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James Harden, chi ci capisce qualcosa è bravo
09 mag 2023
In quattro partite contro Boston ha mostrato davvero tutto il meglio e il peggio del suo repertorio.
(articolo)
8 min
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Terzo quarto. Grant Williams si avvicina al canestro. James Harden, sbucando dal nulla, ne intuisce le intenzioni. Prima gli schiaffeggia la palla via dalle mani. Poi, nella mischia che segue, ci si butta sopra con veemenza. Sullo slancio finisce per ribaltarsi a terra, con una mezza capriola espone il lato b alla folla del Wells Fargo Center. È un gesto goffo, caotico. Degno di un raduno del minibasket o del predatore sfigato di un cartone della Warner Bros. Ma il pubblico, voglioso di esorcizzare la paura, si esalta come se avesse appena segnato una tripla. Alla sirena mancano ancora molti minuti. Con la partita in controllo per i Sixers, nessuno ha idea di cosa sarebbe successo di lì a poco: la rimonta di Boston, il passaggio a vuoto di Embiid, e infine la tripla della vittoria segnata proprio da Harden. Ma nulla restituisce l’essenza della sua effervescente serata come quella giocata difensiva. Un frangente in cui l’ex Houston Rockets ha fatto capire, casomai ce ne fosse bisogno, di essere uno degli enigmi più imperscrutabili della NBA contemporanea.

Abulico, attivo, indifferente, deleterio, fenomenale. Il meglio e il peggio nel giro di due giorni, e senza nemmeno un viaggio aereo nel mezzo. “Luitutto e niente, lui genio lui cretino” direbbe Guccini. “Good Game James, Bad Game James” dicono invece i tifosi dei Sixers, nel disperato tentativo di razionalizzare la lunaticità di un giocatore impossibile da decifrare. Che nel pomeriggio di domenica ha tirato fuori forse la miglior partita in carriera, dopo essersi preso sacrosante bordate di fischi due sere prima. E ha così regalato ai propri tifosi un momento di sospirata gioia, prima che tornassero nervosamente a grattarsi il capo per quello che succederà questa notte.

Legacy Game

Se esistesse la partita perfetta nel basket, quella sfoderata da Harden domenica pomeriggio sarebbe una seria candidata. Quanto fatto dal Barba è stato stratosferico secondo sostanzialmente ogni criterio di valutazione: ha prodotto tantissimo — 42 punti, 6 triple, 4 recuperi, oltre ai canonici 9 assist –, ma ha pure prodotto benissimo, chiudendo con 16/23 dal campo — dato incredibile, se si considera che per lunghi tratti l’attacco era interamente sulle sue spalle — e prendendo sempre la scelta giusta al momento giusto. Senza dimenticare l’esecuzione glaciale nei momenti chiave. Come il tiro in corsa che è valso il pareggio e conseguente supplementare, dopo un elegante cambio di mano che pareva uscito dritto dritto da un video tutorial di Instagram per aspiranti playmaker. E, ovviamente, la tripla dall’angolo che ha permesso ai Sixers di mettere la testa avanti per l’ultima, decisiva volta.

Una conclusione all’apparenza comoda, visto che è arrivata su uno scarico in uscita da un raddoppio. Ma comunque sganciata con la mano di Jaylen Brown in faccia e da una prospettiva difficile, peraltro inusuale per un giocatore abituato a creare frontalmente e dal palleggio, e che dunque raramente va a imbucarsi in quelle zone di campo

Più del nudo merito di quanto fatto, però, è il pacchetto completo che ha mandato in visibilio tutto l’ambiente. Perché Harden si è sbattuto, incazzato, confrontato coi compagni, buttato sulle palle vaganti. Ovvero, ha fatto tutto quello che un giocatore normale farebbe in queste occasioni. Oltre a difendere benino sulla palla, al punto da dare l’impressione che, nel sanguinante quarto quarto difensivo dei Sixers, il grattacapo principale per Doc Rivers fosse proteggere Tyrese Maxey e non di certo lui.

Dati causa e pretesto, l’impresa sportiva del Barba è stata subito celebrata come un legacy game — una partita da lasciare ai posteri. Espressione il cui suono presuntuoso calza alla perfezione alla prosopopea delle partite dei playoff e all’inclinazione all’epica sportiva del basket NBA. Perché di uscite da 40 o 50 punti il Barba ci ha abituato e vederne parecchie. Ma di prestazioni così chirurgiche e così efficaci a tutto tondo — a maggio inoltrato, per giunta — non ne ha fatte molte. Un contributo reso ancora più prezioso dal fatto che ha chiuso con solo 4 tiri liberi tentati in 47 minuti di gioco. Da una parte è un dato sconvolgente, vista la sua storica capacità di guadagnarsi montagne di liberi e le energie che spende nel cercare di procurarsi il contatto falloso. Dall’altra, è forse l’indice supremo del suo livello di concentrazione, che lo ha portato a pensare più a punire le debolezze della difesa avversaria che a forzare i ritmi per guadagnare fischi arbitrali. E così, le prodezze di domenica sono riuscite a scalzare la memoria un’altra impresa titanica, quella di gara-1. Quando con 45 punti — e ancora più libertà di azione offensiva vista l’assenza di Embiid— aveva condotto i Sixers ad espugnare il TD Garden.

Per di più con il canestro decisivo a 8 secondi dalla fine.

Un’altra partita di quelle che passerà alla storia, quando si tratterà di tracciare un bilancio delle cose migliori fatte vedere in carriera. Eppure, di cui ci si è incredibilmente dimenticati. Anche perché, nel mezzo, sono arrivati due disastri da mani nei capelli. Che hanno lasciato tifosi e appassionati completamente sbigottiti.

I fantasmi del Simmons passato

«Has James Harden turned into Ben Simmons?». Dalle tribune del Wells Fargo Center durante gara-3 in molti si facevano questa domanda. Rinunciatario, titubante, macchinoso, indisponente. Nelle due partite centrali della serie Harden è stato il fantasma del giocatore frizzante visto in regular season e lontanissimo parente di quello di gara-1. Non solo incapace di battere l’uomo, ma pure completamente disinteressato a trovare un modo alternativo di rendersi pericoloso — al punto che per lunghi tratti di partita la sua preoccupazione maggiore è parsa quella di protestare con gli arbitri, rientrando in difesa a ritmi da passeggiata digestiva. Eppure, l’indolenza non era nemmeno il problema più grande. Ancora peggio era il totale rifiuto di guardare il canestro.

Vedendo il Barba giocare così, difficile non rivivere il trauma delle prestazioni fantasma di Ben Simmons, che hanno segnato la storia recente delle partite playoff dei 76ers. Soprattutto in occasione di una manciata di penetrazioni prese senza la minima intenzione di concludere al ferro, finite con scarichi molli che hanno puntualmente alimentato il contropiede dei Celtics.

Tra questa partita e quella prima ha chiuso con 5/28 dal campo: la peggior prestazione di tiro in due gare consecutive della sua carriera. Non c’è dunque da stupirsi che, dopo alcuni mormorii iniziali, il pubblico l’abbia sonoramente fischiato per tutta la ripresa finendo per farlo diventare il capro espiatorio di una partita che, per la verità, è stata giocata male da quasi tutti i compagni. Un momento straniante, in cui è parso di piombare in un buco spazio-temporale. Che ha riportato le cose all'ultima partita della scorsa stagione — gara-6 della finale di conference contro i Miami Heat, una sonora sconfitta per i Sixers in cui il Barba si congedava dal pubblico con una prestazione egualmente passiva e salutata con lo stesso sdegno dai suoi tifosi. Ai tempi c’erano almeno delle giustificazioni razionali: la forma fisica imperfetta; l’adattamento ai nuovi compagni; un ambiente già di per sé abbastanza abbacchiato. Ma a questo giro, la ragione sembra condannata a doversi rassegnare.

Enigma

Ma chi è, allora, James Harden? Risposta banale: un enigma imperscrutabile. Anzi “The enigma of all enigmas”, se Bryan Colangelo — che qui a Philadelphia conoscono bene e rimpiangono molto poco — non avesse già usato quell’espressione per descrivere Andrea Bargnani dopo alcune stagioni ondivaghe con i Toronto Raptors. Spiegazioni plausibili, del resto, si stentano a trovare. La difesa di Jaylen Brown. L’età che avanza. Un po’ di credito da superstar perso con gli arbitri. Tutti fattori pertinenti. Ma una tale alternanza di prestazioni – e soprattutto le uscite inguardabili sfoderate sia contro i Celtics che contro i Nets –, sembrano il risultato di un fenomeno soprannaturale. Il cui precedente più simile rimane il furto di talento degli alieni ai giocatori proposto dalla trama dello Space Jam originale. Anche perché, dopo la prima mezza stagione di disintossicazione e adattamento, per buona parte della regular season Harden aveva dato l’impressione di poter giocare a livelli paragonabili a quelli del passato. Anche in termini di costanza.

In linea con le atmosfere da realismo magico, il tema del dopogara di gara-4 è stata la canzone gospel che Doc Rivers ha mandato al giocatore prima della partita, come raccontato dallo stesso Harden. Sette lunghissimi minuti con cui il coach ha cercato di scuotere il giocatore, a partire dal velato invito “ricordarsi il suo nome” suggerito dal titolo della canzone. Difficile credere che quel gesto abbia fatto davvero la differenza, così come la presenza a bordocampo del superstite della sparatoria di febbraio a MSU. Ma quello che è certo è che l’ex Arizona State sia il vero ago della bilancia delle prospettive dei Sixers, ancora più di Embiid e della sua salute fisica.

Avere lui in modalità connessa non solo aumenta esponenzialmente la pericolosità dell’attacco di Philadelphia, ma trasmette anche una fiducia contagiosa ai compagni ai due estremi del campo. Al punto che, in queste quattro partite, è sembrato che lo spirito del resto del gruppo fosse pesantemente condizionato dallo stato d’animo del proprio playmaker — a prescindere dalle considerazioni tecniche. Con il Barba di domenica, nulla è precluso. Con quello di venerdì, vincere è sostanzialmente impossibile. Da quale versione si presenterà in campo questa sera dipenderà il destino dei Sixers in gara-5. E con esso, quello dell’intera serie.

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