7) Houston Rockets
Ranking medio: 6.5
di Dario Vismara (@Canigggia)
Per capire gli Houston Rockets di questa stagione bisognerebbe avere capito chi erano nella scorsa. Il problema è che le 56 vittorie in regular season e la finale di conference falsano un po’ la valutazione di questa squadra, tanto nel bene quanto nel male.
Quelli che la vedono in maniera ottimistica pensano che se una squadra con tutti quegli infortuni (Howard ha saltato metà stagione, Beverley 26 partite, Jones 49, e stiamo parlando di tre titolari) è riuscita comunque a strappare il secondo record a Ovest, quest’anno non potrà che andare meglio.
Quelli che vedono il bicchiere mezzo vuoto, invece, sottolineano che sono stati i Clippers a suicidarsi in quella assurda gara-6 e che per tutta la stagione i Rockets hanno goduto di scarse percentuali degli avversari anche sui tiri da tre completamente smarcati. Insomma, il trucco c’è e si vede.
Sia come sia, i Rockets si ritrovano ora in un paradosso: sono chiaramente più forti dello scorso anno grazie all’aggiunta di Ty Lawson e i ritorni di Beverley e Motiejunas, hanno una delle squadre più profonde e atletiche di tutta la Lega, giocano un basket poco appagante per l’occhio, ma estremamente redditizio, e il GM Daryl Morey mantiene sempre la flessibilità per fare una trade che possa permettergli di acquisire un ulteriore giocatore.
Poi, parafrasando la Mastercard, per tutto il resto c’è il Barba.
Eppure è perfettamente plausibile che escano al primo turno di playoff lo stesso, perché solamente in questa fascia ci sono altre cinque squadre della loro conference, e due di queste sei saranno obbligatoriamente in vacanza a fine aprile. Si potrebbe costruire un “title case” per ognuna delle squadre che seguono, perché il margine di differenza è veramente infinitesimale.
I Rockets non avranno i favori del pronostico—e, diciamocela tutta, a maggio inoltrato vi fidereste davvero di Lawson e di Howard sempre acciaccato?—ma restano una squadra fortissima. Il fatto che siano la sesta forza della conference, almeno stando a questo ranking, vi fa capire quanto sia folle la corsa all’Ovest.
6) Memphis Grizzlies
Ranking medio: 6.1
di Francesco Andrianopoli
I Grizzlies, dopo aver fatto sudare Golden State forse più di chiunque altro negli scorsi playoff, si presentano ai nastri di partenza confermando quasi in blocco la squadra, gli obiettivi, le idee di gioco che li hanno caratterizzati in questi ultimi anni.
Le loro operazioni di mercato sono state, come sempre, silenziose, ma efficaci: è stato rifirmato Marc Gasol, sempre più pietra angolare della franchigia, e sono stati lasciati andare un paio di comprimari, sostituiti con due veterani in free agency che completano il roster alla perfezione. Brandan Wright porta centimetri, braccia lunghe, abilità nel giocare il pick and roll e un ulteriore upgrade difensivo per quello che era probabilmente il miglior reparto lunghi della Lega; Matt Barnes, per parte sua, arriva dai Clippers a garantire esperienza, "cazzimma", tiro da fuori ed efficacia a basso costo.
Nuovi innesti che sposano perfettamente la filosofia tattica dei Grizzlies: in una NBA sempre più indirizzata verso quintetti piccoli, ritmo alto, “pace and space” e tiro da tre, la squadra di Joerger continua a muoversi in direzione ostinata e contraria, con un basket d’altri tempi. Gioco in post, ritmo basso, pochi tiri da fuori, difesa arcigna. La squadra incarna quindi alla perfezione il classico cliché degli outsider, del "quelli che non vorresti mai incontrare": non hanno un gioco scintillante, ma sanno benissimo come far giocare male gli avversari e come trasformare le partite in guerre di trincea dove far valere la loro superiore forza fisica, difesa e disciplina.
In ottica playoff non possono quindi essere ignorati né sottovalutati, tanto più considerando che per la prima volta da molto tempo iniziano la stagione al completo e senza infortunati di lungo corso: ma rimane una grande incognita il fatto che possano mettere assieme abbastanza talento offensivo per poter puntare veramente al titolo, e non solo a un’altra stagione onorevole. Anche perché l’età media della squadra è ormai veramente alta, e questa potrebbe essere l’ultima stagione in cui questo nucleo può coltivare ambizioni da titolo.
4-pari) Cleveland Cavaliers
Ranking medio: 4.2
di Andrea Beltrama (@andreabeltrama)
O la va o la spacca, verrebbe da dire, se non suonasse orrendamente retorico. Ma per un gruppo che è riuscito a tirare fuori una finale NBA da una stagione costantemente sul filo del rasoio, ripetere il risultato dello scorso anno è l’obiettivo minimo. Le carte per farlo ci sono tutte. Lo spirito per superare le difficoltà, a quanto si è visto, anche. Infine, dopo una finale giocata con una rotazione asciugata all’osso, la squadra è di nuovo profonda, grazie al rientro effettivo di Kevin Love e a quello, più o meno prossimo, di Kyrie Irving.
Detto questo, la polvere da sparo rimane nell’aria, al pari dei teatrini che, per il godimento un po’ condiscendente dei media USA, hanno resto certi pezzi della scorsa stagione roba da serie tv di terza categoria, più che da corazzata NBA. E così, rimane logico chiedersi se il gruppo riuscirà anche a questo giro a uscire più forte dalle sfide e dalle sfighe.
Il tormentatissimo rinnovo di Tristan Thomposon riporta alla base anche l’ultimo pezzo. Si potrà discutere del valore qualità-prezzo, ma lui e Matt Dellavedova—per noi patetici hipster eroe di culto dai lontani tempi di St.Mary’s, quando, con la sua benedizione, gli spedimmo direttamente in stanza una copia di American Superbasket in cui si parlava di lui—sono le risorse bonus prodotte dalla cavalcata negli scorsi playoff. Portano energia, umilté sacchiana, legname sotto i tabelloni e sulle palle vaganti. E godono della fiducia di David Blatt, per il quale la sfida di cavare il sangue dalle rape è forse l’aspetto più stimolante della professione di coach.
Giusto, il coach. Che è stato deriso in lungo e in largo dal primo giorno di regular season, colpevole di non avere mangiato abbastanza fango nei bassi ranghi della Lega, e di un atteggiamento dove l’autocritica non l’ha mai fatta da padrone. Eppure, per essere uno che non aveva il minimo controllo sulla squadra, i Cavs degli scorsi playoff ci sono sembrati sinistramente simili alle squadre in missione ammirate sul parquet europei, anche all’interno dei confini italici. Se non per fluidità offensiva, almeno per dedizione difensiva, spirito di sacrificio e intelligenza nello sfruttare i punti deboli dell’avversario. Poi, certo, LeBron continuerà a rinnegare la sua autorità, come ripetutamente fatto in pubblico lo scorso anno. Ma resta la sensazione che, a questo gruppo, qualcosa Blatt sia riuscito a trasmetterlo. E non solo in negativo.
Si può finalmente ripartire. Il vantaggio sul resto dell’Est è lampante. E se Chicago si è mossa per colmarlo, questi Cavs, a ranghi pieni, dovrebbero essere cresciuti. Hanno il giocatore più dominante del pianeta, un lungo con infinite armi offensive, un play in crescita astronomica che solo un brutto infortunio ha potuto rallentare. E la classe operaia che li ha quasi portati in paradiso, al netto delle prodezze del proprio leader. C’è pressione, ma deve pure esserci ottimismo.
4-pari) Los Angeles Clippers
Ranking medio: 4.2
di Lorenzo Neri (@TheBro84)
Rubando una citazione a una delle più grandi serie tv mai trasmesse, Scrubs, definirei gli ultimi mesi della storia dei Clippers come delle vere e proprie montagne russe emotive per i tifosi di quella che a questo punto era la seconda squadra losangelina. Sono passati dalla grande euforia per la vittoria di una serie strepitosa contro gli Spurs all'estrema delusione per aver buttato via ben tre match point contro Houston nel turno successivo; si sono disperati per la partenza di DeAndre Jordan salvo poi gioire per il dietrofront dello stesso in seguito a quella che verrà ricordata per sempre come la Emoji War.
La firma di Jordan è stata un sospiro di sollievo per la dirigenza che per un attimo aveva visto crollare quanto di buono aveva fatto nel corso di questi anni. Il mercato ha rinverdito le loro speranze di titolo, con quella che sembra la miglior squadra nella storia della franchigia, a partire dalla panchina—imputata più volte come il grande punto debole della scorsa stagione, e quando schieri Türkoglu, Glen Davis e Hawes non può essere altrimenti—a cui è stata aggiunta l’esperienza del figliol prodigo Paul Pierce, la versatilità di Josh Smith che riacquista grande fascino con un contratto normale, e Lance Stephenson, giusto per non farsi mancare quel mix di genio e (tanta) sregolatezza.
Sono arrivati i rinforzi per la panchina.
Questo dovrebbe evitare che Griffin, Jordan e pure il cagionevole Chris Paul—reduce dalla sua unica stagione con 82 presenze, ma acciaccato nella serie contro i Rockets—siano costretti a fare ancora una volta gli straordinari, sfruttando una second unit che potrà finalmente essere usata in regular season, permettendo loro di poter arrivare ai playoff più sani e riposati.
La Western Conference è un campo minato, ma loro sembrano avere tutti ingredienti per fare bene—tre All-Star al picco della carriera, un JJ Redick che rimane tra i giocatori più sottovalutati per impatto all’interno delle partite, una panchina lunga ed esperta, ma anche imprevedibile (già, perché ci sono anche Jamal Crawford e i lampi sporadici, ma assassini di Austin Rivers) e soprattutto un coach esperto come Doc Rivers, intelligente tatticamente e abile a gestire un gruppo dalle personalità ed ego tra le più disparate. E hanno anche un nuovo proprietario facoltoso, appassionato e completamente pazzo che non sappiamo se reggerà l’urto emotivo qualora dovessero arrivare al titolo.
Perché dovrebbero fallire? Beh… sono pur sempre i Clippers.
3) Oklahoma City Thunder
Ranking medio: 3.7
di Fabrizio Gilardi (@Fazzettino)
«Quando Westbrook, Ibaka, e Durant sono sani, (i Thunder) sono almeno del livello di chiunque altro nella Lega, o anche meglio. Punto. Fine. E il resto dell’equazione è cercare di capire chi prende il resto dei minuti, quali quintetti metteranno in campo, quanto Durant giocherà da 4 e bla bla bla...».
(Zach Lowe nell’ultima parte del Lowe Post con Kevin Arnovitz).
Poi magari in sede di presentazione dei playoff si potranno analizzare anche temi tattici più profondi, ma se si tratta di regular season, avendo già trattato a dovere l’argomento Kevin Durant, questo non può che essere il punto di partenza per parlare dei Thunder. Lo era con Scott Brooks, lo sarebbe stato con qualunque altro allenatore, lo è ancor di più con Billy Donovan, che sembra aver già conquistato le proprie stelle garantendo loro la consueta libertà di improvvisazione, ma all’interno di un sistema che assicuri spazi di manovra più ampi, anche con il coinvolgimento più frequente dei lunghi in qualità di passatori e non solo di bloccanti.
#LetWestbrookBeWestbrook, una tripla doppia in chiusura di preseason, giusto per non perdere l’abitudine.
Per tornare al bla bla bla bla bla, c’è parecchia curiosità intorno ai due discussi acquisti della scorsa stagione: Dion Waiters è in contract year (che è un altro modo per dire ora o mai più) e il GM Sam Presti (ormai ci crede solo lui) spera che sia lui la risposta al Dilemma Della Guardia cui affidare il maggior minutaggio, in ballottaggio con Andre Roberson (grande difensore, ma senza tiro), Anthony Morrow (tiratore clamoroso, ma carente in difesa e comprensione del gioco) e Kyle Singler (abbastanza completo e versatile, ma in crisi mistica e comunque troppo poco atletico).
Enes Kanter invece è stato appena riempito di soldi e si alzerà dalla panchina, cioè almeno in teoria si troverà in campo contro le riserve avversarie, così da soffrire il meno possibile in difesa (peggior giocatore NBA o giù di lì) e avere maggiori possibilità di incidere a rimbalzo e in attacco (dove, invece, è decisamente valido). Il supporting cast è probabilmente il più vario e profondo che Russ e KD abbiano mai visto dalla partenza di Harden; se solo, per una volta, Fortuna decidesse di guardare da questa parte...
2) San Antonio Spurs
Ranking medio: 2.4
di Nicolò Ciuppani (@NickRamone)
Ero abituato a vivere in un mondo in cui, per quanto la mia squadra riuscisse a prendere i giocatori più forti sul mercato, gli Spurs erano comunque più forti prendendo gli scarti degli altri. Adesso che anche gli Spurs fanno la voce grossa sul mercato, mi sembra tutto profondamente ingiusto.
LaMarcus Aldridge era il pezzo pregiato di questo mercato estivo e gli Spurs hanno fatto i salti mortali per accaparrarselo, compresa la rinuncia a Splitter in cambio di nulla. Aldridge è un attaccante a 5 stelle (oltre che un difensore, rimbalzista e passatore ampiamente sottovalutato) che principalmente gioca in post, ma sa anche vivere di spot-up dal gomito, aka il territorio di caccia dei lunghi di San Antonio.
Ovviamente ci saranno degli aggiustamenti da fare, Aldridge dovrà tenere palla molto meno di quanto era abituato a Portland e dovrà rinunciare alla sua fame di accumulare statistiche e minuti. Ma l’anno scorso Aldridge tirava con il 51% quando teneva palla per meno di due secondi e solo il 41% quando la fermava per più tempo e nella motion offense degli Spurs questo dato rischia di essere letale.
Anche per gli altri Spurs si prospettano dei cambiamenti, principalmente a livello di schemi e spaziature per coinvolgere al meglio un giocatore abituato a giostrare nella stessa zona di Duncan, ma entrambe le parti coinvolte sembrano abbastanza intelligenti per affrontare questa situazione. Voglio dire: sono gli Spurs! Si sono già reinventati almeno 2-3 volte nel corso degli anni e Popovich è considerato da tutti l’allenatore che meglio di chiunque può plasmare il gioco attorno agli uomini che ha.
All’arrivo di Aldridge si affianca quello di David West al minimo salariale (rifiutando 12 milioni da Indiana e 3 da Golden State) e la conferma di Danny Green e Kawhi Leonard. Aspettatevi una partenza lenta, che è sia nel DNA dei texani e sia una necessità di reinventare posizioni e tempi in attacco, ma non fatevi ingannare da questo: ad aprile gli Spurs avranno il potenziale per annichilire qualunque quintetto piccolo, forse anche quelli in cui Draymond Green gioca da centro. E allora auguri a tutti.
1) Golden State Warriors
Ranking medio: 1.4
di Daniele V. Morrone (@DanVMor)
Se vincere in NBA è difficilissimo, ripetersi lo è ancora di più. I Warriors però si sono guadagnati il diritto di partire come favoriti per il titolo quest’anno. Il motivo principale è che nella scorsa stagione non hanno semplicemente dominato la stagione, l’hanno abbattuta con la forza di un uragano: la loro regular season da 67 vittorie è tra le prime dieci di sempre e nei playoff non hanno mai dovuto giocare Gara-7. Prendendo in prestito le parole di Flannery di SBNation.com, hanno avuto il giocatore migliore e la squadra migliore con un ampio margine, probabilmente anche il miglior allenatore, il miglior difensore e il miglior sesto uomo. E niente è cambiato in questo senso rispetto al giugno scorso.
Il roster è stato mantenuto intatto, pagando senza fiatare i soldi richiesti dal fondamentale Draymond Green (cosa che è costata solo l’indolore sostituzione di David Lee con Jason Thompson) e, vista che l’età dei principali interpreti in campo è ancora nella parabola ascendente della carriera, ci si può aspettare un’ulteriore crescita organica del gruppo, come scritto in estate da FiveThirtyEight.com.
Tolti Bogut e Iguodala per motivi di età, i vari Klay Thompson e Harrison Barnes hanno ancora margini di miglioramento (e occhio a Festus Ezeli che potrebbe rubare minuti a Bogut), ma volendo anche l’MVP Steph Curry che, come suggerito da chi segue da vicino la squadra, come Ethan Sherwood Strauss nel podcast Dunc’d on, ha passato il training camp sotto la supervisione del nuovo assistente Steve Nash per poter raffinare ancora di più il proprio gioco. E considerando il valore del roster, pensare che possa ulteriormente salire di livello fa quasi paura.
Anche se può sembrare strano guardando questo video della scorsa stagione, Curry può migliorare ancora come passatore grazie alla supervisione di Steve Nash.
In un’estate in cui poteva poi essere facile perdere motivazioni viste le celebrazioni da parte della stampa mondiale, la squadra ha reagito positivamente a chi, come il coach dei Clippers Doc Rivers, ha parlato di percorso facilitato dagli infortuni dei giocatori avversari o dal mancato scontro con Spurs e appunto Clippers. In uno strano caso di accuse al valore di una squadra per non aver battuto direttamente due squadre inferiori (tali erano stati i Clippers e gli Spurs in stagione), i due leader dello spogliatoio Curry e Green hanno intelligentemente utilizzato le insinuazioni dall’esterno per serrare le fila e sciogliere ogni dubbio sulla fame della squadra, rispondendo che “si può battere solo chi si ha davanti” e che la squadra non sta ricevendo il rispetto dovuto ai campioni in carica.
Anche senza la presenza costante dell’allenatore in sede di preparazione, per via dell’operazione alla schiena che ha fatto saltare il delicato momento del training camp a Steve Kerr, la squadra ha ormai il giusto livello di consapevolezza ed esperienza per poter riproporre da subito il gioco che ha messo a ferro e fuoco la Lega la scorsa stagione. E anche se magari non raggiungerà quota 67 vittorie, quando si arriverà al dunque dobbiamo sempre ricordarci che stiamo parlando della squadra da battere.