La storia
Avevo quindici anni, ero in vacanza studio in un college della campagna inglese assieme ad altri 150 ragazzini italiani. Non era ancora il tempo di Wiggins e Froome, gli ultimi due vincitori (entrambi inglesi) del Tour de France, e in Inghilterra nessuno seguiva il ciclismo. Non c’era una televisione che desse la diretta della corsa, per noi italiani era inconcepibile. Con “noi” intendo un gruppo di 7-8 ragazzi che si era riconosciuto appassionato di quello sport da vecchi, incomprensibile a tutti gli altri. Qualcuno scoprì che c’era un canale che dava una sintesi delle tappe alle sei e mezza ora locale. Fu così che si creò quella specie di riunione quotidiana di questa strana massoneria, nell’unica sala tv di tutto il college, per vedere ogni tappa in una differita che nel nostro universo parallelo era inevitabilmente la diretta. Questo sfasamento temporale si ruppe il giorno in cui Pantani prese la Maglia Gialla a Ullrich, nell’unico modo nel quale Pantani poteva vincere un Tour de France contro Ullrich: dandogli nove minuti in un tappone con quattro salite. Qualcuno aveva telefonato a un genitore o un nonno in Italia, aveva saputo dell’impresa di Pantani a Les Deux Alpes e ci aveva riferito lo spoiler, spezzando così l’incantesimo. Fu così che vidi la più emozionante tappa di un Tour de France da quando sono nato, sapendone già l’esito. Era il 27 luglio del 1998.
Il 27 luglio del 2014 Vincenzo Nibali ha vinto il Tour de France, l’unico italiano a riuscirci dal 1965, a parte quella volta di Pantani nel ’98. Se non seguite il ciclismo, vi stupirete di come in questi giorni tutti faranno ossessivamente riferimento al passato: a quella vittoria di Pantani, più di ogni altra cosa, ma alla storia in generale. Nibali come successore di Bottecchia, Bartali, Coppi, Nencini, Gimondi e Pantani, gli unici italiani a vincere il Tour. Nibali che entra nel circolo dei vincitori dei tre grandi giri (Giro d’Italia, Tour de France, Vuelta a España), a fianco di Merckx, Anquetil, Gimondi, Hinault e Contador. Nibali che è il primo italiano a vincere il Tour de France correndo per una squadra straniera. Nibali che riceve in regalo la Maglia Gialla di Pantani dalla madre di Marco, prima di questo Tour de France, e che promette di riportarle la propria, quando l’avrà vinta, cosa che farà ora, in un bellissimo passaggio di testimone.
Questa insistenza sulla storia è la prima cosa da sapere, del ciclismo. Il ciclismo è uno sport che vive del passato, del confronto fra corridori di epoche diverse, di paralleli fra tappe lontane, di palmares pesati con diverse bilance, di quella-volta-che. Ogni corridore, ogni gesto, ogni paesaggio, è una continua madeleine. Nel calcio, il numero di scudetti vinti è solo una polemica fra juventini e anti-juventini o la risposta – «ma noi abbiamo vinto più scudetti!» – che davamo da bambini quando ci prendevano in giro per un derby perso. Invece ogni appassionato di ciclismo ha la sua classifica mentale d’ogni epoca: quanto vale vincere due Parigi-Roubaix, un Giro delle Fiandre e tre Milano-Sanremo? Di più o di meno che vincere un Tour de France e un Campionato del Mondo? Ognuno ha il suo criterio. In un vecchio post sul ciclismo, Marco Beccaria ricordava l’episodio della presentazione di Ruud Gullit al Milan: passando sotto a una gigantografia di Rivera che alzava la Coppa dei Campioni domandò «chi è quello?». Nel ciclismo, una cosa simile sarebbe impossibile. Ogni ragazzino che si mette in bici studia il passato, studia quelli a cui potrebbe somigliare e quelli che vorrebbe essere. Vincere un Tour non vuol dire aver vinto, oggi, una corsa; vuol dire essere riuscito a fare quello che, in passato, hanno fatto Garin, Gaul, Zoetemelk, e a ciascuno il suo, a seconda di qual è il paragone più calzante.
Questa fissazione sulla storia e sulle storie ha un’altra causa, che poi ne diventa anche l’effetto: il ciclismo è uno sport che si tramanda. Tutti gli appassionati hanno un padre ciclistico, quello che per primo li ha introdotti alla bellezza di vedere 200 persone che pedalano su una bicicletta e sembrano fare tutti esattamente la stessa cosa. Perché il ciclismo è uno sport molto, molto complesso, e sembra semplice. Non so se si possa dire che è il più complesso di tutti, sicuramente è quello con l’escursione maggiore fra quanto appare semplice e quanto è in realtà complesso. È purtroppo vero: chi si mette per la prima volta a guardare una tappa non capisce niente, non può capire niente. È per questo che c’è bisogno di maestri che si mettano lì accanto a te e ti spieghino, passo passo, quanto conta la squadra, quali sono le caratteristiche che distinguono i corridori (ma non c’è solo “pedalare”? No, ce ne sono almeno una dozzina), quali sono le strategie di corsa, perché una pedalata è diversa dall’altra. È un’operazione lenta, e non è per tutti.
In questa difficoltà di apprendimento è fondata la più banale delle dicotomie: quella per cui il ciclismo o-si-ama-o-si-odia. C’è un muro, e chi non lo supera vede solamente lo sport più noioso che c’è. Gli altri, quelli al di là del muro, pensano di aver capito qualcosa della vita che gli altri non hanno capito, e dicono cose come che il ciclismo è lo sport più romantico del mondo (il ciclismo è lo sport più romantico del mondo). È una nicchia, non tanto numericamente – il Tour de France è l’evento sportivo annuale più seguito al mondo – ma come convinzione di essere speciali e incompresi. Ed è una congrega con un codice, regole non scritte che tutti gli appassionati conoscono e rispettano: si fa sempre il tifo per il fuggitivo, per esempio, l’outsider che sfida una fatica quasi sempre inutile. Ancora più importante: se vanno in fuga un corridore che lotta per vincere un grande giro e uno per cui vincere la tappa sarebbe il risultato della carriera, il primo lascerà la vittoria al secondo. Sono norme di cavalleria che bisogna essere “dentro” per capire.
Naturalmente c’è una componente di narcisismo sciocco in questo autocompiacimento dell’esclusività, autoreferenzialità ben descritta in una citazione di Jacques Goddet, per 52 anni patron del Tour de France: «la bicicletta è apparsa nella nostra civiltà come un marchingegno magico, meraviglioso, di concordia: perché se i pedoni si ignorano, se gli automobilisti si insultano, i ciclisti si sorridono, si salutano e si uniscono». Per questo c’è un legame speciale fra appassionati di ciclismo, per questo era ovvio che quando Nibali ha alzato il trofeo del Tour mi arrivasse un messaggio che diceva: «sono diversi giorni che ripenso a quei pomeriggi al college seduti per terra a guardare Pantani».
L’eroe dai due mondi
Aveva quindici anni anche Nibali quando è partito dalla Sicilia per andare in Toscana a correre. E qui si incontrano due narrazioni: quella del campione predestinato, che percorre – com’è naturale – ogni passo della lunga, ma inevitabile, strada per il successo; e quella del quindicenne timido che è costretto a emigrare per seguire la propria passione e misurarsi con un mondo più grande di lui. Sono due narrazioni che si scontrano, perché la prima è quella dell’inevitabilità del talento, mentre nella seconda domina l’incertezza. Oggi che ha vinto la corsa più importante al mondo è probabilmente impossibile ricordarsi quant’è sottile la linea che segna questo crinale, e divide il predestinato dalla promessa non mantenuta.
Non c’è dubbio, però, che questo passaggio sia il cardine, la fibra, della storia di Nibali: l’emigrazione, la terra che lo piange e quella che lo accoglie, la doppia famiglia, i sacrifici, il ritorno in Sicilia da eroe. È un passaggio fondamentale per la sua identità – basta sentirlo parlare in quell’accento siciliano chiaramente sciacquato in Arno – ma ancora di più per la sua carriera. Il ciclismo è uno sport estremamente “geografico” ci sono paesini trentini di duemila abitanti che hanno partorito due vincitori di Giri d’Italia e intere regioni che non conoscono il ciclismo. Il “primo terrone a vincere il Giro d’Italia”, come disse lui, è arrivato nel 2007: Danilo Di Luca, che è di Spoltore, un paese abruzzese diverse decine di chilometri più a nord di Roma. Se ci pensate, è incredibile: una corsa che esiste dal 1909, che per decenni è stata la manifestazione sportiva più importante d’Italia, che è stata vinta 63 volte da un italiano, non era mai stata vinta da uno nato sotto Firenze.
Questa dinamica, dell’emigrazione sportiva, è poco raccontata a chi non conosce il mondo delle bici, ma costituisce l’adolescenza di tanti ragazzi che vogliono fare i corridori. Al sud non ci sono corse, non ci sono i gruppi sportivi, non c’è organizzazione, ma soprattutto non c’è tradizione. La tradizione che c’è in alcuni luoghi così riconoscibili agli appassionati: c’è il Veneto, ci sono le Valli lombarde, e poi c’è la Toscana, che aveva dato due dei sei vincitori italiani al Tour. In Toscana ci sono interi paesi dove si vive di solo ciclismo, uno di questi è Mastromarco di Lamporecchio, dove Nibali si trasferirà per fare sul serio. C’è un’intervista a Nibali, quando a sedici anni non ancora compiuti va in Toscana a fare la prima corsa. Per molti ragazzi del sud, specie fino a una decina d’anni fa, è così che si fa: si va al nord per un mesetto, si corrono tutte le gare in calendario, e si spera di essere notati. Nibali vince la corsa e viene intervistato dalla tv locale, si vede che vuole fare buona impressione. È una dinamica che tutti conoscono, nell’ambiente: «come mai questa gita in Toscana? Siete degli osservati speciali» gli chiede francamente l’intervistatore. Nibali risponde: «siamo venuti a fare qualche corsa qua, per provare più o meno come andavamo… in Sicilia, sì… andiamo pure forte, ma non è che mi lasciano tanto libero… quindi qua sopra, come dire, mi hanno visto per la prima volta». Da notare come Nibali cambi la persona, dal plurale al singolare, a metà della risposta: ha ringraziato la squadra, ha risposto alle domande, ora può parlare di sé. L’intervistatore segue il tracciato naturale del discorso e gli chiede: «il prossimo anno può darsi di vederti a correre in Toscana?», lui risponde «Si, sì, speriamo». Qualche mese dopo si trasferirà “là sopra”, al Gruppo Sportivo Mastromarco.
Nel 2002, a 17 anni, vince i campionati italiani juniores e la medaglia di bronzo ai Campionati del Mondo a cronometro. Già a quest’età ha uno stile di corsa molto offensivo, talvolta strategicamente opinabile. Vince comunque diverse corse anche negli under-23 e si capisce che è uno di quelli che ce la faranno. Gli dànno il soprannome di “Squalo dello Stretto”, comincia ad avere un suo fan club, i cui tifosi che si fanno chiamare “i CanNibali”. Nel 2005 passa professionista, nel 2006 vince la prima corsa, nel 2007 partecipa al primo Giro d’Italia facendo da gregario proprio a Danilo Di Luca e arrivando 19°. È già un po’ che si parla di lui come del futuro corridore italiano per le corse a tappe, una specialità – quella del corridore completo – in cui gli italiani mancano di esprimere un fenomeno da diversi anni, forse decenni. Il 2008 è il primo anno in cui va al Giro da capitano, arriva 11°. Partecipa anche al primo Tour e arriva 18°. L’anno successivo fa solo il Tour, arriva per la prima volta nei primi dieci in un grande giro: 7°. La sua crescita è lenta, ma costante.
Vuelta e Giro
Gli appassionati cominciano a conoscere il carattere di Nibali: molto sereno, alla mano, privo di quella traccia di malessere o di quella glacialità metodica che hanno spesso i campioni del ciclismo. Qualche volta si dice che è l’assenza di quel tratto da uomo-computer a impedirgli di essere un fuoriclasse, è la direzione che ha preso il ciclismo post-Armstrong. Non soltanto per questioni caratteriali, ma anche perché Nibali è un corridore completo, che potrebbe correre quasi tutte le corse, in linea o a tappe, del calendario ciclistico, quindi fatica a focalizzarsi esclusivamente su di una manifestazione per dare il massimo in quella (ciò che ha fatto Armstrong per 7 anni di fila).
Una cosa molto importante per capire il ciclismo contemporaneo è che non si può essere sempre al massimo, e conta moltissimo la preparazione: dato che i grandi giri sono 21 tappe concentrate nello spazio di 3 settimane è fondamentale avere il proprio “picco di forma” in quel determinato momento. Per questo è difficile essere davvero competitivi in due grandi giri nello stesso anno ed è quasi impossibile farlo in due giri consecutivi: dato che il Tour de France si corre dopo il Giro d’Italia e prima della Vuelta a España è quasi scontato che si sacrifichi la propria condizione, o ancor più spesso non si partecipi, agli altri due giri se si vuole fare il Tour. Per questo si può provare a correre Giro e Vuelta, che sono distanti diversi mesi, sacrificando tutte le altre corse (lo fece Contador nel 2008 perché sapeva di non poter correre il Tour de France), ma è considerata un’impresa d’altri tempi quella di vincere Giro e Tour nello stesso anno: l’ultimo a riuscirci è stato, guarda un po’, Pantani nel ’98.
Anche nel 2010 Nibali parte per fare il Tour, ma la defezione di un suo compagno lo porta all’ultimo minuto a fare il Giro d’Italia. Senza una preparazione mirata ottiene il primo podio: 3° dietro a Basso e Arroyo, vestendo anche la Maglia Rosa per qualche giorno. Salta così il Tour, e si presenta per la prima volta alla Vuelta: è un’edizione in cui gli avversari non sono irresistibili e Nibali è considerato uno dei favoriti. Si trova secondo, alle spalle di Igor Anton, un corridore onesto, ma lontano dall’essere un campione (mai arrivato nei primi 5 di un grande giro). Nonostante questo Anton sembra andare meglio di lui in salita, ma alla 14° tappa cade, si frattura il gomito, ed è costretto al ritiro. Nibali si ritrova in Maglia Rossa, la perde il giorno dopo in salita, ma la recupera a cronometro. È la prima grande vittoria per Nibali, primo italiano a vincere la Vuelta – corsa che gli italiani hanno sempre abbastanza snobbato – dal 1990. Resta però la considerazione sull’assenza di veri avversari: sul podio assieme a Nibali vanno Mosquera (poi squalificato) e Velits, due comprimari che hanno fatto al massimo un 30° posto al Tour. Sullo stesso podio, negli anni precedenti e successivi, saliranno diversi vincitori di Tour de France: Sastre, Evans, Contador, Wiggins, Froome.
L’anno dopo Nibali decide di riprovarci al Giro, arriva di nuovo terzo, ma per la squalifica di Contador viene promosso al secondo posto. Anche questa volta fa la Vuelta, ma trova degli avversari molto più forti e una forma peggiore, e arriva solo 7°. In tutto questo prova a partecipare a delle classiche, in particolare la Milano-Sanremo, la Liegi-Bastogne-Liegi e il Giro di Lombardia: ottiene qualche buon piazzamento, ma mai un successo. È il momento in cui di Nibali si comincia a pensare che abbia vinto la Vuelta, comunque il grande giro meno prestigioso, per un insieme di coincidenze e che possa finire a essere un eterno incompiuto: un ottimo corridore, ma non uno che può diventare il migliore al mondo, o comunque competere per un Tour de France. In questo scenario, una scelta potrebbe essere quella di insistere col Giro d’Italia: il lotto dei partenti nel 2012 non è il più titolato, e Nibali potrebbe finalmente avere delle possibilità. Invece Nibali decide di tornare al Tour: a dominare sono Wiggins e Froome, i due britannici dello squadrone Sky, ma Nibali è l’unico che riesce a star loro dietro in salita. È molto: vuol dire che è questione di percorso, di fortuna, di annate, di voglia. Non è decisamente il più forte, a cronometro perde diversi minuti, ma se la può giocare. Finisce terzo.
Un terzo posto al Tour de France vuol dire avere il potenziale per vincere il Giro. Così Nibali, che nel frattempo ha cambiato squadra ed è andato all’Astana, decide che è il momento di rinunciare al Tour e tornare al Giro d’Italia, quello del 2013, da favorito. Questa volta stravince. Prende la Maglia Rosa alla prima cronometro e si dimostra nettamente il più forte in salita. È la consacrazione, è la prima volta nei professionisti che gareggia da vero dominatore, correndo all’attacco ma essendo al tempo stesso in controllo della corsa. A questo punto, per puntare in alto, rimane solo il Tour. Si prepara, comunque, per la Vuelta e per il Mondiale, che quest’anno si corre nella sua Toscana. Sono due “near misses”, come si dice in inglese. Alla Vuelta arriva 2°, dietro all’incredibile exploit del 42enne Horner. Al Mondiale cade, si rialza, riesce a ritrovarsi nel gruppetto giusto, quello con i quattro che possono vincere, ma viene messo in mezzo dai giochi di squadra della Spagna, e finisce quarto.
Il Tour da outsider
È la volta del Tour, e sembra un Tour disegnato per lui: c’è una sola cronometro, ci sono molte salite, molti arrivi in discesa, una tappa sul pavé, cioè le pietre della Parigi-Roubaix. Nibali non è considerato il più forte, ma è uno di quelli che può sempre inventare qualcosa, e questo percorso gliene dà la possibilità. La stagione però non comincia bene, e Nibali viene sempre battuto dai suoi futuri avversari al Tour de France, Froome e Contador. Sembra appesantito, forse stanco dalla stagione precedente in cui ha corso due grandi giri e diverse altre corse. La squadra lo richiama addirittura, per scarso rendimento. Prima del Tour vince il campionato italiano, che vuol dire che indosserà la maglia tricolore per tutto l’anno. L’Astana, però, per ragioni di sponsorizzazione appiccica un quadrato tricolore sopra la normale maglia dell’Astana: una maglia di campione italiano così brutta non si è mai vista.
Menomale che Nibali ha preso subito la Maglia Gialla, così non abbiamo dovuto vedere troppo questo obbrobrio.
Prima del Tour Nibali è dato terzo, ma già alla seconda tappa se ne inventa una delle sue: dopo una salita non impossibile rimangono davanti in 21, i migliori. A due km dall’arrivo Nibali fa quello che si chiama uno scatto da finisseur, lui scatta a tutta e dietro ci mettono un po’ a organizzarsi per andarlo a riprendere. Non è una mossa da corridore che lotta per la classifica, è comunque dispendiosa, e in 2km di pianura non si può guadagnare molto: Nibali guadagna la Maglia Gialla e due miseri secondi su tutti gli avversari. Inoltre, prendere il primo posto così presto non è saggio: vuol dire costringere la propria squadra a lavorare fin dalle prime tappe, e affaticarla per quando potrà tornare utile. Nibali corre da attaccante, ma non da dominatore della corsa. Quello che pensano i tifosi italiani è: «dài, abbiamo una vittoria di tappa e qualche giorno in maglia: se Nibali arriva di nuovo sul podio possiamo essere soddisfatti».
Alla quinta tappa c’è il primo vero colpo di scena: è una tappa particolare, si passa sui percorsi della Parigi-Roubaix, cioè sul pavé, un manto stradale che può andare dai sampietrini alle pietre completamente sconnesse. Quando piove si finisce così. È raro che al Tour de France ci siano tratti simile, e sono un rimescolamento delle carte, perché i corridori per le corse a tappe non sono abituati a correrci: alcuni possono trovarsi bene, altri male. Nibali va che è una meraviglia. Contador non va, Froome cade e si ritira ancora prima del pavé. Si poteva ipotizzare che l’agilità di Nibali lo privilegiasse un po’ rispetto agli altri, ma non che fosse così forte. Tutti si domandano: «ma se è così forte sul pavé perché non ha mai fatto la Roubaix o il Giro delle Fiandre?». Probabilmente se lo domanda anche lui. Nibali arriva 2°, Contador 37°, Froome non arriva. In una tappa di pianura si è ritirato il vincitore dell’anno scorso e principale favorito, e Contador ha già 2:37 di ritardo su Nibali. È un distacco notevole, potrebbe bastare per contrastare il ritorno di Contador, che nelle corse precedenti si era dimostrato il più forte in salita. 2 minuti e 37, sono tanti. Possono bastare. Possono bastare? Me lo domando mentre corro sui dieci siti di scommesse a vedere cosa ne pensano i bookmakers. Nibali è dato a 2.20, Contador è dato a 2.37. È la prima volta da quel 1998 che un italiano è dato favorito per vincere il Tour de France.
Contador ha 16 tappe e tantissime salite per recuperare. Tre giorni dopo, sul primo arrivo in salita, guadagna 3 secondi su Nibali. Non sono tanti, ma sembra voler dire che Contador è il più forte. Ricontrollo cosa dicono i bookmakers: Contador è di nuovo il favorito. In questo momento il Tour de France che gli italiani sono preparati a vivere è uno di sofferenza, consapevoli che quei 2 minuti e mezzo andranno molto probabilmente a calare: l’obiettivo è che resista almeno un secondo. Per fare un paragone calcistico, è un po’ come quando il proprio avversario per lo scudetto sta perdendo 1-0 e si esulta, poi pareggia 1-1 e si è terrorizzati dal pensiero che arrivi anche l’1-2, con la differenza che qui ci sono due settimane in cui ogni giorno ci sono secondi da perdere, gol da subire. Il giorno dopo Nibali perde la Maglia Gialla per una fuga: non è un problema, può anche essere un vantaggio, così la squadra non si stanca. L’Astana, però, ha dimostrato impreparazione strategica o atletica. Non si sa qual è peggio, ma non è una buona notizia per Nibali. Il giorno successivo, la decima tappa, è la prima vera resa dei conti, il primo “tappone” con sette salite. Tutto suggerisce che sarà questo il momento decisivo per capire quali sono le gerarchie fra Nibali e Contador. Purtroppo non lo sapremo mai, proprio in quella tappa Contador cade e si ritira, Nibali vince facilmente la tappa. Comincia tutto un altro Tour de France.
Il Tour da dominatore
Io non sono abituato a tifare per quello che domina. Il mio modo di vedere il Tour de France è sempre stato quello di tifare uno che poi finirà fuori classifica, simpatizzare allora per un altro, che poi finisce fuori classifica anche quello. Accontentarmi di traguardi intermedi, appassionarmi alle imprese di un giorno, qualche volta una vittoria inaspettata. Non sono fatto per tifare quello che domina, per pensare “ha 5 minuti di vantaggio, speriamo che con la salita di oggi vada a 6”. Ma Nibali è simpatico, non ha per niente l’arroganza gelida del dominatore, in Francia si stupiscono che sia così gentile, disponibile, che risponda a tutte le domande, che sia così “umano”. Poi ha quel modo di correre all’attacco, così bello e dispendioso, che attrae il tifo. Lo tifano anche quel paio di amici snob che non tifano gli italiani (nel ciclismo è ancora più raro che nel calcio trovare qualcuno che non tifa per i corridori della propria nazionalità).
A questo punto, avendo affrontato solo i non irresistibili Vosgi, Nibali è nettamente il favorito. Certo, mancano ancora tutte le Alpi e tutti i Pirenei, ma in montagna è più forte degli altri. L’unico ostacolo è un imprevisto, una crisi di qualche tipo, una caduta. Alla prima tappa alpina Nibali, due giorni dopo, vince di nuovo e porta il proprio vantaggio sul secondo a 3:37, il giorno dopo a 4:37. Sui Pirenei vince un’altra tappa, il suo vantaggio arriva a 5 minuti e mezzo, poi 7 e rotti. Alla crono finale è ancora il più forte dei corridori di classifica, e arriva ad avere quasi 8 minuti di vantaggio. Nella passerella finale si può permettere di prendersela comoda negli ultimi km e perdere quella quindicina di secondi che fissano il suo primo posto con 7:37 sul secondo. Un vantaggio così grande si era visto una sola volta nelle ultime trenta edizioni.
Una vittoria così schiacciante ha anche alimentato qualche dubbio sulle sue prestazioni. Io ho sempre trovato fastidioso l’atteggiamento apologetico e complottista di alcuni appassionati di ciclismo nel periodo peggiore del doping, gli anni 90 e i primi anni 2000: certo, è strano che ci si sia occupati solo del ciclismo (Fuentes, il medico coinvolto nel più grande scandalo doping, ha sempre detto che i ciclisti erano solo una piccola parte degli sportivi che “curava”, che c’erano tennisti e calciatori, intere squadre come Real Madrid e Barcellona), ma che i ciclisti fossero dopati non c’è dubbio. Nel caso di Nibali, però, i sospetti sono abbastanza contraddittori: quello che gli si imputa è la continuità. Non un exploit di un giorno, ma la costanza di essere riuscito a fare per più giorni quello che ogni avversario, a turno, riusciva a fare un paio di volte. C’è una verità elementare: che Nibali è andato molto, molto più lento di come andavano i vincitori dei Tour de France con più sospetti (e certezze) di doping. La VAM (velocità di ascesa media) di Nibali è stata in tutte le tappe di diverse centinaia di metri orari più bassa, per fare la salita di Hautacam – quella dove ha espresso più watt – ci ha messo ben 2:45 di più di Riis nel 1996.
Nibali non ha mai fallito un test antidoping né è mai stato collegato ad alcuno scandalo. È chiaro che trovarsi senza avversari ha dato questa impressione di disumanità: se fossero rimasti tutti e tre a lottare per le prime posizioni sui secondi nessuno avrebbe pensato "sono tutti e tre dopati", così si è creata questa specie di un'illusione ottica. Del resto, a inizio Tour, quando Nibali non era ancora il dominatore, ci si lamentava del contrario: del perché quest’anno – visto che Nibali ha una faccia pulita – non si parlasse di VAM e medie come si era fatto negli anni precedenti.
Nibali è un corridore che è cresciuto gradualmente, non è esploso da un giorno all’altro: a ogni partecipazione al Giro o al Tour ha sempre migliorato la prestazione precedente. Ha avuto la fortuna di crescere in un ciclismo che aveva appena superato la tempesta, in cui ci sono molti più controlli, esistono il passaporto biologico e la gran parte delle squadre fa parte del Movimento per un Ciclismo Credibile. Il team di Nibali ha preso un impegno di trasparenza ancora maggiore, rendendo pubblici i suoi dati. È probabilmente vero il contrario, che questa severità ha fatto venire fuori il suo talento rispetto a corridori dalle prestazioni sospette che in gioventù lo sopravanzavano. Nibali stesso ha detto che, per questo, deve ringraziare l’antidoping: «Se non c’erano dei controlli così mirati e ferrei, forse non sarei qui oggi». La considerazione deve essere un’altra: il fatto che ogni corsa ciclistica debba subire lo scotto di questi sospetti è il prezzo da pagare per gli errori passati, ed è giusto conviverci.
È il migliore?
Se in questi giorni avete letto la stampa italiana è probabile che abbiate la percezione che Nibali vincerà facilmente i prossimi tre Tour de France. Non è così. Già dal prossimo anno sarà dura, con tre avversari che hanno almeno le stesse possibilità di vincere: Froome, Contador e Quintana (colombiano, quest’anno ha vinto il Giro, l’anno scorso 2° al Tour: sta provando a fare quello che ha fatto Nibali un anno dopo). Questo non vuol dire che quest’anno Nibali ha vinto per i ritiri degli avversari, a giudicare da come sono poi andate le cose avrebbe vinto ugualmente: ma questo era un Tour particolare, perfetto per un corridore come Nibali. Inoltre, è possibile che quest’anno abbia pianificato precisamente la stagione per il Tour, come provano a fare tutti, mirando ad avere il picco di forma all’ultima settimana della corsa, e che abbia tutto funzionano alla perfezione: questo spiegherebbe la ragione della peggior forma nelle corse di primavera. Non sempre si riesce così.
Nibali non è il migliore. Nel senso che non è il migliore scalatore, non è il miglior cronoman. Non è neanche quello che recupera meglio o che va meglio sugli strappi brevi. Però è il più completo di tutti: se vogliamo fare un paragone calcistico, è Vidal, non è Messi. Ha anche un significativo controllo della corsa, e negli anni ha maturato un ottimo tempismo. Ha un’agilità notevole, e una padronanza delle proprie forze e della bici fuori dal comune: non è certo un caso che su 12 grandi giri a cui ha partecipato non ha mai avuto una vera crisi o un ritiro. È una statistica molto rara, ha sempre concluso la corsa, e sempre fra i primi 20 (per alcuni sarebbe il risultato della carriera). Anche in questo Tour ha evitato le cadute, perfino quando l’imprevisto ha assunto la forma di una spettatrice scellerata che vuole farsi un selfie con lui.
Ma Nibali non lo è anche nel senso che non è fatto a forma di migliore. È naturale, umano, cordiale. È un-bravo-ragazzo. C’è la tendenza a trovare un eroismo nell’essere un antieroe, il banalissimo ossimoro dell’anormale normalità. In realtà Nibali è normale per davvero. È un antidivo, ma in un modo quasi noioso. È vero che non prova a fare il personaggio, ma probabilmente non ci riuscirebbe neanche se ci provasse. Non è carismatico, sul palco finale del Tour de France – il momento che ha sognato per tutta la vita – fa un discorso banale, con voce robotica, leggendo da un foglio che si è preparato. Non dice neppure che “non ha mai avuto un’emozione così grande”, dice che l’ha avuta “poche volte nella vita”.
Dopo la vittoria hanno mandato in onda un video di un’intervista a Nibali dell’anno prima, quando diceva che avrebbe puntato al Tour: io ci ho messo almeno 15 secondi a capire che quello non era il Nibali che aveva appena vinto il Tour de France, tanto è sempre rimasto compostamente sé stesso. Il momento più bello dell’ultimo giorno è stato quando alla Rai hanno intervistato il padre Salvatore: gli chiedono dei sacrifici che ha fatto per Vincenzo, e lui cambia discorso, dice «no, grazie a Carlo Franceschi, grazie alla Toscana». È un commento di una generosità davvero rara: un padre a cui stanno facendo le congratulazioni per il successo del figlio, e lui vuole condividerne il merito con il secondo padre, quello che ha accolto il Nibali quindicenne nella propria famiglia.
E, insomma, anche se costa dirlo a uno a cui starà sempre più simpatico Nibali di quanto gli stesse simpatico Pantani, Nibali non sarà mai Pantani. Non lo sarà mai per il tipo di ciclista che è: troppo completo, troppo equilibrato, a confronto del migliore essere umano che abbia mai pedalato su una salita (scusa, Charly Gaul). Non lo sarà mai perché non può colpire l’immaginario della gente come lo ha fatto Pantani, fortissimo e disperato, tanto da diventare l’epitome del ciclista maledetto. Chiunque abbia pedalato un po’ lo sa: quando stai faticando in cima a una salita (o anche solo a un cavalcavia) ci sarà sempre un vecchino che, per darti il suo incoraggiamento, griderà «vai Pantani!». C’entra, naturalmente, anche la morte prematura di Pantani, che ci ha privato di una persona creando ancora di più un personaggio: impedendo, nei fatti, un passaggio del testimone già difficile simbolicamente. Quando Pantani vinse il suo Tour de France, 33 anni dopo Felice Gimondi, fu Gimondi stesso ad alzare il braccio di Pantani sul podio di Parigi. Ad alzare il braccio di Nibali non poteva esserci Pantani.