Questa è probabilmente l'ultima stagione di Daniele Conti da calciatore del Cagliari, forse l'ultima da calciatore in assoluto. Di certo, è la sedicesima con la maglia rossoblù. Dai venti ai trentasei anni c'è una vita. Non solo per un calciatore.
Esattamente come gli era successo all'inizio dell'avventura sarda, quest'anno sta sollevando qualche mugugno, complice la tensione della lotta salvezza, l'età che inizia a pesare e i mesi di Zeman, il cui gioco ha bisogno di centrocampisti ben più dinamici. Cagliari non è una piazza che esalta i singoli, bada soprattutto alla maglia, può fischiarti anche se superi i record. D'altra parte non mi sembra che il capitano pretenda attenzioni particolari, anche se potrebbe far valere la sua storia. «Di ricordi non si vive», spiegava a inizio stagione. Emerge continuamente una modestia profonda nelle sue interviste, nei riferimenti che fa, per esempio nell'immagine che sceglie quando lo accostano a Riva: «È un onore sfiorare la sua carriera». Il suo primo figlio, Bruno, gioca a pallone ed è mancino come il nonno. Quando a Daniele chiedono (0:54) di lui, risponde: «Spero che segua le orme di mio padre». Ma qui la modestia non c'entra, questa è una storia di ombre.
1991, Daniele con la targa del miglior giocatore al primo Trofeo Milan Club Nettuno.
Nettuno è un porto sul litorale laziale, cinquantamila abitanti. Quando si arriva al confine del comune, i cartelli annunciano: «Città del Baseball». In effetti il Nettuno BC è una stella del baseball europeo (in bacheca vanta 17 campionati italiani, più di ogni altra squadra, e 6 Coppe Europa), per una tradizione cominciata a partire dagli sbarchi USA nella Seconda guerra mondiale e dalle basi militari sparse nel territorio.
Daniele nasce qui, il 9 gennaio 1979, mentre il padre sta affrontando una stagione di B in prestito al Genoa. Nasce qui dov'è nato suo padre e dove suo padre è sempre rimasto. Qui ha preso «con fatica» il diploma da geometra. Anche lui, come suo padre e come il fratello, ha sposato una donna di Nettuno. Per lui, Roma «è più rappresentata dai colori giallorossi che dalla città». Perché la capitale è lontana, settanta chilometri a nord.
Mentre raccoglievo il materiale per il pezzo, mi sono chiesto perché Daniele non abbia provato con il baseball. Poi ho scoperto che il padre, prima di essere soprannominato “Marazico” e diventare una bandiera della Roma, aveva cominciato con il baseball. E pare fosse un grande talento. A tredici anni il Santa Monica (in California) gli offrì una borsa di studio; a quattordici, nel 1969, disputò con il Nettuno BC una partita in massima serie. Ecco perché il baseball non avrebbe risolto il problema di Daniele.
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Lo speciale televisivo sull'addio di Bruno Conti al calcio giocato, 23 maggio 1991. In apertura il giornalista Michele Plastino scambia qualche battuta con i figli del festeggiato, Andrea e Daniele. Più avanti (3:10) Bruno, nel sottopassaggio prima di entrare sul campo dell'Olimpico, tiene le mani sulle spalle di Daniele, che ha i capelli tagliati come lui.
Quando Daniele era un bambino, Ancelotti lo teneva in braccio. Più avanti seguiva il padre agli allenamenti, aspettava la fine e insieme al fratello maggiore (classe '77) andava a calciare ai portieri.
Molti anni dopo, quel fratello è diventato un calciatore anche lui. Ala, come il padre. Ha avuto una carriera tutt'altro che lineare, Andrea Conti, iniziata con la Roma in A: nella stagione 1996-97, la stessa in cui esordisce Daniele, mette insieme due presenze—l'esordio è a Cagliari. Poi scende di categoria, ma non riesce a tornare su: dieci anni di pellegrinaggi in Serie C, da Lecco a Nocera Inferiore, cambiando otto squadre. A trent'anni trova una dimensione in Svizzera: al Bellinzona resta per sei stagioni (2007-2013, nella prima è allenato da Vlado Petkovic), gioca 112 partite tra prima e seconda serie, raggiunge una finale di coppa nazionale. Da due anni si è accasato al Malcantone, dove oggi è giocatore e vice-allenatore.
Daniele e Andrea al campo d'allenamento della Roma, con lo storico massaggiatore Giorgio Rossi.
Ho sempre pensato che un figlio debba fare un lavoro diverso dal padre, se il padre è stato un'eccellenza. In linea di massima, escludendo casi come quello, nel calcio, dei Maldini. A lungo ho pensato che Daniele Conti avrebbe dovuto scegliersi un altro mestiere. Perché lo vedevo con quella scritta “Conti D.” sulla maglia giallorossa e mi dicevo che essere figlio di "Marazico" non gli avrebbe permesso di tracciare la propria strada. Quando si è capito che a Cagliari non era andato solo a farsi le ossa, il mio scetticismo è diventato altro.
Daniele la strada se l'è tracciata. E l'ha fatto con l'unico materiale che poteva usare. È andato sull'isola, per scansare i detriti che coprivano il suolo—gli allori di un cognome che ha fatto la storia della Roma. E ha scelto di versare in sacrificio il sangue che parla di Roma e di quel cognome, anno dopo anno, fin quando il sentiero nuovo ha preso forma.
Bruno Conti ha giocato più di trecento gare con la maglia della Roma, ha vinto lo scudetto del 1983 e ha perso una finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Ha giocato da protagonista il Mondiale spagnolo del 1982 e di lui Pelé ha detto: «È il più brasiliano di tutti i brasiliani». Alla Roma è stato allenatore (stagione 2004-05), direttore tecnico, responsabile del settore giovanile.
Quando Daniele nel 2000 è stato convocato dall'Under-21, il CT era Tardelli, compagno di Nazionale del padre. Un'ombra, suo padre. Ma un'ombra anche la Roma. Perché anche se sulla maglia del Cagliari ci mette il 5, un numero diverso dal 7 del padre, gli chiedono comunque se sia un omaggio a Falcao e lui deve spiegare che l'ha scelto suo figlio. Il suo primo figlio, che ha chiamato Bruno.
Avere quel cognome, nella carriera di Daniele è stato, dice lui, «un disturbo. Perché tutti si aspettano che il figlio ottenga gli stessi successi del padre e i paragoni sono continui. Per fortuna io gioco in un ruolo diverso dal suo». E c'è anche un altro problema: «Si diventa più diffidenti verso chi ti circonda. Non sai mai se ti cercano per amicizia o per interesse».
Trovo piuttosto commovente il tentativo di smarcarsi da quell'ombra, nel 1999, la volta che dice di non poter ricordare i trionfi del padre: «Quando divenne campione del mondo avevo tre anni...». È la stagione cruciale dello sbarco a Cagliari, una stagione sciagurata, in cui Daniele verrà anche messo fuori rosa da Ulivieri. Il rapporto con l'allenatore è difficile, e a fare psicoanalisi d'accatto si direbbe che questo testimonia il problema con l'autorità. Dunque con il padre. Fuori rosa per problemi con l'allenatore (Bisoli, stavolta) ci finirà anche nel 2010, ormai adulto.
Si può uscire da queste cose?
Lo scorso settembre, Daniele racconta: «Ho sempre pensato di andar via il più presto possibile dalla Roma: sentivo il peso del confronto con mio padre. Lui era un’altra cosa: io non sono un campione». C'è molto, in questo passaggio. C'è anche il bambino Daniele che al presidente Dino Viola diceva di voler giocare nel Napoli, la squadra del suo mito, Maradona.
Con i colori della Roma, il 24 novembre 1996, aveva esordito in Serie A. Daniele aveva diciassette anni, quella era la drammatica stagione di Carlos Bianchi. Di lì a tre anni, fra campionato e Coppa Italia metterà insieme solo 6 presenze. Con un gol, nel 5-1 casalingo contro il Perugia, che diventa una corsa sotto la Curva Sud. Sulla panchina romanista siede Zeman. L'esultanza costa a Daniele un giallo che diventa rosso, essendo il secondo cartellino. Quella sera la passò insieme al padre, a guardare e riguardare l'azione del gol in videocassetta.
Nell'estate 1999 va in comproprietà al Cagliari. A fine stagione gli isolani riscattano l'altra metà. Quel primo anno finisce con una retrocessione, cui seguiranno quattro lunghe stagioni in B. Poi verranno undici stagioni consecutive nella massima serie.
Da subito dimostra le sue caratteristiche. È un regista classico, piuttosto lento, ma dotato di tecnica e visione di gioco. Nel 2013, secondo un grande playmaker come Eugenio Corini, Conti è il miglior regista in Italia dopo Pirlo. Un giocatore che si muove sempre al confine tra la grinta e l'aggressività: 183 ammonizioni, 8 doppie ammonizioni, 6 rossi diretti (prende cioè 43 cartellini ogni 100 partite). «Sono focoso» dice lui. Uno specialista delle punizioni, anche: terzo giocatore italiano in attività nella classifica dei gol su palla da fermo, dietro Totti e Pirlo. Nel 2012, lui stesso definiva Pirlo il miglior giocatore italiano in attività. E non nominava Totti.
Quella sola convocazione nell'Under-21 di Tardelli resterà l'unica esperienza in azzurro. Neanche una chiamata in Nazionale maggiore. Ma dice di non avere rimpianti: «la mia Nazionale è il Cagliari».
A Cagliari esordisce il 29 agosto 1999, contro la Lazio che sarà campione d'Italia, e segna. Eppure all'inizio non è facile neanche lontano dai luoghi di "Marazico". Appena arrivato in Sardegna lo chiamano “Su fill’e Bruno Conti”. Gli chiedono sempre del padre, a un certo punto dice: «Non chiedetemelo più».
A ottobre affronta la Roma, suo padre non l'ha fatto mai. Spiega: «In tanti dicevano che trovavo spazio per il cognome: ho scelto Cagliari per dimostrare quello che valgo». Quella è la settima presenza ufficiale con la maglia rossoblù: in poche settimane ha già superato il totale delle presenze che la Roma gli aveva offerto in tre anni.
I primi tempi a Cagliari non convince, viene spesso fischiato dai tifosi. Ha raccontato (4:10): «Andavo in giro e sembrava che avevo ammazzato qualcuno».
Oggi ha collezionato 454 presenze, 51 reti, 25 assist. Nel 2010 ha ereditato la fascia di capitano da Diego López. L'amministrazione comunale sta muovendosi per offrirgli la cittadinanza onoraria per meriti sportivi. Lui in casa tiene una bandiera dei quattro mori. «Questa maglia ce l'ho appiccicata sulla pelle» dice. E alla vigilia dell'ultimo Roma-Cagliari (lo scorso settembre) ha detto: «Casa mia non è Roma, è Cagliari».
In totale alla Roma ha segnato cinque reti, è il suo record personale. Ogni volta deve fare i conti con le conseguenze dei suoi gol. A gennaio 2010 papà Bruno scherza in questi termini: «Ho detto a mio figlio che proprio non mi vuole bene». A settembre dello stesso anno deve uscire per un intervento di Burdisso che lo costringe a 30 punti di sutura al ginocchio. L'anno successivo segna l'ultimo gol con cui punisce i giallorossi, e lui stesso dice: «Di solito dopo un gol alla Roma non sento papà per una settimana. Questa volta un mese».
I fischi dei tifosi giallorossi, quando si presenta all'Olimpico, sono quelli riservati ai traditori. Lui risponde: «Mi scivolano addosso». Forse è davvero un traditore, ma in senso edipico. E forse non c'era un altro modo di tracciare la propria strada.
Viene difficile pensare che le partite contro la Roma siano come le altre, per lui. Quando nel 2011 gli chiedono quale incontro nella sua carriera non avrebbe mai voluto perdere, sceglie quello contro la Roma di oltre cinque anni prima: «L'8 febbraio 2006. Vincevamo 3-2, perdemmo 4-3 con due rigori di Totti, il secondo al 91esimo». Totti, che potrebbe essere suo fratello, e che con suo padre ha un grande rapporto. A maggio 2009 i due hanno uno screzio in campo, si mettono le mani addosso. Al fischio finale Conti va a salutarsi affettuosamente con De Rossi, mentre con Totti si ignorano. Diranno poi di aver risolto tutto per telefono.
Recentemente ha dichiarato di aver ricevuto un'offerta dalla Roma, ai tempi di Spalletti, ma di averla rifiutata dopo aver fatto passare una notte: telefonò al padre, gli disse che preferiva Cagliari, se fosse tornato con lui dirigente si sarebbe sentito un figlio di papà. Negli anni ha rifiutato anche altri trasferimenti, come ha dichiarato: il Palermo, il Napoli, addirittura il Bayern Monaco.
Cagliari lo ha accolto quando fuggiva dalle ombre, non se la sente di lasciare l'isola. Così infrange tutti i record di presenze nella storia del club. Quello delle presenze in campionato con la maglia rossoblù, detenuto da Mario Brugnera (328), e quello delle presenze in Serie A che apparteneva a Claudio Nené (318).
A febbraio 2013, contro il Torino fa la sua prima doppietta in Serie A. E corre a bordocampo per esultare con il primogenito, Bruno. Pochi mesi dopo, a novembre dello stesso anno, un'altra doppietta, di nuovo al Torino, e un'altra corsa, stavolta dal secondo figlio Manuel, raccattapalle, per esultare insieme.
Daniele ha tre figli. L'ultima arrivata è Melody, quattro anni. I primi due sono maschi e giocano entrambi a pallone. Il primogenito, Bruno, a casa viene chiamato “Brunetto”. L'abbraccio a bordo campo con il secondo, Manuel, spinge nel novembre 2013 nonno Bruno a scrivere una lettera aperta a Daniele, pubblicata da L'Unione sarda:
«Quell’abbraccio racconta una famiglia, la nostra famiglia. Perché tutti conoscono il grande calciatore che sei diventato, in pochi però sanno quanto tu sia un grande uomo, un grande figlio, un grande padre». È l'occasione per un bilancio sugli anni trascorsi, il trasferimento dalla Roma: «Proprio in Sardegna, pensai, la terra in cui io e tua madre ci eravamo innamorati nell’estate del 1982. [...] Forse all’inizio, in cuor mio, speravo di rivederti presto con la maglia giallorossa, e quel gol al Perugia sotto la Sud resterà un ricordo indelebile. Quindici anni dopo è andata in tutt’altro modo. Una storia diversa, forse più bella, di sicuro speciale. Hai fatto una scelta importante, la più difficile, ma alla fine hai vinto tu. [...] Per anni ti sei portato sulle spalle quel cognome pesantissimo, ingombrante. Soffrivo quando la gente ti paragonava a me, non era giusto».
Dal gol in Roma-Perugia del 1998, dedicato al padre («Cosa diresti adesso a papà?», «No, niente... Apposta, volevo dedicare a lui questo gol, perché mi è stato sempre vicino, mi ha imparato tante cose»).
Il contratto che lo lega al Cagliari scade il 30 giugno prossimo. Daniele ha trentasei anni, l'età che aveva suo padre quando si ritirò dal calcio giocato. L'età che Bruno Conti aveva quel giorno che si appoggiava sulle spalle del figlio minore, prima dell'ultimo ingresso in campo.
Non so se Daniele Conti continuerà a giocare. Non so se abbia un valore simbolico proseguire o meno oltre l'età a cui il padre si è fermato. Non so se le ombre sono sparite, e in verità non so se possono sparire. Di certo è diventato un uomo, un padre a sua volta. Di certo restano i numeri, che ne fanno una bandiera in un luogo dove ha costruito da solo.