, non ci sono allori su cui accomodarsi, anzi: serve lavorare dentro e fuori dal campo, serve dimostrare che il primo turno di playoff conquistato due stagioni fa non è stato un caso isolato e fortunoso.

11) DENVER NUGGETS

Ranking overall redazione UU: 20.7

Lorenzo Neri

Nella lista delle squadre più affascinanti della stagione viene d’istinto fare il nome dei Minnesota Timberwolves ed è facilmente comprensibile come ha ben spiegato il buon Dario ieri, soprattutto ora che hanno aggiunto un coach di livello come Tom Thibodeau - ma con un piano progettuale già ben avviato la scorsa stagione, i Denver Nuggets rischiano anche di avere più certezze rispetto alla franchigia di Minneapolis.

I Nuggets infatti sembrano avere tutte le caratteristiche della squadra pronta all’esplosione:

  • Squadra e core giovane di talento? Check!

  • Profondità del roster, alto numero di alternative per ogni ruolo? Check!

  • Allenatore con ottime conoscenze nelle due fasi di gioco e capacità di sviluppo dei giocatori? Check!

  • Un quasar player (tanto buono da sembrare una stella ma con qualche difetto da non permettergli di esserlo davvero) che può prendersi le brighe del giocatore franchigia in attesa della crescita o dell’arrivo di un giocatore di quel rango? Check!

  • Materiale da offrire in sede di trade in cambio di giocatori di caratura superiore? Check!

Probabilmente l’ho buttata giù molto semplice, ma è il modo più immediato per far capire che i Nuggets potrebbero avere tutte le carte in regola per fare un anno da mina vagante a Ovest in attesa di capire come arrivare a essere una presenza fissa nei playoff. La scorsa stagione, chiusa comunque con un record dignitoso (33-49) per una squadra così inesperta, è stato un bel banco di prova per alcuni giocatori su cui la franchigia punta il proprio futuro come Emmanuel Mudiay e Nikola Jokic, che tra errori e sorprese hanno dimostrato grande potenziale da esplorare.

In particolare Jokic ha giocato a un livello di pallacanestro veramente alto nonostante la giovane età, dimostrando un profilo tecnico vasto e pulito in uno dei ruoli che solitamente rimangono più grezzi da questo punto di vista. Le sue capacità da passatore hanno aiutato la fluidità dell’attacco e il compito di Mudiay e di Gallinari nella gestione offensiva. Coach Malone, cercando di sfruttare la verve dei suoi prospetti e la grande forza a rimbalzo (Mudiay è pur sempre una PG di quasi 2 metri per 90 chili) cercherà di giocare molto in velocità e transizione, ma quando la squadra dovrà fermarsi è molto probabile che Jokic sarà il perno su cui ruoterà la squadra, sfruttando il play congolese come risorsa dal pick and roll e Danilo - aka il quasar player - come principale arma realizzativa in una squadra che da quel punto di vista ha solo lui e Will Barton con punti nelle mani sicuri, tanto che al Draft si è cercato di andare ai ripari puntando su un realizzatore versatile come Jamal Murray da Kentucky.

Ah, sembra sia tornato pure uno Jusuf Nurkic in forma smagliante. Sempre insieme al suo carico di timidezza.

Oltre alla mancanza di pericolosità nell’attacco a difesa schierata, i limiti di questa squadra sono facilmente riconducibili al roster molto giovane, quindi probabile protagonista di una certa discontinuità di rendimento, e a una difesa ancora troppo ballerina soprattutto nella difesa del tiro da tre - 37.1%, 3° peggiore della Lega.

La ricostruzione dei Nuggets sembra essere prossima allo stadio conclusivo ed è probabile che verso metà del percorso si trovino nella situazione di dover scegliere se puntare forte verso l’ingresso ai playoff o far fruttare un’altra scelta in lottery per poi iniziare a far sul serio già dal prossimo anno. Occhio anche alle possibili variazioni del roster durante la stagione, visto che gli ingredienti ci sono tutti: gregari appetibili (Chandler, Faried), giocatori giovani e scelte da far fruttare. Tenete un occhio sui Nuggets, poi non dite che non vi abbiamo avvisato.

10) DALLAS MAVERICKS

Ranking overall redazione UU: 15.7

Nicolò Ciuppani

Se non ti chiami Tim Duncan, piuttosto verosimilmente prima o poi arriva un anno nella tua carriera in cui Father Time sopraggiunge inesorabilmente a chiedere numerosi interessi arretrati. Un paio di esempi:

Steve Nash, 37 anni: 13 punti, 11 assist, 53% dal campo, 39% da 3, 62 partite giocate

Steve Nash, 39 anni: 7 punti, 3 assist, 38% dal campo, 33% da 3, 15 partite giocate

Kevin Garnett, 36 anni: 15 punti, 8 rimbalzi, 3 assist, 68 partite giocate

Kevin Garnett, 37 anni: 6 punti, 7 rimbalzi, 1 assist, 54 partite giocate

È quindi naturale essere un filo preoccupati per le sorti del profeta di Wurzburg nell’anno in cui le primavere diventeranno 38. Dirk Nowitzki finora ha mantenuto livelli di rendimento elevatissimi, e la sua parabola è stata quanto di più costante ci si possa aspettare, ma i Mavs non possono permettersi di farsi trovare impreparati a una discesa improvvisa.

Dall’inizio della sua carriera in NBA, la parabola della carriera di Dirk non ha mai avuto una discesa così netta; dopo il picco tra i 25 e i 30 anni, il rendimento di Dirk è oscillato attorno ad un valore costante, più che precipitare a piombo. Nel grafico sono riportati i valori di Win Shares, Value Over Replacement Player e Player Efficiency Rating.

In ogni caso, sia per l’età che per il rischio infortuni, il minutaggio di Dirk dovrà essere sensibilmente ridotto quest’anno. Le rotazioni dei Mavs e il nuovo assetto del roster potrebbero tuttavia agevolare la transizione: Dallas l’anno scorso aveva una difesa mediocre, classificandosi 16° sia per rating che per percentuali concesse agli avversari, ma la base era quantomeno solida. Williams-Matthews-Nowitzki avevano registrato un Net Rating positivo di oltre 6 punti, che li posizionava come quarto terzetto assoluto in NBA, e le aggiunte di Bogut e Barnes sembrano i naturali complementi per comporre un quintetto base competente. Il ruolo di sesto uomo sembra essere cucito addosso a Justin Anderson, che ha mostrato una buona combinazione di forza fisica e tiro da fuori, aggiunte a un’attitudine in difesa con punte di eccellenza. Sarà suo il compito di sostituire Matthews e Barnes dalla panchina, oppure aggiungersi a loro in quintetti più piccoli e mobili. Le presenze di Devin Harris e Salah Mejri possono essere in grado di fortificare ulteriormente l’assetto difensivo della squadra, e J.J. Barea e Seth Curry possono avere il ruolo di party crasher per cambiare inerzia e attacco.

Lo sciamano Rick Carlisle ha numerose possibilità di variazione, cosa che l’anno scorso lo penalizzò soprattutto contro le big, finendo con un record di 2-22 contro le altre squadre da playoff ad Ovest. Se Dirk dovesse tenere botta, Wes continuare a migliorare dopo l’infortunio al tendine, Bogut e gli altri mantenersi il più sani possibili questa potrebbe essere una delle migliori squadre che il duo Dirk-Carlisle abbiano mai avuto negli ultimi cinque anni (e anche nell’anno del titolo, la loro difesa era solo la 7°), ma il rischio infortuni e il minutaggio sono fattori troppo grossi per assicurare una scommessa certa su Dallas.

9) MINNESOTA TIMBERWOLVES

Ranking overall redazione UU: 12.7

Dario Vismara

Trovo veramente triste che il Power Ranking redazionale di UU abbia lasciato i super-mega-ultra-lanciatissimi Minnesota Timberwolves fuori dai playoff, facendoci entrare invece i soliti, tristi Memphis Grizzlies. Però capisco il ragionamento: nonostante l’enorme hype generato dalla fine della scorsa regular season (record di 12-16 dopo l’All-Star Game con vittorie in trasferta contro Warriors, Thunder e Blazers); nonostante la scelta al Draft di un playmaker elettrizzante come Kris Dunn; nonostante l’arrivo di Sua Santità della Difesa Tom Thibodeau (ma soprattutto l’addio a Sam Mitchell) e nonostante l’arrivo di veterani come Brandon Rush, Jordan Hill e Cole Aldrich per rinforzare la panchina, avere dubbi sui T’Wolves è comunque lecito.

Una squadra che fa partire tre 21enni in quintetto deve per forza pagare un deficit di esperienza e continuità, indipendentemente dal fatto che quei tre siano gli ultimi due rookie dell’anno e il miglior schiacciatore che la NBA abbia visto da diverso tempo a questa parte. Attorno a Karl-Anthony Towns, Andrew Wiggins e Zach LaVine gira ovviamente l’idea stessa dei T’Wolves: tutti siamo convinti che a Minneapolis si stia creando qualcosa di speciale, ma è prudente aspettare-e-vedere prima di dichiararli già la prossima Grande Dinastia. Il saggio Phil Jackson sostiene da tempo immemore che l’acronimo NBA non stia per National Basketball Association, ma No Boys Allowed.

Poi però c’è KAT che fa questa cosa qui a Marc Frickin’ Gasol e aw man, goddamn, all hell broke loose.

Il dirty little secret di questa squadra è che già l’anno passato, pur avendo in panchina Sam Mitchell, Minnesota ha chiuso con il 12° miglior attacco della NBA, che è un pensiero piuttosto spaventoso se pensiamo che, con un roster migliorato e un anno in più di esperienza per tutti, la top-10 sia il naturale step successivo. Il motivo per cui hanno vinto solo 29 partite è da ricercarsi piuttosto nell’avere la quart’ultima difesa — ed è qui che le lampadine che compongono il nome di TOM THIBODEAU dovrebbero iniziare ad illuminarsi come con Will Byers in Stanger Things.

Una difesa anche solo attorno alla mediocrità è un risultato alla portata di questa squadra perché, nonostante l’inesperienza di cui abbiamo già accennato, nessuno tra Rubio, LaVine, Wiggins, Towns e Dieng — i membri del quintetto base — è un difensore irrecuperabile. Nella scorsa stagione questo quintetto è stato il più utilizzato della squadra (648 in 46 partite, il secondo con le salme di Garnett e Prince si ferma a 276) e, pur concedendo degli inaccettabili 109.6 punti su 100 possessi in difesa, in attacco ne segnava 113.5 sfiorando il 61% di percentuale reale — ed è comunque quinto per Net Rating tra quelli che hanno giocato 500+ minuti.

Magari finiranno anche fuori dai playoff, non è impossibile pensarlo. Ma che siano un assoluto must-watch di questa stagione direi che siamo d’accordo veramente tutti.

8) MEMPHIS GRIZZLIES

Ranking overall redazione UU: 11.3

Neri

Dopo esser stati devastati dagli infortuni, portando a 28 (!) il numero dei giocatori messi a referto nell’arco della stagione - ovviamente record NBA - riuscendo comunque a chiuderla con record positivo (42-40) strappando un posto ai playoff, i Grizzlies si presentano ai ranghi di partenza con una squadra che non è cambiata negli interpreti principali, ma che rischia di essere rivoluzionata sotto l’aspetto tattico.

Salutato Dave Joerger, che ha preferito una situazione più a lungo periodo rispetto a quanto gli si prospettava a Memphis, alla guida tecnica è subentrato l’emergente David Fizdale, reduce da una carriera di tutto rispetto come assistente tra Heat, Hawks e Warriors. Nonostante sia al suo primo impiego da head coach, Coach Fiz si porta dietro l’apprezzamento degli addetti ai lavori e quello dei suoi stessi giocatori fin dalle prime uscite del training camp.

Questa fiducia sarà necessaria nel momento in cui Fiz inizierà ad allontanarsi sempre più dallo stile Grit&Grind che in questi anni ha definito i Grizzlies come una delle migliori squadre a Ovest, processo dovuto a causa di una squadra che sta lentamente iniziando la sua parabola discendente, come dimostra l’anagrafica di Zach Randolph (35), Tony Allen (34) ma anche Marc Gasol (31), inserito nel discorso a causa di un fisico che ora più di prima inizierà a fare le bizze.

Proprio per questo motivo le chiavi della squadra saranno consegnate definitivamente a Mike Conley, che in estate ha firmato un contratto da 153 milioni per i prossimi 5 anni - cifre di un certo spessore che possono essere criticate se si pensa al valore assoluto del giocatore ma non se si pensa all’importanza del suo ruolo in questi Grizzlies. Conley sarà il giocatore a cui Fizdale si affiderà per cercare di cambiare ritmo all’attacco, aiutato anche dall’acquisizione di Chandler Parsons (altra firma che ha causato mugugni, 94/4) con il playmaking e il QI nel ruolo di ala che si adatta perfettamente alle qualità di Conley e Gasol, oltre a garantire versatilità anche da 4.

Ma la novità più significativa potrebbe arrivare dalla panchina, dove la retrocessione di Zach Randolph a sesto uomo - con l’automatica promozione di JaMychal Green - gli permetterà di scardinare le second-unit dal post-basso, un ruolo che sembra molto più adatto alle qualità odierne di Z-Bo, visto faticare un po’ troppo dietro ai ritmi delle ultime stagioni. L’unico problema in questo cambio di stile lo troviamo quando andiamo a vedere la scarsa lunghezza della rotazione degli esterni - giocare piccolo per larghi tratti vorrebbe dire affidarsi molto a giocatori che ancora devono dimostrare di meritare minutaggio come Jordan Adams, James Ennis, Andrew Harrison e - wait for it - DJ Stephens, oppure antitesi dello spacing come Tony Allen, quando nei ruoli più interni c’è maggior scelta e anche qualità.

PUT A CAMERA ON DJ!

Difensivamente invece gli accorgimenti che dovrà apportare Fiz saranno minimi, dato che il roster ha ancora un alto tasso di bruiser a cui comunque dovrà dare qualche giro di chiave inglese per non continuare il declino avuto nella scorsa stagione a causa dei continui innesti, con il rating difensivo schizzato a 107.8 dopo quella 2014-15 chiuso a 102.2.

La più grossa incognita rimane lo stato fisico della squadra: la storia clinica dei giocatori di riferimento non è assolutamente delle più rosee e questo potrebbe inserire un ulteriore “ma”, così come successo negli scorsi anni. Se gli infortuni daranno tregua a Memphis, senza il bisogno di andare a installare una porta girevole all’ingresso degli spogliatoio, rischiano di essere una gatta bruttissima da pelare, sia per la corsa ai playoff che nei playoff stessi. Una cosa è certa, qualcosa in Tennessee sta cambiando: Il Grit&Grind è moribondo, lunga vita al Grit&Grind.

7) HOUSTON ROCKETS

Ranking overall redazione UU: 11

Davide Bortoluzzi

La scorsa stagione i Rockets non hanno brillato per efficienza difensiva (108 punti concessi per 100 possessi, 21° nella lega) pur potendo schierare tre solidi interpreti di questo fondamentale come Howard, Ariza e Capela. E se con la partenza di Howard verso Atlanta e l’arrivo di Nene sotto le plance il bilancio poteva quasi dirsi in parità, le firme di Ryan Anderson ed Eric Gordon - due dei peggiori 40 difensori della lega per efficienza difensiva - hanno abbassato in maniera esponenziale le aspettative di vedere una Houston competitiva nella propria metà campo. Finita qui? Neanche per sogno: a chiudere il cerchio è arrivato un nuovo capo allenatore, Mike d’Antoni - notoriamente non un cultore della materia difensiva.

L’arrivo di coach d’Antoni porterà verosimilmente all’estremo i ritmi di un attacco che già nella sua versione precedente portava in dote un pace factor tra i più alti della lega (100,2 possessi a partita - sesta squadra NBA la scorsa stagione). Ma uno stile di gioco dai ritmi elevati e che predilige la transizione tende a concedere un maggior numero di canestri nella medesima situazione agli avversari, e a barattare situazioni di contropiede con una solida presenza a rimbalzo difensivo.

I Rockets li trovate là in basso a destra

Per compensare questa tendenza occorre innanzitutto una certa abnegazione da parte dei singoli (auguri con James Harden), oltre allo sfruttamento di alcune peculiarità e punti di forza - pochi sul piano difensivo, come detto - che il roster dei Rockets può offrire. In primis la versatilità di Clint Capela, che ha la mobilità e la stazza per poter essere un vero fattore nella difesa sul pick and roll, oltre a un mastino naturale sul perimetro come Patrick Beverley. E gli esempi virtuosi nella lega ci sono: oltre agli irraggiungibili Warriors, infatti, anche squadre come i Celtics e gli Wizards hanno saputo combinare ritmi elevati con un’ottima efficienza difensiva.

L’alternativa sembra quella di giocare per segnare un canestro in più ogni sera, anche in barba al vecchio adagio “gli attacchi vendono i biglietti, ma le difese vincono i campionati”. Verosimilmente ci saranno sere in cui i Rockets subisseranno di canestri i propri avversari e in definitiva lotteranno per un posto nella griglia dei playoff ad ovest, ma viene difficile immaginarseli oltre il primo turno.

6) PORTLAND TRAIL BLAZERS

Ranking overall redazione UU: 9.7

Andrianopoli

Arrivare al vertice talvolta non è la fase più difficile della crescita di una squadra: il difficile è confermarsi. I Blazers ne hanno tutte le intenzioni, e per dimostrarlo hanno investito in un’estate 226 milioni di dollari per le conferme di Harkless (40/4), Crabbe (76/4), Meyers Leonard (40/4) e l’ingaggio di Evan Turner (70/4). Mosse ardite, coraggiose, che dimostrano quanto questa dirigenza credesse nel gruppo e volesse a tutti i costi confermarlo in blocco.

A prima vista, i punti di forza di questo roster sono innegabili: è una squadra profondissima, giovane, atletica, solida (otto dei primi dieci giocatori del roster hanno giocato almeno 78 partite l’anno scorso, e il nono è Lillard che ne ha giocate 75); ha uno dei migliori backcourt della lega, con Lillard e McCollum che possono spezzare in due qualsiasi partita, un reparto lunghi profondissimo e versatile, una batteria di ali e “three and D” che nessun altro può vantare.

Approfondendo un pochino l’analisi, però, non è difficile trovare qualche crepa, e un primo problema si può trovare proprio in un rischio di sovrabbondanza: ci sono cinque lunghi che aspirano a un minutaggio consistente (Plumlee, Leonard, il neo-acquisto Ezeli, Ed Davis e Vonleh), e potrebbero trovarsi a lottare non per due ma per una sola posizione, perché in realtà la strutturazione migliore di Portland sembra essere quella con Aminu da stretch 4.

Un discorso simile si può fare sugli esterni: Lillard e McCollum monopolizzeranno il backcourt, ma la migliore ala per fare coppia con Aminu è Moe Harkless, che è pure quello che è stato pagato di meno. I minuti per Crabbe e Turner quindi potrebbero non essere moltissimi, e stiamo parlando di quasi 150 milioni investiti in estate che resterebbero in panchina a lungo e malvolentieri. A proposito di Turner: il suo acquisto sembra da solo sufficiente ad abbassare di mezzo punto il voto all’offseason di Portland, visto che garantirà un contributo quasi certamente inferiore rispetto a Gerald Henderson, sotto ogni aspetto, portandosi in dote un carattere non facile e il tutto a un costo annuo praticamente triplo.

Infine c’è un problema difensivo: Lillard e McCollum sono attaccabili da chiunque, alle loro spalle non c’è nessun serio rim protector. Il lungo difensivo migliore del roster, Ed Davis, sarà anche il più sacrificato dei cinque, perché quello con il minor pedigree: in attacco i Blazers sembrano difficili da contenere, ma i loro successi passeranno da quanto riusciranno a migliorarsi in difesa, sia individualmente (McCollum e Crabbe, in particolare, hanno i mezzi fisici per poter rendere molto, molto meglio) che di squadra.

Non è tutto oro quello che luccica, insomma, ma resta comunque una squadra troppo profonda, troppo versatile, troppo “carica” atleticamente ed emotivamente per non considerarla una delle migliori della lega: il quintetto ideale Lillard-McCollum-Harkless-Aminu-Ezeli/Plumlee può tenere botta contro qualsiasi squadra, può alzare il ritmo o giocare a metà campo, garantire spaziature, andare a rimbalzo forte, difendere cambiando su chiunque, e il tutto con spalle coperte da una panchina formata da Turner, Crabbe, Vonleh, Davis e Leonard che è probabilmente la più profonda della lega.

5) OKLAHOMA CITY THUNDER

Ranking overall redazione UU: 9.1

Casadei

Nel ridente stato dell’Oklahoma è andato in scena per otto anni un dualismo a piano sequenza degno di Birdman. Ma chi il buono e chi il cattivo? Basti sapere che in Oklahoma ora vogliono cambiare il nome di una città da Durant a Westbrook. Ciò che è successo in mezzo è un pasticcio brutto di dichiarazioni a mezzo stampa, video, interviste, in cui ognuno gioca la sua parte. Il ruolo di Westbrook è ridere istericamente esclamando “that’s cute” alle provocazioni dei giornalisti: il giudizio nazionalpopolare supporta questa non strategia.

BRUH(via The Ringer)

La verità è che nessuna squadra può trovare un palliativo alla perdita di un Hall of Famer nel prime della sua carriera. La cura non è affidare un masso di dimensioni epiche sulle spalle di un uomo solo, come suggerisce qualche cuore impavido. Non è - e non è mai stata - una ricetta per la vittoria. Sam Presti lo sa e si è mosso in questa direzione. La trade che ha portato Oladipo e Ilyasova lasciando andare Ibaka - completata già prima di #TheKDecision - mira ad aggiungere un ball handler secondario per sgravare qualche peso dall’Atlante con il numero 0, e a maggior ragione diventa ancora più importante ora.

Nello scacchiere del GM Enes Kanter e Steven Adams sono i due alfieri atti a sostituire Ibaka. Gli Stache Bros, oltre ad essere una bromance intercontinentale assai improbabile, sono due omaccioni che hanno fatto vedere ottime cose ai playoff: Kanter è obiettore di coscienza sotto il suo canestro ma aggredisce l’altro ferro con una resilienza pari a pochi - e grazie a lui i Thunder catturano una quantità spropositata di rimbalzi; il neozelandese invece è un two-way player dotato di un gancetto in corsa mortale che Westbrook può innescare quando vuole.

Oltre ad essere il miglior bloccante in circolazione, Adams ha accettato cambi su chiunque ai playoff risultando fattore determinante contro Spurs e Warriors

Alla lineup rimane sempre un grosso buco in ala piccola e il problema ora non è trovare un vice-Durant, ma reinventarsi senza Durant. Andre Roberson è un avvoltoio in difesa ma ai playoff gli è stato riservato il Trattamento Tony Allen e non pare che quel tiro possa migliorare più di tanto. Singler e Morrow sono a roster dalla notte dei tempi ma Donovan li ha quasi totalmente dimenticati in primavera. Sul fronte rookie occhio a Domantas Sabonis che non avrà i mezzi fisici per fare la differenza, ma è un giocatore mentalmente pronto che può contribuire da subito.

La stagione dei Thunder ha uno spettro di possibilità virtualmente infinito che va dal Westbrook MVP che espugna la Oracle allo psicodramma esistenziale. Stiamo in medias res. Diciamo 45-50 vittorie, playoff, e un’insana quantità di schiacciate cattive in faccia a chicchessia.

4) UTAH JAZZ

Ranking overall redazione UU: 6.1

Fabrizio Gilardi

Dentro: George Hill, arrivato dagli Indiana Pacers, e Dante Exum, al rientro dall'infortunio che gli ha fatto saltare tutta la scorsa stagione.

Fuori: Trey Burke (ceduto), Raul Neto, Shelvin Mack.

Per garantire ai Jazz un deciso salto in avanti dal 9° posto materializzatosi appena prima di lasciare il palcoscenico all’ultimo show di Kobe basterebbe già solo questo: passare nel ruolo chiave di point guard da tre giocatori che faticano a stare in una rotazione NBA a un veterano con esperienza di playoff e un giovane di enorme potenziale, ma già di grande impatto nella metà campo difensiva.

Il principale obiettivo sul campo sarà quello di trasformare un attacco lento (30° pace, 29° per frequenza di transizione) e prevedibile, basato sul post alto (1° per tocchi al gomito e passaggi consegnati) e sotto media per efficienza nelle situazioni di pick and roll (vedi l’assenza di playmaker di ruolo competenti) in un sistema più moderno, aperto e che garantisca spazi più ampi, con la possibilità di schierare contemporaneamente 3 giocatori che uniscono capacità da trattatori di palla (Exum, Hill, Burks, Hayward, Hood, Joe Johnson) e da tiratori. Il meno abile sulla carta è Exum, che comunque ha avuto un anno di tempo per lavorare sul fondamentale e che già si avvicinava ad un dignitoso 40% piedi per terra.

Per evitare ulteriori brutte sorprese alla voce infortuni - che hanno tenuto i Jazz fuori dai playoff nella scorsa stagione e che comunque già hanno colpito la mano sinistra di Gordon Hayward (fuori per 20 partite) - è stata costruita una squadra estremamente profonda e versatile, in grado di passare facilmente da un assetto da smallball (3 esterni puri, Lyles, Favors/Gobert) a uno da bullyball (Exum, Hayward, Hood, Favors, Gobert, rispettivamente 198, 203, 203, 208 e 216 centimetri) e adattarsi ad ogni tipo di avversario.

Nessuno si nasconde: a Salt Lake City si punta a vincere la Northwest Division e quindi presumibilmente a guadagnare il fattore campo al primo turno di playoff. Se Quin Snyder saprà sfruttare le varie possibilità tattiche a proprio vantaggio, magari rinunciando a qualche minuto di coesistenza della coppia di lunghi titolare, e sarà in grado di tenere tutti uniti, positivi (auguri con Burks, che al rientro di Hayward potrebbe trovarsi incollato alla panchina) e in forma (non quella tondeggiante sfoggiata dall’altro nuovo arrivo Boris Diaw, sigh) il traguardo è alla portata. Da tenere d’occhio: la crescita di Exum e Lyles e la definitiva maturazione di Favors, che potrebbe essere la vera chiave della stagione.

3) L.A. CLIPPERS

Ranking overall redazione UU: 3.7

Daniele V Morrone

Qualcuno dovrà pur affrontare gli Warriors nella finale di Conference prima della rivincita contro LeBron. Ed è veramente stuzzicante pensare che quella squadra possano finalmente essere i Clippers. Soprattutto per loro. Soprattutto perché è evidente come questo possa essere l’ultimo anno a disposizione per questo gruppo.

Con le concorrenti dirette al ruolo di sfidante che si sono indebolite, per i Clippers è veramente arrivato il momento dell’“adesso o mai più”. Soprattutto perché Rivers non deve toccare nulla dal punto di vista tattico per rimanere tra le migliori, dato che il core di questo gruppo (Paul, Redick, Griffin e Jordan), se sano, è una sicurezza per viaggiare al ritmo delle migliori della classe sempre e comunque. Anche con il pilota automatico, anche bendata, questa squadra potrebbe eseguire i propri giochi in modo fluido con la certezza di essere in grado di mettere in difficoltà qualsiasi difesa. Il pick and roll tra Paul e Griffin, con Redick sul lato debole e Jordan pronto a ricevere sotto canestro è un assetto élite in grado da solo di garantire uno dei primi tre attacchi della Lega.

E se tutta la prima parte di questa preview poteva valere anche per la versione dei Clippers dello scorso anno, purtroppo anche la parte dove Rivers dovrà mettere le mani è rimasta invariata: serve assolutamente un’ala piccola titolare affidabile e al momento il roster ne è privo. Addirittura non è chiaro ancora neanche chi partirà in quintetto, visto che il giocatore in vantaggio (Mbah a Moute) è un buco nero in attacco tale da poter essere lasciato completamente libero se con palla, cosa che rende molto problematico le spaziature, ma almeno sembra un giocatore NBA rispetto a chi sta dietro in griglia come l’attuale Paul Pierce (lo so, fa male scrivere questo di Pierce), Alan Anderson o l’insipido Wes Johnson.

E se il quinto titolare rimane un problema, non è molto meglio la situazione della panchina, formata solo da giocatori che Doc the GM ha pescato tra gli scarti della lega (come Felton o Speights) o giocatori di cui si fida ma che non danno reali garanzie di rendimento ad alti livelli (come Bass o l’attuale Crawford). E visto che la possibilità di movimenti sul mercato è minima a meno di andare a toccare uno dei quattro del core, c’è da fare le nozze con i fichi secchi. Come il tanto bistrattato Austin Rivers, che risulta l’unica riserva affidabile e rischia di avere compiti dalla panchina ben più grandi di quanto il suo talento permetterebbe: come l’idea di averlo in campo più tempo possibile sulla PG avversaria così da non stremare Chris Paul già a marzo.

Con pregi e difetti ben noti e poco arginabili, comunque a meno di infortuni eccellenti i Clippers navigheranno a vele spiegate tra l’élite della Lega contendendo il secondo posto ad ovest e puntando tutte le proprie fiche sull’approdo alle finali di conference. Da questo risultato quasi sicuramente dipenderà tutto il futuro dell’intero gruppo.

2) SAN ANTONIO SPURS

Ranking overall redazione UU: 3.3

Dario Ronzulli

Era dall'estate del 1996 che i San Antonio Spurs non iniziavano la propria stagione senza Tim Duncan. Basta questo per segnare già da ora l’annata dei texani, che si consoleranno con il probabile ultimo giro di giostra del mammasantissima Manu Ginobili (quest'anno accompagnato di nuovo da altri argentini, Garino e Laprovittola). Oltre a Timmy sono andati via David West, Matt Bonner, Boban Marjanovic e Boris Diaw con la sua macchina del caffè.

Still undefeated at home and an espresso, What else ? #nespresso #coffeetime #borista

Una foto pubblicata da Borisdiaw (@diawboris) in data: 8 Gen 2016 alle ore 21:02 PST

Come fai a sostituire uno così?

Praticamente del reparto lunghi della scorsa stagione è rimasto solo LaMarcus Aldridge - peraltro al centro di voci che, se dovessero verificarsi, cambierebbero il materiale su cui lavorare - e, volendo, Kyle Anderson che presumibilmente avrà più minutaggio da 4 tattico che da 3. Una rivoluzione totale, sia per la quantità che per le caratteristiche dei giocatori. La coppia Pau Gasol-Aldridge avrà bisogno di tempo per trovare un punto d'incontro tra due giocatori piuttosto sovrapponibili da un punto di vista offensivo. Allo stesso modo, difensivamente ci sono meccanismi da rivedere perché nessuno dei due possiede la capacità di lettura di Duncan o Diaw. Ma la mole di lavoro maggiore che attende Popovich è far emergere le qualità della panchina: la rotazione prevede Anderson, David Lee, Dewayne Dedmon e Joel Anthony. Senza offesa, ma gli Spurs hanno avuto di meglio nella loro storia.

Tutto questo però non cambia il piano di battaglia stagionale: a San Antonio si gioca per vincere, sempre e comunque. Sarà ancora di più, sempre di più la squadra di quello straordinario uomo-ovunque che risponde al nome di Kawhi Leonard. Sarà la solita squadra organizzata, sarà la solita squadra da 50+ vittorie, sarà la solita squadra che nessuno vorrà affrontare ai playoff. Saranno insomma i San Antonio Spurs: siete davvero sicuri di scommetterci contro ad occhi chiusi?

1) GOLDEN STATE WARRIORS

Ranking overall redazione UU: 1

Vismara

Faccio ancora un po’ fatica a capire come la squadra di cui più abbiamo parlato negli ultimi due anni sia riuscita a diventare ancora più rilevante rispetto al recentissimo passato. Cioè davvero: nell’ultimo biennio l’ascesa dei Golden State Warriors ha finito per fagocitare un buon 50% delle attenzioni legate alla NBA, richiamando l’interesse di persone che della nostra amata palla a spicchi si interessano solo occasionalmente e costringendo ESPN.com a creare una sezioncina chiamata “Nothin’ but Steph”. Eppure nella stagione che sta per cominciare sono diventati esponenzialmente più rilevanti. È quello che succede quando collezioni 73 vittorie ma non vinci il titolo sprecando un vantaggio di 3-1. Lo è ancora di più quando riesci a prendere uno come KEVIN DURANT.

L’arrivo di KD cambia però un po’ la narrativa attorno agli Warriors: se durante l’era Mark Jackson erano “la squadra più hipster della NBA” e gradualmente sono diventati “la squadra più divertente della NBA” con Steve Kerr, nella passata stagione si sono trasformati ne “la squadra più vincente della NBA”. Solo che si sono spinti — o li abbiamo spinti “noi”? — oltre le Colonne d’Ercole dell’Hipsterismo: hanno iniziato a vincere fin troppo per risultare ancora simpatici e il continuo bombardamento delle loro immagini ha finito per far rivoltare, poco a poco, la gente contro di loro. Tanto che alla fine della scorsa stagione c’era tanta gente a godere del titolo di LeBron James tanta quanta a esultare per la caduta degli dèi.

L’arrivo di Durant si inserisce in questo solco di “repulsione istantanea”: a tutti piace seguire il percorso di persone che dal nulla diventano miliardarie, ma quando diventano ancora più ricchi, potenti e arroganti, iniziamo ad odiarli. Osservare come risponderanno gli Warriors al “turn heel” che, volenti o dolenti, dovranno affrontare è una delle sotto-trame più interessanti di una squadra che appare destinata a fare la storia della NBA, perché quattro giocatori tra i primi 15 dei quintetti All-NBA della stagione precedente non li aveva mai avuti nessuno.

Are you serious?

Le prime immagini di Curry, Thompson, Durant e Green tutti assieme fanno semplicemente spavento, e nel corso della stagione ci saranno momenti in cui agli avversari in panchina non resterà che lanciare gli asciugamani in campo per dichiarare la resa come in un incontro di boxe. Lo abbiamo già visto negli anni passati, è destinato a peggiorare ancora. Perché non è solo l’incredibile ammontare di talento offensivo, ma anche se non soprattutto quello difensivo, dato che il Durant ammirato negli scorsi playoff è vicino ad essere il miglior difensore della NBA, visto che quasi da solo aveva obbligato i suoi attuali compagni di squadra a tirare fuori il meglio del meglio per riuscire a batterlo. Per togliere ulteriori speranze agli avversari, anche la panchina sembra essere più solida rispetto a quella dello scorso anno (che, a voler ben vedere, non funzionava poi granché bene) perché a guidarla ci saranno sempre due dei quattro sopracitati.

Cosa può riuscire a farli deragliare allora? Pat Riley la definiva “The Disease of More”: più successo una squadra ha, più i suoi componenti cercheranno ulteriori stimoli individuali, che siano soldi, riconoscimenti o statistiche. È già successo con Draymond Green — il cui caratterino è stato descritto nel dettaglio da Ethan Sherwood Strauss nel miglior pezzo uscito in questa pre-season —, potrebbe succedere anche con altri. Ed è quello che sperano le altre 29 franchigie, perché in questo momento pensare che non vincano loro questo titolo NBA è puro esercizio di stile.

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