Atlanta Hawks (1) vs Washington Wizards (5)
PROFUMO DI UPSET
di Daniele V. Morrone (@DanVMor)
Questa, rispetto alle “sorelle”, è una serie lontano dai riflettori. Certo, quando si arriva al secondo turno essere distanti dai riflettori è sempre una cosa relativa perché parliamo di quattro serie in totale, ma rimane l’idea che quella tra Atlanta e Washington manchi di una narrativa forte che possa trascinare l’attenzione del grande pubblico. Questo almeno alla vigilia, perché dopo la gara-1 di ieri vinta da Washington ad Atlanta sembra proprio che la narrativa si stia formando in corsa al grido di “occhio che qui ci scappa l’upset degli Wizards”.
Ovviamente dopo una gara-1 la serie è ancora molto giovane, ma Washington—oltre ad arrivare con il morale altissimo dopo il 4-0 contro Toronto—ha anche resistito alla sfuriata con cui Atlanta ha aperto la prima partita. Gli Wizards sono rimasti in piedi dopo un primo quarto di Atlanta nel segno di 37 punti contro i 26 della squadra della Capitale Federale, rimanendo costanti mentre Atlanta scendeva di rendimento fino al sorpasso nella seconda parte. Arrivare con sei giorni di riposo rispetto al singolo di Atlanta è stato un vantaggio, ma l’aspetto fisico ha pesato meno di quanto sembri: gli Hawks hanno mostrato una fragilità mentale già riscontrata nella serie precedente contro i Brooklyn Nets, nonostante la grande gara-6 che ha chiuso la serie con un 111-87 inappellabile. I Nets hanno forzato gli Hawks a scendere a patti con un basket dalle percentuali più basse, creando uno shock per una squadra che ha chiuso la stagione regolare col pilota automatico, dopo essersi assicurata il primo posto ad Est e già pregustava lo sweep contro una Brooklyn con tanti difetti strutturali.
I Nets invece hanno costretto Atlanta ad una manovra meno fluida, costringendo anche tiri forzati per sbloccare le azioni, cosa non in linea con la filosofia dell’extra pass degli Hawks. Anche un cecchino come Korver è passato dal 49% da tre in stagione al 39% nella serie. Atlanta è sembrata quindi più che altro fragile mentalmente, si è lasciata trascinare giù al loro livello dai Nets, e in un ambiente “da battaglia” è uscito alla grande il titolare meno reclamizzato, l’unico non convocato per l’All-Star Game: DeMarre Carroll. Famoso per la ferocia con cui difende le stelle delle squadre avversarie, è uscito fuori come miglior marcatore per Atlanta con 17.5 a partita e tirando anche 14/30 da tre. (Questo nonostante una gara-2 da soli 2 punti e 0/5 da tre!).
Gli highlights di gara-1.
Al contrario di Atlanta, gli Wizards sono arrivati alla serie con il morale alle stelle. Randy Wittman ha stupito tutti contro Toronto tirando fuori dal cilindro la soluzione dei quattro esterni (Wall, Beal, Porter e Pierce) con solo uno tra Gortat e Nené come centro, dopo una stagione intera giocata con i due lunghi in campo insieme. Nelle prime tre partite gli Wizards hanno svoltato la gara proprio grazie al nuovo assetto che vede in campo sia un leader mentale e tecnico come Pierce, che un inaspettatamente continuo (soprattutto in difesa) Otto Porter, passato dai 19 minuti a partita in stagione ai 32 nei PO. Per dare un’idea della differenza che il nuovo quintetto porta agli Wizards: nella serie il Net Rating è passato da +4.6 con i due lunghi al +35.4 con un lungo solo. Gli Wizards hanno a disposizione sia il giocatore più forte tra le due squadre (John Wall, tornato ad altissimi livelli dopo una seconda parte di stagione stagnante) che il maschio alfa tra le due squadre (ovviamente Pierce) capaci entrambi di guidare la partita, uno sotto l’aspetto tecnico e l’altro sotto quello mentale.
Atlanta potrà anche controllare il ritmo, ma sembra incapace di controllare mentalmente gli Wizards: quando non entrano i canestri (come nel secondo tempo di gara-1, chiuso col 25% dal campo), questa volta non si trovano di fronte i disastrati Nets, ma una squadra piena di opzioni offensive che segna con continuità. Qui c’è tutto per un upset.
Cleveland Cavaliers (2) vs Chicago Bulls (3)
C'ERAVAMO TANTO ODIATI
di Dario Vismara (@Canigggia)
Prima dell’ultima notte di regular season, i Bulls avevano la possibilità di fare una cosa un po’ “sporca”, ma perfettamente comprensibile: perdere la partita conclusiva contro Atlanta, lasciare che i Raptors li sopravanzassero al terzo posto in classifica della Eastern Conference, andare ai playoff con la prospettiva di un primo turno di playoff contro Washington e un’eventuale serie contro gli stessi Hawks in quello dopo. In sostanza, evitare di incrociare LeBron James fino alle finali di conference, vale a dire lo scenario più gettonato in sede di preview della stagione.
Il problema è che i Bulls non solo hanno vinto quella partita, ma hanno anche reso abbondantemente chiaro di voler affrontare di nuovo LeBron James, contro il quale si sono andati a schiantare ogni volta che lo hanno affrontato (2010, 2011 e 2013). D’altronde incontrarlo ogni anno era il loro destino, prima che D-Rose si rompesse il legamento del ginocchio e—sì insomma, il resto della storia lo conoscete già.
I Bulls—in particolare Joakim Noah, che non perde mai occasionedi battibeccareconLeBron e, già che c’è, con la città di Cleveland—sono convinti di poter entrare nella mente del Re, insinuare il dubbio dentro di lui sia con le provocazioni (fisiche & verbali) che con il loro sistema difensivo e farlo andare fuori giri, seguendo la via tracciata anni fa dai Celtics di Pierce, Garnett e Allen. Insomma, non vedono l’ora di sottoporre LeBron al trattamento Inception, anche se di dubbi dovrebbero averne anche su loro stessi per aver concesso ben due vittorie a dei Milwaukee Bucks commoventi per impegno, ma imbarazzanti in attacco (90 punti su 100 possessi), come visto bene nel massacro di gara-6 (-54).
LeBron e i Bulls: la tripla doppia dello scorso aprile.
I Cleveland Cavaliers, dal canto loro, sono usciti senza sconfitte dalla serie con Boston (affrontata con le marce basse, specialmente in difesa) ma con le ossa rotte per l’infortunio di Kevin Love—out for the season—Olynyk—e la squalifica di J.R. Smith—fuori per le prime due partite della serie per un pugno/manata/sbracciata. Perdere due giocatori del genere in una rotazione a 8 giocatori è un bruttissimo colpo, perché costringe a inserire in quintetto un lungo che ha enorme impatto dalla panchina, ma non altrettanto da starter (Tristan Thompson), e un veterano monodimensionale sul perimetro (James Jones o Mike Miller per il tiro, Shawn Marion per la difesa) del quale non puoi veramente fidarti. L’utilizzo massiccio di LeBron James da 4 può dare benefici nel breve periodo (e difatti la panchina giocava già così), ma sul lungo stanca moltissimo il Re, che apprezza il giusto dover battagliare in post contro i Pau Gasol e i Taj Gibson di questo mondo—tanto è vero che a Miami ha realmente svoltato quando Shane Battier si occupava di coprirgli le spalle in difesa. Inoltre, quando James vede davanti a sé un lungo, ha la tendenza a strafare e andare in isolamento (ne ha giocati 48 contro Boston, ben 11 più del secondo di questi playoff), smettendo di coinvolgere i compagni: uno scenario che i Bulls cercheranno di consigliare il più possibile.
L’assenza di Love apre anche un altro interessante punto interrogativo: nelle partite di regular season i Bulls sono stati spazzati via a rimbalzo offensivo (31.6 OREB% dei Cavs, +5% rispetto alla media stagionale), ma senza il lungo californiano a portare via un avversario dall’area, i vari Thompson e Mozgov avranno lo stesso spazio per andare a caccia di seconde opportunità? E dal lato Bulls, si vedrà di nuovo l’ottima circolazione di palla vista contro i Bucks (71.7% di canestri assistiti)? I vari Butler e Rose riusciranno a bucare la (non indimenticabile) difesa perimetrale dei Cavs, che ha un solo “stopper” in Iman Shumpert? Chi vincerà il duello tra due non-difensori come Irving e Rose?
Non sarà certamente la serie più esteticamente appagante dei playoff, ma di sicuro ci sarà grande animosità, perché le due squadre si odiano e neanche troppo cordialmente.
Golden State Warriors (1) vs Memphis Grizzlies (5)
SOTTO IL VULCANO DEI DUBS
di Francesco Andrianopoli (@Fletcher_Lynd)
Esattamente duecento anni fa, nella primavera del 1815, la più devastante eruzione vulcanica della storia rubò l’estate al mondo intero, lasciandolo in un perenne inverno.
Oggi, i vulcanici Golden State Warriors sembrano pronti a gettare il resto della Lega in una altrettanto cupa e buia estate: troppo forti, troppo completi sui due lati del campo, apparentemente impermeabili anche all’assenza di esperienza a questi livelli, mentre le altre potenziali contender sono martoriate dagli infortuni e/o si fanno fuori a vicenda.
I Grizzlies non sembrano in grado di poter impensierire questa inarrestabile forza della natura, soprattutto per le condizioni fisiche del loro giocatore-barometro, Mike Conley: il playmaker da Ohio State è uno dei pochi giocatori nella Lega (anzi forse l’unico, con Chris Paul) ad avere le qualità per poter quantomeno sperare di contenere Steph Curry in difesa e contemporaneamente impensierirlo nell’altra metà campo.
Purtroppo per lui, però, l’impatto fortuito con C.J. McCollum dei Blazers nella gara del 25 aprile gli ha provocato fratture multiple al volto, costringendolo a subire un intervento chirurgico e l’inserimento di due placche metalliche sotto lo zigomo e nell’orbita: sarà difficilmente utilizzabile nelle prime due gare, ma stiamo parlando di un giocatore e un uomo dal carattere d’acciaio, e il gap insolitamente ampio tra gara-2 (in programma martedì) e gara-3 (sabato) potrebbe consentirgli di fare quantomeno un tentativo per essere in campo.
Senza di lui, Joerger farà (come ha già fatto, nelle ultime gare contro i Blazers) una fatica tremenda a mettere insieme un backcourt degno di questo proscenio: Beno Udrih (peraltro pure lui acciaccato, causa problemi alla caviglia) è un giocatore che sa improvvisare e creare attacco, ma è spesso confusionario ed è comunque un difensore mediocre, mentre Calathes è un eccellente difensore e ha grande grinta, ma (a parte qualche occasionale tripla contro i Blazers) con la palla in mano non fa paura a nessuno.
Per non pensare alle condizioni di Conley, i Grizzlies dovranno fare affidamento al loro gioco in post basso, fondamentale tecnico-tattico in cui non hanno rivali sia per quantità che qualità, grazie al duo Randolph-Gasol: per una volta, però, questa poderosa coppia troverà pane per i propri denti, dovendo affrontare il secondo classificato al Defensive Player of the Year, Draymond Green, e uno come Andrew Bogut, che avrebbe potuto tranquillamente aspirare allo stesso premio, e in una classifica dei migliori difensori NBA non esce comunque dalle prime dieci posizioni.
Gara-1 vinta dagli Warriors.
La sfida Randolph-Green, in particolare, sarà uno spettacolo nello spettacolo, e probabilmente il matchup individuale più interessante di tutta la serie, dal punto di vista tecnico, tattico fisico ed emotivo; nelle tre sfide stagionali (2-1 per GS) Randolph ha mostrato di non soffrire la difesa asfissiante del secondo DPOY, tirando ampiamente sopra al 50% nel confronto diretto: un trend che deve continuare anche in questa serie, se i Grizzlies vogliono avere qualche speranza di portarla a casa.
Un’altra arma che potrebbe aiutarli in questo senso è il tiro da fuori: i Grizzlies sono la squadra che porta i migliori blocchi della lega, e questo genera tiri puliti che le guardie dei Grizzlies stanno mettendo con grande regolarità (in questi playoff, 72.7% nei tiri non contestati per Courtney Lee, quasi il 70% per Udrih, 60% per lo specialista difensivo Tony Allen: cifre che valgono rispettivamente il secondo, terzo e sesto posto assoluto in questa situazione tattica); per converso, l’asfissiante difesa di Golden State, che è praticamente perfetta in tutti i fondamentali, ha un piccolo neo, forse l’unico, proprio in una certa pigrizia talvolta mostrata nel passare sui blocchi.
Il pronostico sembra quindi abbastanza chiuso in favore degli Warriors, che hanno un attacco troppo veloce ed esplosivo per la difesa statica dei Grizzlies, e grazie all’assenza di Conley godranno di un matchup brutalmente favorevole per il loro MVP. Insomma, gli Warriors sono più forti, più sani, più completi, più riposati, e i loro punti di forza sembrano fatti apposta per neutralizzare Memphis; con il problema-Conley, sulla carta è difficile ipotizzare qualcosa di diverso da un 4-1 o addirittura 4-0 in loro favore.
Nessuna serie, però, si vince sulla carta, e i Grizzlies sono una squadra molto fisica, esperta, che non si fa spaventare dalle corazzate: ha eliminato la #1 del seed due volte negli ultimi quattro anni, nel 2011 e 2013; Memphis soffrirà, subirà, forse verrà spazzata via come successo in ampi tratti di gara-1, ma sicuramente non si arrenderà prima di aver lasciato sul campo l’ultimo “bump” sul perimetro, l’ultima spallata sotto canestro, l’ultima goccia di sudore.
Houston Rockets (2) vs Los Angeles Clippers (3)
CP3 DECIME QUE SE SIENTE
di Fabrizio Gilardi (@Fazzettino)
Primo step: respirare. A lungo, con calma. Levarsi dalla testa l’incredibile spettacolo offerto dalla serie tra Spurs e Clippers, la più combattuta gara-7 di sempre (mai si era arrivati a segnare il canestro decisivo a un secondo dalla fine sul 3-3) e la prestazione da leggenda di Chris Paul è operazione che richiede tempo.
Per distaccarsi il più possibile: sliding doors. 61 minuti, 9/28 al tiro, 15 assist, 8 palle perse, -7.3 di Net Rating. Questo il rendimento di Paul in stagione regolare quando è stato in campo contro Patrick Beverley. Che però è infortunato, stagione finita. C’è invece Dwight Howard, dominante al primo turno, ma fuori a propria volta in tutte e quattro le sfide tra le due squadre. Impossibile quindi ricavare indicazioni da quanto successo tra novembre e aprile.
Prese le dovute distanze, secondo step: come sta CP3? Pur senza avere certezze in merito, è estremamente probabile che si sia stirato il bicipite femorale, infortunio che in condizioni normali andrebbe gestito con pazienza, senza affrettare i tempi. Ma ai Playoff il tempo non c’è: già stanotte alle 3:30 ora italiana si scende in campo e le parole di Doc Rivers sono state chiare: «If I had to guess, Chris Paul will NOT play in Game-1 against Houston».
Inutile sottolineare quanto potrebbero pesare la sua mancanza o anche solo condizioni fisiche tutt’altro che ottimali, specie contro una squadra che senza Beverley ha nel contenimento delle guardie avversarie il proprio punto debole più evidente.
Contro i Mavericks Harden ha riscoperto fantasmi che sembravano scacciati (i Rockets hanno concesso 110.3 punti per 100 possessi nei 180 minuti in cui è stato in campo, contro i soli 92.7 concessi quando era a riposo) e non può certo essere speso in marcatura sull’attaccante avversario più pericoloso; ma le soluzioni non possono essere neanche Jason Terry e Pablo Prigioni—basti vedere il rendimento di Barea ed Ellis nelle ultime tre partite.
Come sono arrivati in semifinale i Clippers.
Però, appunto, le condizioni di Paul sono un’incognita di estrema rilevanza e per la seconda serie consecutiva la squadra allenata da Kevin McHale potrebbe essere avvantaggiata dalla situazione del playmaker avversario, dopo che contro Dallas a fare la differenza è stata la… presenza di Rondo (spiace constatarlo, ma che sia stato estremamente deleterio è un dato di fatto).
Altri punti di vantaggio per i Rockets possono essere, oltre all’Howard padrone dell’area ammirato negli ultimi 15 giorni, in difesa la tendenza a cambiare molto frequentemente sui pick n’roll (specie quando vengono schierati Brewer e lo stesso Smith), ideale per limitare ricezioni pulite a JJ Redick e in attacco il gioco chiamato “Elbow Get” tra gli amici di adolescenza Dwight e Josh, estremamente semplice sulla carta, ma difficile da limitare e devastante nell’efficacia, come visto soprattutto nel secondo tempo di gara-2 contro i Mavs.
Restano da verificare invece due possibili tendenze negative che la squadra incontra ai Playoff: il minor numero di falli che storicamente viene fischiato a favore di Harden (situazione però non verificatasi contro Dallas, con medie di falli subiti e tiri liberi tentati identiche a quelle delle regular season) e il minor numero di tiri da 3 punti tentati di media a partita (26 contro 32), marchio di fabbrica del Moreyball.
Sponda Clippers: se li avete ammirati contro San Antonio saprete già tutto (e se non l’avete fatto smettete immediatamente di leggere e procuratevi le partite!). Scoglio principale: il livello infimo dei giocatori in uscita dalla panchina (ad esclusione di Jamal Crawford) e di conseguenza la capacità dei titolari di stare in campo, evitando problemi di falli e ritmi eccessivamente elevati.
È anche una sfida tra uno dei migliori GM della Lega, Daryl Morey—capace di sfruttare ogni singolo spiraglio offerto dal mercato per costruire una squadra il più profonda e competitiva possibile (Beverley, Brewer, Smith, Ariza e Howard senza che fosse sacrificato alcun asset)—e uno dei peggiori, Doc Rivers, che a causa degli innumerevoli errori commessi è forse l’ostacolo più grande, salute permettendo, che i Clippers stanno incontrando (vedi sopra).
Per concludere: con un buon Chris Paul vantaggio Clippers nonostante il fattore campo avverso (ma s’è visto come ormai conti molto relativamente); in caso contrario buone chances per i Rockets. E, per favore, che non si riduca ad un Hack-A-DeAndre versus Hack-A-Dwight (o Smoove). Oltre a essere brutto, non funziona.