Pizzaiolo? «Prego, cameriere», rispose ai giornalisti spagnoli. A Mino Raiola tocca credere; non perché non farlo esponga al rischio di una risposta sgraziata, ma perché sulla verità, la sua, strillata, pure sguaiata ma totalmente anti-retorica, ha costruito il suo potere mediatico che è parente di quello professionale, un po’ impero un po’ protagonismo. Di Raiola tocca parlare, facendo saltare comodi schemi lombrosiani e risatine snob miste a fastidio per quegli atteggiamenti sopra le righe, che però spesso sono identici a quelli di colleghi meglio vestiti e meno esposti, senza pancia e con un italiano migliore.
Calciatore, d.s, mediatore
Mino Raiola ha cominciato presto e non si è accontentato nemmeno quando è diventato grande, nemmeno ora che è una sorta di sultano delle trattative, quello dei colpi più grossi e a più zeri. Della sua parentesi nel calcio giocato (lasciato a diciotto anni) le biografie sparse fanno solo un accenno (non so, me lo immagino mediano sgraziato però un po’ efficace). Il resto è una scalata: prima responsabile delle giovanili dell’Haarlem, la squadra più vecchia d’Olanda, poi direttore sportivo della prima squadra, dopo aver convinto il presidente, che ogni venerdì andava a cena al ristorante della famiglia con la terza moglie e Mino gli diceva: «Di calcio non capisci niente». Fino al «provaci tu», che gli aprì la strada.
Infine mediatore, una di quelle figure che solo il pallone prevede, immagine mitologica a metà tra il procuratore e il direttore sportivo, che tratta conto terzi anche nelle trattative in cui non c’è bisogno di terzi. Curava i trasferimenti degli olandesi altrove, fino a diventare il rappresentante di tutti i calciatori orange grazie a un accordo con il sindacato. Chi c’era prima, fu sorpassato. Anzi, travolto.
Prima di Raiola, il mercato internazionale degli olandesi lo curavano Coster Cor e Apollonius Konijnenburg, che con Piet Keizer (il primo calciatore olandese della storia ad aver ottenuto un contratto da professionista, con l’Ajax) avevano la Interpro, la società che aveva venduto van Basten alla Fiorentina – secondo i retroscena più gustosi – nel 1986 (ma i viola fecero scadere l’opzione per dissidi interni e si chiuse con il Milan un anno dopo). E Coster Cor non era un qualunque faccendiere, ma un ricchissimo ex commerciante di diamanti e suocero di Cruijff, essendo padre della fotomodella Danny. Raiola comincia a mettersi di traverso, intuisce la possibilità di fare affari: l’Ajax, allora, prendeva giocatori dalle giovanili delle altre società a un parametro basso e poi li vendeva all’estero, Mino prima propone a Ferlaino di far comprare l’Haarlem dal Napoli, per fare la stessa operazione, poi ha visto tramontare tutto e ha cominciato a muoversi da solo, fino all’accordo con il sindacato.
Questo albergo di merda
Ora vedi Mino da Nocera Inferiore – che poi sarebbe da Haarlem, visto che non aveva ancora un anno quando la famiglia si trasferì nei Paesi Bassi e aprì una pizzeria – e immagini un carrarmato. Infatti travolge, quando parte: vuole arrivare in un punto e ci arriva. Non è prevista la diplomazia tra le doti di chi conduce le trattative a petto (vabbè, petto) in fuori. Come a gennaio scorso, all’Atahotel di Milano in diretta tv. Alterato, al microfono va non per rispondere ma per sfogarsi. A Sky, fa sfoggio di avverbi («Uno come fa a lavorare internazionalmente?»), ma solo dopo la premessa: «Non si può fare calciomercato in questo albergo di merda». Non funziona Internet, non funzionano gli ascensori e lui lo dice in diretta, perché Kasami al Pescara non può andare e dunque meglio che si cambino le regole, che si allunghi la durata, che si semplifichino le procedure. Lui, mentre gira le spalle alla telecamera, sente di poterlo dire. Altrove funziona meglio. Internazionalmente è così.
E ormai persa la pazienza, pensando di denunciare, si scatena nell’intervista. Internet e ascensore a parte, gli chiedono se Balotelli ha un obiettivo di gol per la stagione e parte la supercazzola: «Non retrocedere. Che cacchio di domande fai tu». «Chiedevo un obiettivo.» «Se hai una domanda normale magari avrai una risposta normale, se non hai una domanda normale da fare levati dai coglioni.» Amen.
Raiola e "l'Internet".
In fondo è niente, se parliamo di chi, quando Ibra era al Barcellona e poteva finire sul mercato, disse di Guardiola: «Se vuole mandare via Ibra un anno dopo averlo pagato 75 milioni, si deve ricoverare in un ospedale psichiatrico». E che fece poi sapere che lo svedese non vinceva il Pallone d’oro perché «si tratta di un premio politico e corrotto», fino ad alzare il mirino e dire che «la FIFA e l’UEFA sono esattamente la stessa cosa, tutto tranne che sistemi trasparenti. Si potrebbe descriverle come organizzazioni mafiose che vogliono nascondere cose», disse che Platini («un incompetente») fa cose solo a suo vantaggio e Blatter è «un dittatore demente» e poi, quando la FIFA – dopo queste frasi - aprì una procedura interna per vedere se ci fossero i presupposti per il ritiro della licenza (finì con una multa di 4 mila euro), replicò: «Mi sembra una situazione irreale, in contraddizione con la mia libertà di espressione».
Gli assi nel portafoglio
Burletta o genio? Intanto gli assi vanno da lui (tranne quelli che giurano fedeltà al procuratore diventato amico, come Verratti, che ha resistito alle lusinghe per restare con Donato Di Campli) sapendo esattamente cosa vogliono: non la gloria di chi diventa bandiera, né il consenso delle piazze che lasciano all’improvviso. Vogliono sfruttare il talento per guadagnare, senza preoccuparsi di essere simpatici. Forse con il tempo diremo che certi campioni si sono spesi male, mentre loro si godranno una vecchiaia dorata e rideranno degli insulti incassati a vario titolo. Ràiola (accento sulla prima a) non pare certo sempre etico, ma gli si potrebbe imputare questo come capo d’accusa se fosse etico il mondo in cui si muove: è invece un prodotto amplificato del calcio degli intermediari furbi, dei compromessi e delle astuzie. Gli viene contestato l’uso di mezzi che esistono anche al di fuori della visibilità mediatica dedicata ai più grandi, cosa comprensibile a chi qualche anno nel sottobosco del pallone lo ha vissuto da vicino e dunque non si scandalizza se Balotelli viene alle mani con Mancini ed è un pretesto per andare via dal City. Perché il calcio è pieno di «sì, è vero. Stiamo prendendo quel giocatore ma non dovevi scriverlo: prima deve litigare con la società, così lo paghiamo meno o non lo paghiamo proprio». Giocatori mediocri istruiti da mini-faccendieri, fate l’equazione se si tratta di campioni.
Dal McDonald’s alla camicia hawaiana
Raiola diventa agente FIFA non subito, ma quando lo diventa abbandona ogni altra attività imprenditoriale e anche quelle che ha condotto scalando tutto in fretta: in Olanda tra le altre cose (si dice fosse utile a risolvere in tempi brevi tutti i problemi dei fornitori dell’azienda di famiglia) ha persino acquistato e rivenduto un McDonald’s, entrando nel Consiglio degli imprenditori di Haarlem. Il suo essere travolgente diventa talento, metodo per condurre trattative feroci e quasi sempre vincenti. Lo amano i calciatori, non le società, i giornalisti ne ricavano titoli, soprattutto quando arrivano i “mal di pancia” ormai celebri all’assistito che vuol cambiare squadra. Gli unici malanni che si risolvono con un’altra maglia, un nuovo ingaggio, un ritocco verso l’alto e senza medicinali. Il mito della “volontà del giocatore” si manifesta quando Raiola ha già deciso il suo futuro, facendo i calcoli. E trattando senza preoccuparsi della forma. Trattando, cioè, a patto che si accetti l’invadenza, che di recente lo ha spinto fino allo spogliatoio del Milan; dicono per sincerarsi dell’infortunio di Balotelli, malignano per strigliare Allegri. Oppure che si sia pronti a vederlo arrivare a una trattativa in camicia hawaiana e infradito, come quando incontrò Moggi a Montecarlo (dove peraltro Mino ha casa) per il passaggio di Ibra alla Juve. O che strilli per difendere un suo giocatore (sempre su Balotelli: «Il Milan non ha messo nessun tutor a Mario, non si permetterebbe mai e anche io mi opporrei fermamente. Ogni cosa che fa viene trasformata in una storia. Se viene ancora detta questa cosa del tutor, io passo alla denuncia»). O anche che si accetti la sua presenza in sala stampa come fosse un dirigente, ad esempio quando strigliò Chiellini davanti ai microfoni, nel giorno del “gol di Muntari”.
Dopo Milan-Juve 1-1, la partita del “gol di Muntari”.
Roy, tanto per iniziare
Raiola, in Italia, arriva portando Bryan Roy al Foggia. E diventa famoso per Bergkamp e Jonk all’Inter, soprattutto perché il Napoli offriva (all’Ajax) 28 miliardi di lire solo per il primo e i nerazzurri ne pagarono 25 per entrambi, secondo un ragionamento di economia quasi domestica: spendi meno con la società, alzi l’ingaggio ai miei giocatori che è quello che mi interessa. Come fece col Genoa, portando Vink: Spinelli offriva 10 miliardi di lire, Raiola lo cedette a 2 a patto che il suo assistito avesse un contratto più alto rispetto a tutti i suoi compagni. «Belin, va benissimo», disse ovviamente il presidente del Genoa secondo i racconti di Mino. Ed è affare suo il passaggio di Nedvěd alla Lazio e alla Juve, ma poi arriva Ibrahimović e fama e conto in banca decollano, magari non va alla stessa velocità l’eleganza ma pare non sia ciò che conta. E c’entra un italiano anche nel suo ingresso nel mondo del calcio. Dario Canovi, antico procuratore, confessò: «Ho tante colpe nella mia carriera e una di queste è di aver introdotto Raiola nel mondo del calcio. Lui aveva un ristorante vicino alla sede dell’Associazione Nazionale Calcio Olandese e c’era lì un avvocato, il figlio del presidente della società, e i dirigenti andavano a mangiare lì. È per questo che lui è arrivato nel mondo del calcio. Quando fondammo la società di agenti internazionali, arrivò anche lui e così cominciò la sua storia».
Lui, Ibra
Raiola è Ibra, soprattutto. Ma anche viceversa. Si amano e un po’ si somigliano: o meglio, quando lo svedese cambia squadra, giura di non aver mai sognato nient’altro che quella maglia (la nuova), fa le bizze per andare e vede crescere lo stipendio fino a 12 milioni di euro l’anno. È esattamente il prodotto di Raiola, che però quando lo incontra la prima volta comincia parlando del contrario. Delle motivazioni reali, non del denaro. Davvero.
«Tu ti credi tanto figo, eh? Credi di potermi impressionare con il tuo orologio e la tua Porsche, ma non è così. Io trovo che siano tutte cazzate. Vuoi diventare il migliore del mondo, oppure quello che guadagna di più?»
«Sì, il migliore del mondo.»
«Allora bene, perché se diventi il migliore del mondo poi arriverà tutto il resto, ma se insegui solo il denaro allora non otterrai mai niente, capisci? Dovrai vendere tutte le tue macchine, tutti i tuoi orologi e cominciare ad allenarti tre volte più duramente, perché adesso la tua statistica fa schifo.»
L’autobiografia di Ibra è un po’ la biografia di Raiola, il «meraviglioso ciccione idiota» che gli mostrò il numero di gol di Vieri, Inzaghi e Trezeguet per dirgli la strada da seguire. Ma che arrivò «in jeans e t-shirt Nike e con quella pancia enorme, sembrava uno dei Soprano. Chi diavolo è questo qui?», si domandò Ibra: «Dovrebbe essere un agente quella specie di gnomo ciccione? E quando ordinammo cosa credete, che arrivò un piattino di sushi con avocado e gamberetti? No, arrivò una valanga di roba, cibo per cinque, e lui divorò tutto come un dannato».
Da Monet a Tom Cruise
Mino Raiola non ha una laurea, ma qualche esame in Giurisprudenza e un diploma di maturità classica. Conosce, dicono, sette lingue: italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, portoghese e olandese. E su questo gioca. Come una volta, all’ennesima domanda sui comportamenti di Balotelli: «Non parlo più di Balotelli, se ne parla troppo in questo momento, preferisco non dire nulla. Se con la maglia della Nazionale lo vedo più sereno? Dicono che non so parlare in italiano, perciò lo ribadisco in inglese: I don’t talk about Balotelli, ok?». Oh, yeah, Mino. In fondo sei uno che può. E «non parlo di Balotelli» in qualsiasi lingua diventa notizia pur non essendola, svelando la forza reale dell’agente dei campioni.
Epperò ama citare. Sin dal nome della sua società (ne ha due: l’altra è la Sportman con sede a Montecarlo e uffici di rappresentanza in Brasile, Paesi Bassi e Repubblica Ceca), la Maguire Tax & Legal ad Amsterdam. Da Jerry Maguire, il procuratore sportivo del film di Tom Cruise. E quel procuratore pensa che sia meglio ridurre i clienti e porre più attenzione a ciascuno di loro, che è un po’ quello che fa Raiola, anche se del suo gruppo di assistiti parlo dopo. Però tra i suoi “salvadanai” c’è ad esempio Paul Pogba, altro fenomeno oggetto di citazione. Che fa? Va via dalla Juve? Si scatenerà l’asta? Titoli in fila, poi il colpo di classe: «Io non sono preoccupato del valore di Pogba, ormai so che è come un Monet, il valore c’è. Ma dove lo mettiamo, dove gioca, non è importante. Il valore è quello. Potrebbe andare all’asta? Io non credo che i grandi quadri vadano all’asta, i grandi quadri sono già dei grandi collezionisti. Poi se li vogliono vendere li vendono, se non li vogliono vendere non li vendono». Un anno prima, per restare in tema, aveva detto che «Balotelli è come la Gioconda, non ha prezzo. Nessuna squadra italiana se lo può permettere». Per poi farlo andare al Milan dopo quaranta giorni.
Il suo Louvre
Di metafora (sua) in metafora (mia), la sua collezione di campioni è una sorta di Louvre del pallone, e pur tenendosi in qualche caso bassi (ad esempio Pogba secondo lui potrebbe valere quanto Bale, tra l’altro) il conto sulle cifre di Transfermarkt dice che muove un patrimonio di valore superiore ai 200 milioni di euro. Da fermi, perché poi quando iniziano le trattative Raiola entra in campo e trova il modo per far lievitare prezzi e ingaggi, che è una lotta portata avanti tutta la stagione visto che non ha quasi mai reso pubblico, per strategia, il piacere di un suo giocatore a restare in una squadra, lanciando sempre messaggi sibillini che tengono quel giocatore sul mercato sempre (fino a quando non arriva l’offertona) oppure costringono le società a coccolarlo (facendolo giocare di più, così aumenta il valore, o ritoccando l’ingaggio). Eccolo, il potere mediatico che diventa potere tout court, perché su una frase non chiarissima i giornali costruiscono pagine per giorni («L’ha detto Raiola»). Lui ride, camicia hawaiana o no, avverbi o meno, e incassa i proventi di un impero.
Quella volta a cena...
Pausa. Non parlare di Raiola, ma parlare di chi parla di Raiola. La descrizione è Evelina Christillin, che vede un tizio che non riconosce, mentre lei è a cena con Galliani: «Pancia prominente, abbigliamento improbabile con maglia a strisce tendenti al melange, sorrisone da venditore ambulante, parlata con chiaro accento del sud, venato da inflessioni americane. Insomma, un simpaticissimo incrocio tra Peter Clemenza [vi ricordate, il capo regime del Padrino?], Mario Merola e il senatore De Gregorio». E poi lui che saluta, dopo aver parlato con Galliani ed essersi presentato alla Christillin: «Vabbè guys, ora parto e vi ringrazio della chiacchierata, scusatemi ancora per come vado in giro conciato, ma a me piace così».
La proposta indecente
Uno che vuol cambiare le regole del calciomercato perché non funziona Internet può fermare le sue proposte? O può fregarsene delle reazioni? Siccome la risposta è scontata, passiamo alla provocazione (nemmeno tanto, era convinto, mentre lo diceva): una fusione tra Milan e Inter (e Roma e Lazio) per unire le società e per essere più forti e al diavolo il campanile: «Per me due grandi società come Inter e Milan dovrebbero unirsi per abbattere i costi, perché ci sono centinaia di milioni di spese e invece di vendere le società all’estero potrebbero fare una sola squadra per la città. In questa maniera potrebbero competere con le grandi d’Europa. Meglio avere una società sana che due squadre a metà, anche Lazio e Roma dovrebbero farlo. L’Italia deve cambiare maniera di pensare, deve diventare più pragmatica e deve adeguarsi anche economicamente alle realtà degli altri club europei». Il che è perfettamente in linea con chi vede la competizione e basta, magari non con chi lega poco con l’abbattimento dei costi (in realtà, i costi alti delle società sono sua fonte di guadagno), ma forse più di ogni altro ragionamento dà l’idea di chi sia Mino Raiola.
Il meraviglioso ciccione idiota che quando sembra provocare sta facendo sul serio, che mentre gli altri ridono concretizza. Quell’«incrocio tra Peter Clemenza, Mario Merola e il senatore De Gregorio» che finché si discuteva se fosse stato un pizzaiolo o un cameriere allestiva una scuderia di campioni. Un prodotto del calcio che premia l’astuzia (e anche un po’ l’arroganza) sebbene mascherata da una camicia hawaiana e le infradito. Dovremmo chiederci perché tutti da lui, perché tutto questo potere. Ma forse “tutti da lui” e “tutto questo potere” sono le risposte. In qualunque delle sette lingue di Mino sia stata posta la domanda.