Si dice che ogni serie di playoff abbia la “pivotal game” in gara-5, ovvero la partita che segna uno spartiacque fondamentale e definisce la squadra che diventa favorita.
In un territorio fatto di mosse e contromosse estreme, dove il cambio sistematico con annessi e connessi ha fomentato il ritorno in auge dell’isolamento come soluzione ideale per produrre attacco, le squadre ancora coinvolte nei playoff NBA non hanno più segreti. Le risorse a disposizione dei coach si sono quasi del tutto prosciugate raggiungendo una sorta di saturazione tattica: difficile vedere nelle prossime partite qualcosa di davvero nuovo perché i giocatori sono pieni di informazioni. Adesso si tratta solamente di eseguire e sopravvivere fino al giorno dopo, fino alla prossima partita.
Le due Finali di Conference potrebbero essere derubricate come noiose, dato che su dieci partite disputate solamente in un caso - quello di ieri notte tra Houston e Golden State - si è arrivati a un finale in volata a fronte di nove partite il cui risultato finale è stato messo in cassaforte ben prima della sirena finale. Eppure le due serie sono state equilibrate, vibranti, ricche di spunti di interesse.
Con il gran finale che verrà scritto nei prossimi giorni possiamo fermarci un attimo e fare il punto della situazione per capire cosa può decidere le due serie in base a ciò che abbiamo visto nelle prime cinque partite.
Eastern Conference: Boston Celtics vs Cleveland Cavaliers 3-2
I Boston Celtics sono una squadra estremamente solida e organizzata votata all’esecuzione, in cui il talento non fiorisce dal nulla e non è fine a stesso ma inserito in un sistema manovrato in modo impeccabile dal genio e dal pragmatismo di Brad Stevens. Sospinti dal pubblico di casa e subito in vantaggio per 2-0 la serie sembrava finita, visto che i Cavaliers erano totalmente alla mercè dei biancoverdi e incapaci di dare un qualsiasi tipo di appoggio a LeBron James, ad eccezione di pochi pretoriani (come Kyle Korver).
A Cleveland le cose però sono repentinamente cambiate: i giocatori di ruolo sono finalmente entrati nella serie dopo i disastri combinati nelle prime due partite mentre i Celtics, come da prassi in questi playoff in cui hanno vinto solo una volta (per di più al supplementare) lontano da casa, si sono sciolti come neve al sole nel momento in cui un paio di giocatori hanno steccato l’approccio o sono incappati in una serataccia, manifestando in un colpo solo i limiti di un roster reso corto dalle contingenze e dagli infortuni.
Contro una squadra versatile composta da giocatori con “skill” e competenze per coprire più ruoli ed assegnamenti difensivi, i Cavaliers sono stati certosini e maniacali nel puntare l’unico giocatore su cui avevano un vantaggio in termini di tonnellaggio e centimetri, ovverosia Terry Rozier. I Celtics, per limitare quanto più possibile i danni e confondere i Cavaliers, hanno tentato in tutti i modi di dirottare Rozier lontano dalla palla con il cambio a tre, e quando non ci riuscivano non hanno comunque abbandonato il proprio playmaker predisponendo aiuti al limite del raddoppio arrivando dal lato debole.
Ogni volta in cui è stato possibile intercettare il mismatch prima che si concretizzasse, i Celtics sono stati bravi e precisi nel togliere ai Cavaliers uno dei pochi appigli da cui potevano trovare canestri facili. Quando non è stato possibile, è stato chiesto a Rozier di lottare per tenere la posizione e dare tempo ai compagni di organizzarsi con raddoppi e zone mascherate sul lato debole.
I Cavaliers, dopo aver subito inermi nelle prime partite, hanno processato le informazioni per trovare l’aggiustamento che potesse sbilanciare la difesa dei Celtics e aprire spazi vitali per l’attacco, migliorando le spaziature, muovendo più velocemente la palla, ma soprattutto tenendo impegnata la difesa sul lato debole per alterare i tempi degli aiuti difensivi.
Per i Cavaliers e LeBron James aprire il campo è stata la priorità più incombente e per farlo è stato categorico che il supporting cast provvedesse a scardinare la difesa asserragliata in area, pronta a togliere qualsiasi linea di penetrazione a James. Nelle tre partite di Boston è stato un tiro al bersaglio sbagliando tutto lo sbagliabile (25% dall’arco di squadra), mentre a Cleveland le percentuali sono cresciute esponenzialmente (44% di squadra) così come la fiducia del Re nell’armare la mano dei vari Smith, Hill, Love e Korver per aprire la scatola.
LeBron James non si può fermare, al massimo si può limitare. I Celtics nelle prime due partite ci hanno provato ricorrendo allo stesso sistema usato contro i Sixers: riempire l’area per evitare che possa mettere piede dentro il pitturato. James è forse il miglior giocatore al mondo a leggere il raddoppio con un secondo di anticipo, ma per funzionare è necessario che i suoi compagni riescano a segnare con continuità. Quando è successo, per James e i Cavaliers tutto è andato per il meglio.
Forti del ritrovato appoggio dei pretoriani, i Cavaliers si sono permessi il lusso di variare l’attacco, usando LeBron James molto lontano dalla palla, specialmente in gara-3 e gara-4. Non è un caso che in gara-3 i Cavaliers abbiano segnato 50 punti in vernice, 10 punti in più della media in questa serie.
James, lontano dal centro dell’azione, ha messo la difesa Celtics di fronte ad un bivio: trattarlo come un semplice giocatore sul lato debole mollando la presa, con il rischio di arrivare in ritardo se nuovamente coinvolto, oppure tenergli gli occhi di dosso aprendo voragini sfruttabili dai compagni. In entrambi i casi un rebus irrisolvibile.
Kyle Korver a 37 anni suonati è l’unico giocatore dei Cavs che permette di diversificare il gioco per essere un po’ meno James-dipendente, facendo sopravvivere l’attacco in quei pochi minuti che James tira il fiato in panchina. Non si tratta solo di segnare triple, anche perché la difesa dei Celtics lo tratta come un sorvegliato speciale e deve guadagnarsi ogni centimetro di spazio per prendersi un tiro che non sia ostacolato da almeno quattro mani, ma della forza di gravità che esercita quando si muove e soprattutto quando blocca.
Korver tocca pochi palloni e corre chilometri su chilometri in attacco senza vedere mai la palla. Ma la somma delle piccole cose che fa, anche le più impercettibili, è oro colato per l’attacco dei Cavaliers e per aprire spazi ai compagni. Inoltre, marcato a vista, spinto e strattonato sui blocchi, ha un tempismo irreale che molto spesso, al di là del blocco che sfrutta, è la chiave per liberarsi al tiro.
Come abbiamo ribadito spesso su queste pagine, l’attacco dei Celtics vive e prospera sulla capacità di muovere la difesa, costringerla a chiudersi in area e a riaprirsi sul perimetro per trovare buoni tiri, o meglio ancora, per attaccare attaccare nuovamente il ferro in un loop continuo in modo tale da creare crepe che colpo dopo colpo si trasformano in voragini.
Nelle prime due partite l’attacco dei Celtics è girato in modo celestiale, la palla ha sempre trovato l’uomo libero e la difesa è sempre stata costretta a inseguire. In trasferta le cose si sono complicate: la ritrovata verve difensiva dei Cavaliers, che ha coinvolto anche LeBron James, ha costretto i Celtics a uscire fuori dal tracciato, a improvvisare senza avere le armi per farlo. L’efficienza è scesa di quasi 16 punti su 100 possessi, generata da attacchi complessi che i Celtics hanno provato a risolvere con scelte di tiro affrettate o mal consigliate.
In attesa che Jayson Tatum lo diventi e tornino Kyrie Irving e Gordon Hayward dagli infortuni, i Celtics non hanno giocatori in grado di creare vantaggi da fermo, come ad esempio hanno i Cavaliers, i Rockets o gli Warriors, ma la qualità dell’attacco dei Celtics nasce dalla capacità di attaccare una difesa in movimento e sbilanciata. Attaccare sistematicamente il recupero difensivo leggendo il vantaggio da sfruttare è prerogativa del basket moderno e il segreto di pulcinella che ha permesso ai Celtics di sopravvivere alle assenze e gli infortuni.
Il pick and pop di Al Horford in questi playoff ha permesso ai Celtics di scavare o chiudere parziali, rubare canestri in situazioni di emergenza e mandare in tilt qualsiasi squadra si sono trovati di fronte. Non è un semplice gioco a due, ma un movimento che coinvolge tutti i giocatori per creare le giuste spaziature e costringere la difesa a fare scelte estreme in spazi larghi, impossibili da coprire contro un passatore e un lettore del gioco di quel livello. Contro i Cavaliers Stevens è ricorso alla sua arma tattica preferita per esporre Kevin Love alla triplice minaccia di Horford, in grado di aprirsi e tirare da fuori, mettere palla a terra e attaccare l’uomo in recupero o innescare la circolazione di palla. Nel momento in cui coach Lue ha deciso di ridurre i minuti da centro di Love, inserendo Tristan Thompson in quintetto e facendo tornare nelle rotazioni Larry Nance, ha trovato il bandolo della matassa per arginare il potenziale distruttivo del pick and pop.
Le spaziature al limite della perfezione fanno in modo che il pick and pop dei Celtics metta sempre la difesa nelle condizioni di avere la coperta corta: se la difesa contiene la penetrazione è quasi impossibile che dal lato debole arrivi una rotazione tempestiva a mangiare spazio all’attacco. I Celtics riescono a manipolare le scelte difensive mettendo due o anche solo un giocatore “dietro” la palla: si tratta solo di vedere quante rotazioni riescono a innescare per sfruttare tutti i vantaggi che si creano. I Cavaliers hanno in parte limitato il pick and pop dei Celtics quando hanno deciso di dare la priorità a Horford sul perimetro piuttosto che al portatore di palla: questo ha permesso ai vari Thompson e Nance di non concedere troppo spazio al lungo ex Hawks e dare modo ai difensori di ruotare in tempi e spazi migliori.
Dopo gara-5 l’inerzia della serie è tornata a pendere verso i Celtics, che sono ad un passo dal riuscire in un’impresa che ad Est non riusciva a nessuno dal 2010: sbarrare la strada verso la finale NBA a LeBron James. Allora furono proprio i Boston Celtics di Paul Pierce, Ray Allen e Kevin Garnett ad eliminare il Prescelto e far cadere i primi pezzi del domino che poi hanno portato James e i suoi talenti a Miami. I Cavaliers sono spalle al muro: non è la prima volta nella loro storia recente che si trovano in questa condizione, ma la loro gara-6 sarà delicata, per continuare a sperare ma soprattutto per non tornare a vivere i fantasmi del passato.
Western Conference: Houston Rockets vs Golden State Warriors 3-2
Sono stati spesi fiumi di inchiostro per alimentare la narrativa della serie tra Rockets e Warriors come sfida di concetti all’antitesi: da una parte il “Moreyball”, basato sulle abilità individuali di James Harden e Chris Paul nel creare gioco in isolamento circondati da tiratori per ampliare lo spazio di manovra; dall’altra una squadra che ha almeno tre individualità di spicco con due dei primi cinque giocatori della lega, ma fa del gioco corale, di un’intricata rete di passaggi, blocchi e movimento di uomini il suo mantra. È anche una guerra ideologica tra la nevralgica ricerca del tiro a più alta percentuale, sistematicamente al ferro o da tre punti, contro la ricerca costante del tiro migliore, senza disdegnare a priori una conclusione dalla media distanza.
Il prodotto di questo scontro è stato una serie rapsodica, la cui inerzia è passata di mano di partita in partita, di parziale in parziale. Ogni partita la squadra che è uscita sconfitta ha apportato un aggiustamento, tattico o concettuale, che ha permesso di recuperare il terreno perso, dando vita a una partita a scacchi per palati fini.
La definizione più calzante di come è stata impostata la serie dalle due squadre l’ha data un componente dello staff tecnico degli Warriors: “Backyard Basketball”, pallacanestro da cortile, quella giocata davanti casa con il canestro montato sopra il garage, in cui il fratello piccolo e minuto è continuamente schernito dal fratello maggiore e il suo unico obiettivo è stare davanti la palla per offrire la massima resistenza possibile, vada come vada.
La ricerca ossessiva dell’uno-contro-uno che contrappone il miglior attaccante al peggior difensore avversario ha reso queste prime cinque partite una guerra di trincea in cui le due squadre hanno accettato di esporre i propri peggiori difensori agli inevitabili mismatch.
Puntare sui pick and roll per forzarli al cambio e difendere un evidente mismatch è il mantra delle due squadre. I Rockets in particolare fondano tutto il loro attacco sul concetto di creare vantaggio in uno-contro-uno in spazi larghi e contro il peggior difensore avversario.
I Rockets rispetto allo scorso anno sono migliorati esponenzialmente in difesa, aggiungendo ai vari Ariza e Capela uno specialista come di P.J. Tucker, difensore polivalente in grado di calarsi perfettamente nella nuova mentalità difensiva “cambio su tutto” della squadra texana. Tuttavia contro una squadra come Golden State che riesce sempre a trovare il punto debole contro qualsiasi difesa non basta solo cambiare, ma farlo in modo aggressivo, reagendo continuamente e tempestivamente alla situazioni che Curry e soci con i loro tagli e blocchi riescono a creare. Tutto il lavoro di un anno con il mirino sempre puntato ad arrivare a giocare ad armi pari con gli Warriors è stato sublimato in una splendida gara-4, il capolavoro difensivo dei Rockets.
Esecuzione difensiva di altissimo livello per disinnescare gli Splash Brothers e inceppare, granello dopo granello, il flusso di gioco degli Warriors.
Per i Rockets cambiare su tutto sacrificando Harden e Paul in accoppiamenti sconvenienti è il modo migliore per circoscrivere lo sconfinato potenziale offensivo dei Warriors a una semplice situazione di isolamento, decisamente più facile da maneggiare. C’è una statistica che evidenzia questo fatto: gli Warriors viaggiano ad oltre 322 passaggi e quasi 50 assist potenziali di media, ma contro i Rockets le loro medie sono crollate rispettivamente a 273 e 39. Non è un caso se le tre sconfitte degli Warriors sono arrivate nelle partite in cui gli isolamenti hanno preso il sopravvento rispetto alla circolazione di palla.
I Rockets accettano il mismatch per indurre gli Warriors all’isolamento, ma è solo una parte del lavoro. La parte forse più importante è fare in modo che l’isolamento resti tale, anticipando forte i tiratori, facendo ingolosire Durant a giocarsi l’uno-contro-uno escludendo i compagni ed eventualmente andando in rotazione battezzando i giocatori ritenuti poco pericolosi da oltre l’arco.
Steph Curry nelle prime due partite ha fatto fatica a trovare continuità al tiro, Klay Thompson è stato incisivo a fasi alterne mentre il peso dell’attacco è ricaduto sulle spalle di Kevin Durant che in gara-1 e gara-2 è stato mostruoso, ma in gara-4 ha avuto le polveri bagnate colando a picco assieme ai Warriors, capaci di segnare la miseria di 12 punti complessivi nel peggior quarto periodo della stagione (e probabilmente dell’era Kerr).
Dopo la sconfitta in volata in gara-5, per gli Warriors è quindi tassativo tornare a imporre il ritmo, velocizzare l’esecuzione per attivare il proprio gioco fatto di tagli e blocchi random. Gli Warriors sono preparati a giocare contro squadre che usano il cambio sistematico come “scudo” per proteggersi dagli Spalsh Brothers, usando gli “split” (blocchi su lato debole con palla in post) lontano dalla palla e “slippando” i blocchi (ovvero facendo finta di portare blocchi per poi tagliare tagliare repentinamente a canestro) per causare errori e criticità nel momento in cui i due difensori coinvolti nel cambio effettuano il passaggio di consegne.
Anticipare le mosse della difesa, farla muovere fino allo sfinimento, tenerla costantemente impegnata senza dargli mai modo di resettare: questo è l’attacco dei Warriors che rende vulnerabile ogni difesa incapace di seguire tutti i tagli e gli eventi che vengono generati dal “flusso” dei Dubs.
I Rockets non sono famosi per la fluidità del loro attacco - anzi, sono una squadra che ha ridotto al minimo il numero di passaggi “inutili” abusando al contempo del palleggio per enfatizzare il loro gioco ridondante ma estremamente efficace, strutturato sulla capacità di Harden e Paul di generare attacco e tiri aperti per i compagni. I Warriors hanno in Iguodala, Durant, Green e Thompson jolly difensivi da spendere su ogni cambio, ma i Rockets in questa serie hanno scelto con cura i bersagli preferiti per i loro mismatch: Curry e Looney.
Kerr e il suo staff non possono far altro che accettare la situazione responsabilizzando al massimo i due giocatori, che peraltro stanno facendo un lavoro egregio nel stare davanti la palla con le unghie e con i denti, forzando Harden e Paul a guadagnarsi ogni canestro.
Per gli Warriors non è possibile “nascondere” Curry lontano dalla palla ed evitare che venga coinvolto. I Rockets lo cercano sistematicamente per forzare il cambio, anche con due o tre blocchi ad azione sulla palla fino a quando non riescono a forzare lo switch. Per Looney invece il cambio è accettato di buon grado, con il lungo ex UCLA che nel corso di questi playoff ha scalato rapidamente le gerarchie nel reparto lunghi degli Warriors, unico oltre a Green a poter reggere almeno due scivolamenti difensivi contro i piccoli avversari.
Ovviamente sarebbe un suicidio lasciare Curry e Looney in balia degli eventi e degli step back/crossover/fadeaway delle due stelle Rockets: nel corso della serie gli Warriors hanno adoperato due strategie diverse per limitare il mismatch e costringere i Rockets a pensare fuori dai propri schemi.
Innanzitutto hanno iniziato ad indirizzare Harden e Paul verso un lato, non necessariamente quello della mano debole, ma quello più “popolato” per veicolare le penetrazioni delle due stelle verso aiuti difensivi mirati, con la difesa già in pre-allerta.
Curry e Looney hanno avuto l’input di mandare l’attaccante nelle fauci di Green, Durant e Iguodala, ovverosia i difensori più versatili e dinamici in aiuto degli Warriors. È un lavoro di precisione e di grande collaborazione: Curry e Looney devono ritardare quanto più possibile la penetrazione per dare modo alla difesa di prepararsi e calibrare alla perfezione la modalità e l’intensità dell’aiuto per evitare che la penetrazione arrivi al ferro, o peggio ancora, che la palla arrivi pulita in mano ad un tiratore. È una questione di grinta ma anche di grande intelligenza cestistica: l’infortunio che ha tolto dai giochi Iguodala, uno dei migliori collanti difensivi della storia del gioco, è stato un macigno sulle spalle dei Warriors.
Infine, per evitare che si crei una continua caccia a Curry, gli Warriors hanno diversificato la copertura sui blocchi per esporlo al mismatch usando lo show difensivo, per non generare il cambio e togliere la palla dalle mani di Harden e Paul costringendo Ariza e Tucker a fare giocate che esulano dalle loro competenze tecniche.
Per attuare correttamente questa strategia è necessario essere chirurgici nelle rotazioni, precisi nei tempi dell’aiuto e solidi negli aiuto-e-recupero per produrre stop difensivi, perché la difesa è perennemente sbilanciata in tre-contro-due e due-contro-uno ed occorre “mangiare” tempo e spazio all’attacco. Il pick and pop, mostrato nelle ultime due azioni delle clip, è stato l’aggiustamento che ha permesso ai Rockets di mandare in difficoltà i fragili equilibri di questa tattica.
Gli Warriors sono usciti con le ossa rotte da gara-5, conclusasi da poche ore. L’ennesima grande prova difensiva dei Rockets ha condannato la truppa di Kerr a giocarsi il tutto per tutto alla Oracle Arena. Dopo aver fatto pentole e coperchi per grande parte dei playoff e in particolare in una commovente gara-5, la speranza è che i Rockets non debbano rinunciare a Chris Paul, uscito malconcio nel finale per un infortunio al bicipite femorale.
Boston e Houston hanno in mano il primo match point per porre fine all’egemonia che perdura da tre anni tra Cleveland e Golden State. Per timbrare il pass per le finali, però, è necessaria la prova finale di maturità vincendo in trasferta per chiudere definitivamente il discorso. Non sarà affatto facile perché niente fa più paura di un LeBron James messo spalle al muro e dei Dubs feriti nell’orgoglio e circondati dal pubblico di casa.
L’appuntamento con il destino per Celtics e Rockets è in questo weekend: ne vedremo delle belle.