Il giorno in cui Aldair Nascimento Do Santos ha salutato il pubblico che era stato il suo pubblico per tredici anni - quel 2 Giugno del 2003 altrimenti chiamato “Aldair Day” - è come se si fosse chiusa una gioiosa parentesi celebrativa iniziata poco meno di due anni prima coi festeggiamenti per lo Scudetto. Non ero mai stato a una partita d’addio prima, e non sono andato a una partita d’addio dopo, ma del saluto a Aldair non ho souvenir particolarmente strappalacrime, semmai ricordo la dignità composta con cui ha percorso l’ultimo giro di campo, a luci spente, mentre veniva illuminato da un occhio di bue e tutt’intorno s’alzavano fiammate proto-imperiali. Non ricordo di aver provato la tristezza che si prova applaudendo un calciatore che mi sarebbe mancato: stavamo tributando i meritati onori a una bandiera tra le bandiere (perché i giocatori vincenti a Roma diventano tutti emblematici, per forza di cose). La Roma non avrebbe più assegnato il suo numero di maglia - fino all’arrivo di Strootman: ci è voluto un giocatore con il carisma di un generale per riassegnare la numero 6 - eppure mancava qualcosa a quel momento che intuitivamente assoceremmo all’addio di un giocatore amato: mancava l’anticipazione della nostalgia.
Chiariamo una cosa: nei suoi tredici anni di Roma Aldair ha vinto pochissimo. Ma possiamo metterla anche in questi termini: Aldair ha vinto meno di quanto avrebbe meritato. Una Coppa Italia alla prima stagione, contro la Sampdoria campione d’Italia in carica. Uno Scudetto, undici anni dopo aver scelto Roma come casa sua. La Supercoppa d’Italia successiva. Di quello che c’è stato nel mezzo, in quanto ad Aldair, abbiamo ricordi mai troppo intensi sul piano della potenza evocativa, mai eccessivamente drammatici, ma fortemente didascalici. L’evocazione più potente che Aldair riesce a suscitare è quella di una calma soffice, tropicale: la rilassatezza che sanno infondere le situazioni, e le persone, sicure di sé.
Il vuoto
Aldair ha impresso il suo solco nella nostra memoria lavorando per sottrazione.
Mi sembra assurdo, eppure coerente, che la frase più sensata su di lui l’abbia detta Jacopo Volpi durante la telecronaca di una delle sue primissime partite con la Roma, una prestazione per certi versi inedita e irripetibile, quella di Coppa Uefa contro il Galatasaray in cui segnò la sua prima - e a posteriori unica - doppietta italiana. Per il cronista Aldair era «il brasiliano silenzioso e insostituibile che si sente soprattutto quando non c’è».
Nella carriera stessa di Aldair, a ben vedere, la necessità di riempire un vuoto è stato il principale carburante. Quando Carlos Mozer, centrale difensivo titolare della Seleção ai Mondiali di Messico e colonna del Flamengo, ha deciso di tentare l’avventura europea al Benfica, Aldair - all’epoca poco più di una promessa delle giovanili - si è trovato catapultato al centro della difesa dei rossoneri. Nato a Banco de Vitória, a una manciata di chilometri da Ilhéus (che era riportata come sua città d’orgine sull’album delle figurine Panini), quindici fratelli e un padre spesso lontano da casa, Aldair non ha mai detto di cercare nel pallone la possibilità concreta di scappare dal suo destino, dal vendere noci di cocco e piccoli manicaretti sulla strada che collega Itabuna e Ilhéus. Avrebbe voluto giocare in attacco, perché impazziva per Roberto Dinamite, ma il provino al Vasco da Gama, la squadra del suo idolo, lo avevano scartato. Forse è in quel momento che ha deciso di capovolgere aspirazioni e approccio, trasformarsi in un difensore silenzioso, nel cloridrato di timidezza che avremmo conosciuto in Italia.
Leandro, la storica colonna difensiva del Mengão, gli ha detto poco prima che Aldair esordisse con il Flamengo: «Devi solo essere esattamente quello che sei. È l’unica maniera di arrivare lontano». Per vocazione, caratteristiche di gioco, temperamento e atteggiamento in campo, Aldair è diventato sia quello che possiamo considerare come un antenato dei centrali difensivi moderni (grande tecnica e capacità di letture), sia un leader opaco, di quelli che si muovono nell’ombra. Capace di frapporsi all’avversario facendo il suo “mestiere”, ma anche di involarsi in solitaria, dando libero sfogo al suo corredo genetico eminentemente brasileiro.
Il tempo
L’aspetto più interessante di Aldair come difensore, ma allargando l’inquadratura forse anche come uomo, è il rapporto che ha deciso di intrattenere con il tempo. Non ha avuto fretta di esplodere, di bruciare le tappe, e ha saputo assoggettare il flusso dei mesi e degli anni alla sua volontà, conformarlo al percorso che riteneva più adeguato. Forse è per questo che il tempo, poi, avrebbe deciso di ricompensarlo con una carriera longeva oltre il pensabile.
Per giocare con il Flamengo si è trasferito nella Baixada Fluminense, ai margini della metropoli carioca, in un quartiere popoloso, povero e violento come Duque de Caixas, antico feudo del temuto e leggendario Tenorio Cavalcanti. In un numero d’antan della rivista Placar lo raccontano come un ragazzo che «non fuma, non beve che una birra ogni tanto, non si butta nel ballo e riduce i suoi lazzi ad alcune uscite al cinema con la fidanzatina Maria de Penha, 17 anni». Lo ritraggono sollevato, corpo inerme come senza vita, rielaborazione surrealista di una Pietà trionfante, dalle forti braccia di Zia Cocota, otto volte campionessa di judo in vari tornei della città di Rio e vice-campionessa brasiliana dei pesi massimi nel 1981, con la quale vive in un monolocale dimesso.
Neppure dieci anni più tardi sarebbe stato tra gli interpreti più originali del suo ruolo: in ogni sua azione Aldair trasudava tempismo. Non potendo controllare la velocità, per ragioni naturali, Aldair ha studiato i segreti del tempo perfetto per un intercetto, per l’inappuntabile scelta di tempo di uno stacco di testa con cui spazzare l’area, per un intervento chirurgico. Per il resto dei minuti che trascorreva in campo si muoveva etereo, come se non ci fosse davvero, con un passo litaniaco, l’andatura di chi non ha bisogno di imprimere accelerazioni o correre ai ripari.
Sapeva dominare l’avversario senza per questo dover ricorrere all’uso della forza, della fisicità. La sua consistenza era fatta del ticchettio di cui sono fatte le lancette del cronometro, e il filo sul quale rischiosamente passeggiava, coi calzettoni bassi e i parastinchi in mostra, le gambe snelle e sinuose come canne di giunco al vento, era quel filo che separa le opposte sponde della puntualità e del fuori tempo.
Ma il tempo è una materia complicata da maneggiare: se ti sfugge dalle mani, come la colomba che simboleggia l’amore nei motteggi popolari, scappa via inesorabile.
E quando perdi il tempo, quel tempo è irrimediabilmente destinato a non tornare più.
Per questo porteremo sempre negli occhi lo scivolone goffo, l’accartocciarsi a terra dopo aver sbagliato il tempo di un anticipo, che precede il tiro a incrociare di Vavra, in un Roma-Slavia Praga tristemente famoso per i tifosi giallorossi. Ma anche l’azione in cui il messicano Hernández lo irride lasciandolo franare a terra, come respinto da un campo magnetico, è eloquente di questa stessa fallibilità di Aldair.
In Europa è arrivato, puntualmente, per sostituire al centro della difesa del Benfica Carlos Mozer, passato al Marsiglia. Quando l’anno successivo la Roma l’ha acquistato, la prima partita europea è stata, puntualmente, contro il Benfica stesso. Alla rapidità con cui negli anni si sono susseguiti i cambiamenti, di contesto e condizioni, Aldair opponeva una calma troppo facile da confondere con l’atteggiamento, molto romanesco, del nato stanco. Che non era neanche vera indolenza, sembrava più limitatezza. Una sfumatura che ricordava Andrade, e che faceva storcere parecchi nasi anche ai più ottimisti, fiduciosi o sognatori, che a Roma sono spesso parte della stessa categoria.
Sarebbero bastate alcune incursioni offensive sbalorditivamente a tempo, e una naturale predisposizione all’impostazione, alla sventagliata mai banale né fine a se stessa, per mostrare a tutti la sua capacità manipolatoria della materia ineffabile di cui è composto il tempo. Una capacità magari non appariscente, ma di una concretezza euclidea.
Saudade
A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, Aldair ha giocato un ruolo di primo piano nella rincorsa brasileira alla conquista del continente americano, prima, e del mondo, poi. Il processo con cui si è eretto a pilastro della difesa della Seleçao è stato graduale, ponderato; a primo acchito casuale, eppure implacabile.
Nella Copa América dell’89, giocata in casa, aveva fatto il suo ingresso nell’undici titolare dopo la prima partita: per le successive sei il Brasile non avrebbe subito neppure un gol, tornando ad alzare una Copa che mancava da quarant’anni. Comprendere il ruolo di Aldair nella costruzione, insieme a un altro feticcio come Marcio Santos, di quello che è forse stato il miglior pacchetto difensivo della storia carioca significa abbracciare la saggezza della Kaballah, afferrare dov’è che va il mondo e muoverci nella stessa direzione, cercando di capire fin dove siamo disposti a seguirlo. A Pasadena ha alzato la Coppa del Mondo, nel ‘94, al termine di un torneo in cui non partiva neppure come riserva del titolare, ma come sostituto del rincalzo. Sono stati gli infortuni in serie di Ricardo Gomes e Ricardo Rocha ad aprirgli la porta per il campo, senza una reale progettualità da parte di Zagallo.
In coppia con Marcio Santos, Aldair ha dato vita a una figura ibrida, simbiotica: guardate che movimenti compiono, insieme, nell’azione qui sotto contro gli USA. Se mostraste questo spezzone a un ragazzo che ha sentito solo parlare della leggendarietà dell’attacco stellare del Brasile del ‘94, potrebbe tranquillamente scambiarli per Bebeto e Romario. Aldair e Marcio Santos (come Bebeto e Romario) era una di quelle coppie la cui specialità consiste proprio nel funzionare perfettamente insieme.
Marcio era più predisposto, per indole e prestanza, alle incursioni in area, alla ricerca del gol; Aldair, invece, sapeva essere ligio fino all’asservimento al suo credo e metodo, che erano poi semplici da riassumere: anticipare con la maggior classe possibile l’avversario, intonare il primo arpeggio della bossanova d’attacco. Come fosse un tutt’uno.
Roma, e la Roma, non sono mai state il palcoscenico ideale per quell’archetipo di calciatore brasiliano tutto magia estro reti che si gonfiano per il quale, istintivamente, sentiamo l’obbligo morale di sviluppare un sentimento di fascinazione. Per ognuno degli ultimi tre decenni, a pensarci bene, il marchio infamante della delusione giallorossa più inattesa, e forse per questo più dolorosa, indossa una sbiadita casacca verdeoro: Renato Portaluppi, Fabio Junior, Adriano.
Oltre che affermarsi come schola gladiatoria di prim’ordine per estremi difensori, la Roma sembra piuttosto aver coltivato un’oasi per brasiliani pacati e riflessivi; il che non significa, non necessariamente, senza personalità. Calciatori che di carioca, nel senso del termine con le più ampie e fallaci connotazioni, avevano la sensibilità nel tocco del pallone ma non, probabilmente, la testa, o meglio la visione del mondo intorno al pallone. Il calcio brasiliano a Roma, nella Roma, è un monolite di raziocinio, geometricità, riservatezza spesso scambiata per timidezza o pavidità. Il calcio brasiliano della Roma è quello di Paulo Roberto Falcao. O, appunto, di Aldair.
Tradimenti del tempo
Come un cavallo ben domato al quale ti affezioni nonostante in vecchiaia cominci a fare le bizze quando lo cavalchi, il tempo ha iniziato a disarcionare Aldair con regolarità proprio quando era sul punto di detenere tutti i segreti con cui domarlo. Alla duecentonovantasettesima (forse è più semplice a numero, anche se fa meno effetto: 297esima) partita con la maglia della Roma, tre partite prima di un traguardo storico che poteva coincidere con l’altrettanta epocale conquista del terzo Scudetto della storia giallorossa, il ginocchio l’ha tradito.
Era il dodici maggio, non avrebbe mai fatto in tempo a guarire per la partita contro il Parma di un mese e qualche giorno più tardi. Dopo il fischio finale, dopo che la sua Roma aveva finalmente coronato il sogno di una vittoria troppo spesso sfuggita di mano, si è andato a rintanare nello spogliatoio.
Nelle immagini dei festeggiamenti sembra davvero vergognarsi, Aldair. Lo diresti appartenere già per metà al mondo dopo il calcio, quello in cui sotto la camicia che indossi con il completo i muscoli non hanno ancora perso tonicità. Tommasi lo solleva, tradendo uno sforzo sovrumano, mentre tutt’attorno i compagni intonano il coro che ha scandito, sul campo, ogni giropalla difensivo di Pluto, ogni bocciolo d’impostazione dell’azione, ogni gesto di ringraziamento verso la Curva. Tiene lo sguardo basso, come chi al proprio compleanno si rinchiude in una bolla di timidezza, prima di soffiare sulle candeline.
Poi accenna un saltello, si morde il labbro, allarga le braccia a tempo: pare sforzarsi di sorridere, di essere felice.
Lo stesso mood lo ha nell’ultima partita ufficiale, contro il Chievo nel 2002, quando, ricorda, non avrebbe mai voluto andare a salutare la Curva.
Lo trascineranno quasi a forza, innalzandolo come si fa con le statue sacre durante le processioni; nella postura con cui siede sulle spalle dei compagni sembra tradire una schiva ribellione, quella di chi crede che non ci sia bisogno di immortalare un momento, davvero, perché il tempo come fai ad imbrigliarlo, è impossibile e anche ingeneroso.
L’ultimo tentativo non riuscito di piegare il tempo alla sua volontà l’ha compiuto che aveva già abbandonato il pallone da qualche anno. Si è fatto convincere da Massimo Agostini e ha accettato la sfida di tornare a giocare, foss’anche per una sola partita, con i sanmarinesi del Murata, guidarli nella loro prima storica partecipazione ai preliminari di Champions League, nel 2006. Aveva quarantuno anni.
«Non ero già più un calciatore», confessa Aldair, anche se in quei momenti, almeno un po’, deve aver creduto possibile fermare per novanta minuti le lancette dell’orologio biologico che scandisce l’inizio e la fine di una carriera.
Quando si presenta al campo d’allenamento i nuovi compagni ammutoliscono. Dev’essere straniante la sensazione di avere un campione del mondo al tuo fianco, a fare le ripetute, se sei un elettricista, o un cameriere. Ma credo cha anche a ruoli invertiti ti si sollevi dentro più di un dubbio: cosa ci faccio, qua, esattamente? Deve esserselo chiesto, Aldair.
Nei quarantacinque minuti in cui resta in campo entra in ritardo su un avversario finlandese, al quale chiede subito scusa come se i sensi di colpa, o d’inadeguatezza, gli sfuggissero fuori dai parastinchi. E anche quando amministra un pallone sul vertice basso della sua area, controllandolo con un gioco di gambe farraginoso, non è propriamente vero che “infonde sicurezza”.
Si infortuna a fine primo tempo, con i suoi in vantaggio. Verrano rimontati, e poi sconfitti. Al fischio finale passeggia per il campo a piedi nudi, come su Murata fosse scivolata dalla vetta del Titano dritta sulla spiaggia di Copacabana.
Come dice Denis Casadei sul finire del servizio che racconta quest’esperienza sportiva - non si capisce quanto sbilanciata sulla boutade situazionista - «ci vorrebbe una telecamera vicino al cuore», per capire il suo stato d’animo.
Il 2 Giugno del 2003 Francesco Totti, sul suo blog, ha pubblicato una lettera aperta ad Aldair. Diceva «mi hai visto crescere e maturare come giocatore, e spero anche come uomo. Mi lasci il testimone, come hai detto pochi giorni fa, ma solo virtualmente, perché credo che nella Roma, il posto per te, ci sarà sempre». Facebook non esisteva ancora: sono righe che avremmo condiviso, certo, che avrebbero raccolto milioni di like, probabilmente.
Ma d’altronde si sa, sic transit gloria mundi: la maglia numero 6, oggi, è già tornata sulle spalle di un giocatore della Roma e i tifosi della Roma continueranno a serbare, dei loro Capitani passati, man mano che diventeranno parte di un mare magnum di rimembranze sempre più confuse e lontane, ricordi sempre meno indelebili rispetto alla lucentezza brillante di quelli presenti, o salutati di recente.
Il tempo, come il regolare infrangersi delle onde sulla battigia, ci restituirà Aldair ogni volta che ci imbatteremo in un centrale che non sa come si imposta l’azione dal basso, che non infonde sicurezza al reparto, che non ha lo stile che aveva lui, non scontroso o ritroso, ma sinceramente timido.
Chissà che non sia vero, come diceva quel cronista, che l’insostituibilità è un concetto che si palesa con la voce più grossa, quando viene a mancare.