(1) GOLDEN STATE WARRIORS vs (8) NEW ORLEANS PELICANS
Benvenuti a Steph vs ‘Brow
di Daniele V. Morrone (@DanVMor)
Molto probabilmente i Golden State Warriors vinceranno in quattro o cinque gare questa serie (nei quattro scontri diretti gli Warriors hanno vinto tre volte in scioltezza e perso l’ultima di 3 punti in trasferta trattandola come un allenamento, o almeno questo è quello che ha detto Anthony Davis a fine gara). Ciò non toglie che non perderò neanche un minuto delle quattro partite come minimo da giocare. Il motivo è la presenza in contemporanea sul campo di Steph Curry e Anthony Davis, due dei sei candidati al premio di MVP, e contendenti al premio ufficioso di Giocatore Più Elettrizzante Della Lega.
In quanto a sfida tra stelle non vedo niente di meglio in questo primo turno: Curry e Davis, oltre ad essere i migliori nel loro ruolo, sono entrambi dei veri e propri glitch nel sistema NBA. Due giocatori per cui squadre avversarie non hanno risposta, talmente unici da uscire completamente dagli schemi comuni e rendere difficilissima la possibilità di prevedere e anticipare le loro mosse. Averli in campo significa cambiare il contesto stesso in cui si gioca una partita, e ora li abbiamo insieme in una gara playoff, l’uno contro l’altro.
Se Curry è un pozzo senza fondo di creatività capace di segnare in qualunque modo e da qualunque posizione, portando la difesa avversaria più che a altro a pensare di che morte preferisce morire; Davis semplicemente non ha limiti fisici umani che possano contenerlo, è ingestibile per gli avversari sia in attacco che in difesa.
Ma non possiamo avere una serie solo di Steph che attacca Davis e vedere in quanti modi diversi tenta di fare canestro?
Davis e Curry avranno a disposizione almeno quattro partite per trovare nuovi modi di stuzzicare la nostra fantasia, facendoci credere di poter intravedere fin dove può arrivare il loro talento, anche solo per poi spostare l’asticella un po’ più in alto. E allora visto che il risultato è praticamente certo, godiamoci fino in fondo e senza altre distrazioni il talento quasi sbruffone di Steph o quello sovrumano di Davis in una serie di playoff, uno spettacolo che in contemporanea non passa tutti i giorni davanti ai nostri occhi.
(2) HOUSTON ROCKETS vs (7) DALLAS MAVERICKS
La resa dei conti texana: Morey vs Cuban
di Dario Vismara (@Canigggia)
Trovo meraviglioso che lo scontro più divertente della serie tra Houston e Dallas non si svolgerà sotto i nostri occhi. O meglio, non del tutto. Il feud tra Daryl Morey e Mark Cuban—rispettivamente GM dei Rockets e proprietario dei Mavs—è un rarissimo caso di rivalità tra dirigenti, una situazione sostanzialmente unica nella NBA contemporanea. Ed è bellissima.
Tutto è iniziato nell’estate del 2013: Morey, dopo aver convinto Dwight Howard a firmare per la sua squadra dopo che era stato fortemente cercato anche dai Mavs, ha avuto l’ardire di mandare un sms a Cuban chiedendogli se fosse disponibile a scambiare Dirk Nowitzki, la cosa più vicina a una dichiarazione di guerra dai tempi di Pearl Harbor. Cuban l’ha presa sul ridere pensando che Morey volesse solo sfotterlo, come si fa dopo aver vinto un derby con un cugino nerazzurro, ma con la lingua biforcuta che usciva dai denti ha anche aggiunto un velenoso «payback is a bitch».
Infatti, un anno dopo, si è presentato in discoteca da Chandler Parsons (ai tempi ala dei Rockets) per fargli firmare un contratto monstre da 46 milioni di dollari in 3 anni, aggiungendo un paio di clausole particolarmente scomode per Morey—che aveva la possibilità di pareggiare l’offerta e tenere Parsons ma ha declinato, sostanzialmente ritenendolo inadatto al ruolo di terza stella per una squadra da titolo.
In realtà Cuban è uno che è solito sfruttare i media per cose di questo tipo—è capace di dichiarare sia di «rispettare moltissimo Daryl, un bravo ragazzo» che di definirlo «lo Spock della NBA, tutto logica» nello spazio della stessa frase—per creare artatamente qualcosa di cui parlare, una specie di Rivalità In Provetta per innalzare l’interesse attorno al gioco (e quindi i soldi). Anche perché «Oh, tutti i buoni business sono personali. Fidatevi, non c’è nessuno più competitivo di me. Volevo prendere a calci in culo Morey con tutto me stesso, ma un po’ mi sarebbe dispiaciuto. Daryl è molto sveglio. È stata una partita a scacchi», anche se «non capisce bene come funzionano i media». Appunto, mica come lui.
Aggiungete alla nascente rivalità un dirigente portato via ai Rockets da parte di Cuban (solo per cacciarlo dopo qualche mese e farlo tornare a Houston), diversi battibecchivia media (in particolare sull’interesse o meno verso la chimica di squadra e le analytics), l’arrivo a Houston di una leggenda dei Mavs come Jason Terry, il fatto che le due arene distino meno di 400 km l’una dall’altra (decisamente pochi per gli standard USA), l’odio reciproco (principalmente social-mediatico) tra le due tifoserie… e più o meno avrete la più grande rivalità tra due squadre che nella loro storia si sono affrontate ai playoff solo due volte (entrambe vittorie Dallas, l’ultima a gara-7 10 anni fa).
Considerando poi che dopo l’addio di Parsons James Harden aveva dichiarato che le uniche stelle dei Rockets erano lui e Howard, che Carlisle e McHale sono ai diversi poli del gotha degli allenatori NBA, che Rajon Rondo deve giustificare l’investimento fatto su di lui a dicembre, che Monta Ellis può uscire dal contratto a luglio, che Dirk Nowitzki anche quando non riesce a muoversi rimane una delle 10 cose più belle da vedere su un campo da pallacanestro, e abbiamo tutto apparecchiato per una serie glo-rio-sa, possibilmente anche fino a gara-7.
Se poi si arrivasse a una sfida uno-contro-uno tra Cuban e Morey trasmessa in pay-per-view, scordatevi pure di Mayweather e Pacquiao.
(3) LOS ANGELES CLIPPERS vs (6) SAN ANTONIO SPURS
L’ultima di Timmy (?)
di Alessio Marchionna (@AlessioMarchio)
È finita la stagione regolare e comincia il periodo sportivo più entusiasmante dell’anno, giusto? Non proprio, non per me, almeno non del tutto. Per me questi giorni nel limbo dell’attesa di gara-1 sono anche un momento malinconico, per colpa dei San Antonio Spurs. Ogni estenuante stagione regolare che finisce, ogni massacrante fase finale che comincia, siamo un anno più vicini al momento in cui le ginocchia, le caviglie e la testa di uno dei miei giocatori preferiti di tutti i tempi diranno comprensibilmente basta. Tim Duncan ha quasi 39 anni (li compirà il 25 aprile, un giorno prima di gara-3 contro i Clippers) e teoricamente non avrebbe più niente da chiedere al basket e a se stesso.
È stato operato alle ginocchia per la prima volta nel 2000, e negli anni successivi la parola “declino” ha cominciato periodicamente a comparire vicino al suo nome, tanto che la situazione sembrava compromessa già nel 2008. Dopo le finali del 2013—quelle formalmente perse dopo gara-7 contro gli Heat ma decise sul tiro di Ray Allen in gara-6—la cosa più difficile da sopportare era l’idea che Tim avesse perso l’ultima corsa per il titolo. L’anno dopo invece ha guidato gli Spurs a una stagione perfetta, e quest’anno ha fatto qualcosa di ancora più incredibile, se possibile, perché arriva ai playoff in uno stato di forma che non si vedeva da quasi dieci anni. Il 13 aprile è diventato il secondo giocatore più vecchio della storia (dopo Reggie Miller) a essere scelto come giocatore della settimana. Tra il 6 e il 12 aprile ha viaggiato a una media di 17.3 punti, 9.8 rimbalzi, 3.25 stoppate e 2.5 assist a partita, compreso il capolavoro a casa di Dwight Howard: 29 punti con 12/15 al tiro e stoppata su Harden a due secondi dalla fine.
Contro i Clippers Duncan si ritroverà incastrato in uno dei peggiori accoppiamenti possibili per gli Spurs: la serie si deciderà sotto canestro e Tim—uno che da giovane non capiva perché ci fosse gente che saltava più del minimo indispensabile e che oggi non potrebbe saltare neanche volendolo con tutte le forze, dato che gioca su una gamba sola—dovrà affrontare la prepotenza e l’atletismo di Blake Griffin e DeAndre Jordan, che sta giocando probabilmente la migliore stagione della sua carriera. Non sarà solo un confronto tra stili di gioco completamente diversi e tra giocatori con caratteristiche fisiche opposte: sarà uno scontro di civiltà. Chi vince probabilmente contenderà a Golden State lo scettro dell’Ovest; chi perde andrà a casa e sarà costretto a rifondare.
Le due squadre più in forma si sfidano nella serie più incerta della conference più equilibrata dell’NBA degli ultimi decenni, forse di sempre. Lasciate perdere le altre serie e concentratevi su questa. Soprattutto perché potrebbe essere l’ultima di Timmy. Ma non è detto.
(5) MEMPHIS GRIZZLIES vs (4) PORTLAND TRAIL BLAZERS
Tristemente, tipicamente Portland
di Timothy Small (@yestimsmall)
Quello tra i miei amati Trail Blazers e i Grizz n’ Grind sarà probabilmente lo scontro più strano di questi playoff. Prima di tutto, vi accorgerete che i Blazers sono considerati il quarto seed, anche se non giocano in casa. Non capisco bene cosa voglia dire (anzi, onestamente proprio non ne capisco il ragionamento), ma da quello che ho capito la squadra con il quinto seed, cioè quei bastardi sgomitoni di Zibo e compagni, avrà l’home-court advantage perché il posizionamento da quarto seed è arrivato automaticamente perché Portland ha vinto la sua Division, ma l’home-court advantage non segue questa stessa logica, e va alla squadra con il record migliore. Quindi Memphis. Poi un giorno qualcuno (Dario) mi spiegherà bene a che serve farli arrivare quarti se poi alla fine dei conti nei Playoff sono quinti, però vabbeh, non mi aspetto di “sapere le cose” da questa vita caotica e sfuggente, ogni giorno la morte ci attanaglia e nulla è comprensibile se non nell’abbraccio del Divino.
La ragione di tutta questa depressione è che il mio attuale giocatore preferito dei Blazers, Mr. Corsette Laterali Lievemente Obese, Wesley “Iron Man” Matthews—che ha rimpiazzato nel mio cuore il giocatore che ha anche rimpiazzato sul parquet, l’adorato Brandon Roy, The Natural—si è fatto molto male. Come Roy. Il che rende il Fattore Julian Ross dei Blazers ormai responsabile per più del 20% del mio amore per loro (non scordiamoci pure Greg Oden). Insomma, Wes si è lacerato il tendine d’Achille. Ricordo ancora, a inizio stagione, quando mi bullavo del fatto che Wes fosse una shooting guard ancora più completa di quanto non lo sia Klay Thompson e due altri membri della Redazione Basket de l’Ultimo Uomo mi guardavano come se fossi scemo. E forse lo sono. Ma come si fa a non amare Wesley? Sapete perché si chiama Iron Man? Non perché sia bravo in difesa, ma perché Matthews' ability and willingness to play through minor injuries and pain has earned Matthews the nickname "Iron Man", an appellation used by Trail Blazers fans, television and radio commentators, and arena public address announcers alike.
Insomma, meno male che prima della trade deadline han preso Arron Afflalo, che almeno li ha coperti proprio in quell’area del quintetto. Certo che, da quando s’è fatto male Wes, i Blazers hanno un record abbastanza negativo (10-12), e la difesa è sparita, e non hanno molta speranza di contrastare gente con una difensività massacrante come Gasol, Zibo, e quel cagnaccio di Tony Allen. Non che Conley sia una pippa in difesa, poi. Certo, è vero che Robin Lopez è migliorato molto dal punto di vista offensivo (sebbene i Blazers siano solo 26mi nella lega per points in the paint, mentre i Grizz sono, ahem, primi), ed è vero che LaMarcus Aldridge darà del filo da torcere a Zibo (se non gli farà male la schiena), ed è anche vero che Damian Lillard (vincitore del Shaq Diesel Prize come Miglior Rapper dell’NBA) prima o poi magari ti vince una partita da solo, ma nulla, alla fine la serie la vince Memphis, probabilmente 4-0, proprio come nella regular season, anche perché CJ e Dame in difesa fanno ancora un bel po’ pena, e ai PO è la difesa a vincere.
Io la guarderò comunque, sperando, tifando, con il cuore pieno d’amore per B-Roy e per quello che sarebbe potuto essere, che poi non si mai che magari un paio di partite le portiamo pure a casa. Insomma, le guarderò un po’ come un milanista guarda il Milan quest’anno: con la chiara consapevolezza della probabile morte sempre in mente; e con una flebile, delicata, sottilissima speranza nel cuore. Che, se non altro, è una gran bella sensazione da provare.
EASTERN CONFERENCE
(1) ATLANTA HAWKS vs (8) BROOKLYN NETS
La bella e la bestia
di Lorenzo Neri (@TheBro84)
Non mi permetterei mai di consigliarvi di vedere qualcosa di estremamente brutto. Che si parli di un film, di un libro, di una partita, ho troppa stima dei miei gusti per portare qualcun altro a dubitarne. Perciò, se vi consiglio una serie in cui ci sono i Brooklyn Nets—sicuramente nella top-3 delle squadre più frustranti da vedere in questa stagione a livello estetico—è solo e soltanto per la presenza dall’altra parte della barricata della pallacanestro migliore, quella degli Atlanta Hawks.
Le due filosofie di gioco sono agli antipodi: Budenholzer ha costruito il miglior record della storia della franchigia con lo spirito di condivisione e un basket intelligente, nelle idee e negli interpreti, elevando il sistema-Spurs da cui proviene a una squadra impossibile da determinare in un solo elemento (tanto è vero che è diventata la prima franchigia di sempre a vincere 60 partite senza avere un singolo giocatore capace di andare oltre i 30 punti in singola partita).
I Nets di Hollins giocano invece un basket retrogrado, fatto di concetti superati e stantii e giocatori dal talento naturale ma con problemi a mantenere un minimo di continuità a livello mentale (Deron Williams), a rimanere sani (Brook Lopez) o a prendersi le responsabilità della squadra anche fuori dal campo (Joe Johnson).
Eppure i motivi per rendere la sfida affascinante ci sarebbero eccome: non bastassero le bastonate rifilate dagli Hawks nelle ultime due sfide ai Nets (tra cui un imbarazzante 131-99) proprio nel miglior momento stagionale di Brooklyn, e il filo che lega le due franchigie sul fronte Joe Johnson—doveva essere il primo passo verso la corsa all’anello dei Nets, è diventato il primo passo per la ricostruzione di questi Hawks—, ci sono anche le fresche dichiarazioni di Paul Pierce, che ha puntato il dito contro l’atteggiamento dei suoi ex-compagni di squadra come principale causa del fallimento della scorsa stagione.
Insomma, fosse una questione di motivazioni e di talento a disposizione non ci sarebbe alcun dubbio sul ruolo di partycrasher di Brooklyn—ma il campo è giudice insindacabile, e sembra aver emesso la propria sentenza già da tempo. Ed è per questo che ve la consiglio: è la dimostrazione che la NBA non è una questione di salary cap e nomi, ma di approcci e idee. E il campo, sotto questo punto di vista, non mente mai.
(2) CLEVELAND CAVALIERS vs (7) BOSTON CELTICS
La corazzata contro la beata gioventù
di Nicolò Ciuppani (@NickRamone)
Quella tra LeBron e i Celtics è forse la prima grande rivalità storica tra un Giocatore e una Franchigia. Gli incroci storici nei playoff tra le due parti sono stati numerosi e piuttosto bilanciati: nei 25 scontri il record è di 13-12 e due serie vinte a testa. Non solo, spesso i momenti importanti della carriera di James, sia dolci che amari, sono passati attraverso il fuoco bianco-verde.
Gara-6 del 2012 fu forse la consacrazione: dopo un anno di critiche a seguito della sconfitta contro Dallas, dopo gli innumerevoli appellativi di “perdente”, “inconcludente” e “choker”, dopo essere andato sotto 2-3 in una serie che doveva stravincere, il Re rispose con 45+15+5 nel palazzetto più glorioso della NBA giocando su un altro livello rispetto al resto dell’umanità intera. Non meno rilevante però, tornando ancora più indietro, è stata l’ultima partita di James con i Cleveland Cavaliers.
Nonostante una prestazione da 29 punti, 19 rimbalzi e 10 assist il sentore era che qualcosa non stesse andando al meglio con i Cavaliers: LeBron totalizzò 9 palle perse e con il passare dei minuti molte persone notarono un atteggiamento di resa, lo stesso che si era visto in gara-5, l’ultima partita di playoff giocata dal Prescelto davanti al pubblico di “casa sua”.
Due mesi dopo la canotta col numero 6 di Miami diventò la più venduta della NBA. Sembra quasi che sia stata una trama cinematografica a decidere che l’avventura nel basket che conta per James in maglia Cavs avvenga contro la stessa franchigia che l’ha vista concludere una prima volta. Ma i Celtics non si presenteranno ai nastri di partenza con l’intenzione di fare da sottofondo alla storia del 23.
Stevens è l’allenatore più intrigante nel panorama mondiale per il rapporto tra capacità espresse (avete visto che roster ha in mano?) ed età anagrafica (non ha ancora 39 anni) e Boston è diventata una squadra rodata da prima dell’All-Star Game, anche se ne ha raccolto i frutti dopo.
La squadra di Stevens ha messo in campo negli ultimi mesi un livello di intensità difficile da eguagliare per chiunque: l’impressione, guardando i biancoverdi, è quella della foga di una squadra collegiale in piena madness.
Ma per quanto risulti quasi assurdo scriverlo, dopo l’overdose di attenzione rivolta a Cleveland nei primi mesi, in molti si sono lasciati sfuggire l’evoluzione della squadra di Blatt: i Cavs sono passati da Squadra Mediocre a vera e propria Corazzata nel giro di poco tempo, lasciando nel record finale che li ha visti chiudere a 53 vittorie solo la media di quel percorso. Gli innesti di Mozgov e J.R. Smith hanno dato equilibrio alle due fasi (Oh, quel J.R. Smith!), specie quella difensiva (OH, DAVVERO, J.R. SMITH!!!). Con blocchi e spaziature migliori, il debordante talento offensivo di Kyrie è stato libero di esprimersi per rendere i Cavs nel finale di stagione uno degli attacchi più belli da vedere ed efficace per rendimento.
In definitiva, dovreste vedere questa serie perché è uno scontro tra una squadra vuole completare la sua maturazione per l’Obiettivo Più Grande, e una di giovani affamati di gloria e senza nulla da perdere. Brutto?
(3) CHICAGO BULLS vs (6) MILWAUKEE BUCKS
Cronistoria di un rientro a lungo atteso
di Andrea Beltrama (@andreabeltrama)
Inverno 2013. «Oh, ma Rose come sta?». Erano i tempi del gioco degli specchi, dei botta e risposta prepartita in cui si sapeva già tutto. «Quando è pronto tornerà». Tiri liberi nel riscaldamento. «È clinicamente guarito». Accuse e scuse. «Che delusione». Poi il campo spazzò via tutto. Ci si dimenticò di Rose, di Deng in fin di vita in ospedale, dei tentennamenti. Arrivarono Belinelli, Nate Robinson e le “Big Balls”, una resa onorevole con gli Heat. Finì tra gli applausi.
Autunno 2013. «Oh, ma tu che sei lì, cosa si dice in città di Rose?». Un altro infortunio. Stagione finita, si disse. Ma lui, o chi (non) curava la sua immagine, pasticciò ancora. «Se arriviamo ai playoff, chissà» disse l’ex MVP. Lumicino di speranza, abbastanza per riaprire il tappo dei tweet. «Ma allora, torna?». Non tornò. Chicago, dopo una grande regular season, uscì contro i Wizards. Ci si tuffò nella calura aspettando Carmelo Anthony. Un’altra occasione persa.
Aprile 2015. Rose, finalmente, c’è. Convalescente, acciaccato, un po’ insicuro. Ma giocherà. È stata una stagione strana, difficile. La discontinuità, le palle perse, i pochi liberi conquistati. In equilibrio perenne tra la speranza di rivedere la furia che fu, e la constatazione che quella furia non tornerà. Eppure, scenderà in campo. L’ultima volta, in una serie di playoff, fu quell’orrenda gara-1 contro i Sixers. Tre anni dopo, esserci è già un buon risultato.
I Bulls, alla vigilia di gara-1, sono finalmente al completo, con quel quintetto che avrebbe dovuto dominare, e invece ha giocato assieme solo una ventina di partite. Nessuno sta bene—Hinrich, Noah e Gibson, infatti, sono già in dubbio per l’esordio, e lo stesso Rose è dolorante—ma tutti, prima o poi scenderanno in campo. Sono finiti gli alibi, si è alla resa dei conti. È forse l’ultimo treno per un gruppo tenace, costruito per vincere e costretto invece a sopravvivere.
Dall’altra parte ci sono i Bucks. Unica trasferta a portata di pullman, 150 km scarsi in una città grande un decimo di Chicago. «I Bulls giocheranno in casa tutta la serie» ha detto Jon Greenberg di ESPN, riferendosi al tradizionale dominio numerico di tifosi dei Tori nelle partite giocate a Milwaukee. Ma i Bucks quest’anno hanno sorpreso tutti. 41 vittorie, alla faccia del tanking. Oltretutto senza Jabari Parker, tra l’altro prodotto di Chicago DOC, sulla carta il giocatore più talentuoso. Merito di Jason Kidd e dei suoi quintetti strani, eclettici, difficili da marcare. Proprio come il loro giocatore simbolo, The Greek Freak, Giannis Antetokounmpo. 2.10 di braccia lunghissime e senso della meraviglia, ospite fisso degli highlights, che per la prima volta scende in campo in una serie playoff. Nel 2012, quando Rose cacciò l’urlo straziante, chissà dov’era in Grecia.
(4) TORONTO RAPTORS vs (5) WASHINGTON WIZARDS
Chi si accontenta gode (così così)
di Fabrizio Gilardi (@Fazzettino)
Se per un qualsiasi motivo avete smesso di seguire il campionato NBA nei pressi di Capodanno, questa è una serie che non vi aspettereste di trovare al primo turno dei Playoff. Il 29 dicembre infatti Toronto Raptors (24 vittorie e 7 sconfitte) e Washington Wizards (22-8) occupavano le prime due posizioni della graduatoria della Eastern Conference; inarrestabili in fase offensiva i primi (miglior attacco della Lega nelle prime 30 partite), impenetrabili difensivamente i secondi (quarto miglior rendimento), basavano le proprie fortune sulle eccellenti prestazioni delle rispettive point guard, Kyle Lowry e John Wall, entrambi al tempo credibili outsiders nella corsa al premio di MVP della stagione.
Bene, se durante le ultime 15 settimane non avete avuto occasione di seguire queste due squadre… bravi. Non solo non vi siete persi nulla, ma anzi, avete pescato un discreto jolly e risparmiato del prezioso tempo. Record dal 30 dicembre: 25-26 per Toronto (17° della Lega), 24-26 per Washington (19°). La mediocrità più assoluta. Coaching staff poco illuminati, infortuni, crisi mistiche, crolli di rendimento, aggiungete pure altre sciagure a caso, è probabile che almeno una delle due le abbia incontrate. Un vero e proprio scempio.
E allora perché dedicare attenzione a questa serie, tra tutte? Innanzitutto perché… i Playoff inizieranno proprio in Canada, domani pomeriggio alle 18:30 italiane. Prima partita, per di più in orario vantaggioso per noi europei, è impossibile dire di no. Non solo: entrambe hanno probabilmente già toccato il fondo e scavato ulteriormente, si può solo migliorare e tornare ai fasti di fine autunno. Forse.
Nonostante gli scontri diretti abbiano dato responso chiaro (3-0 Raptors), potrebbe trattarsi della serie più equilibrata e impronosticabile di tutto il primo turno ed offrire quindi uno spettacolo avvincente, per quanto non esteticamente appagante. La sfida tra Wall e Lowry è comunque da seguire, anche se a un livello di rendimento inferiore a quello del primo terzo di stagione. Bradley Beal 12 mesi fa ha dimostrato di gradire particolarmente l’aria primaverile e potrebbe replicare. Oppure perché… non lo so. Partire con aspettative basse a volte consente di apprezzare anche le piccole cose. Forse.