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17 ago 2016
Come la boxe ha salvato Claressa Shields.
(articolo)
14 min
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«Ehi ragazza, perché vuoi boxare?»

«Sono solo stanca di perdere»

Un ring, tre sacchi pesanti, nessun sacco veloce. E un radiatore rotto che versa acqua sul pavimento. Ogni sera nel seminterrato della Berston Field House di Flint, Michigan, Jason Crutchfield, campione cittadino del 1983, insegna boxe a due dozzine di giovani volenterosi. Arriva in palestra poco dopo le cinque e mezza del pomeriggio, terminato il suo turno di lavoro in un’azienda locale che installa cavi. Fa l’allenatore per pura passione, senza uno stipendio. Nel suo cuore, però, ha sempre albergato la speranza di veder crescere davanti ai suoi occhi, grazie ai suoi consigli, un campione. «Non ho mai pensato che sarebbe stata una ragazza».

Flint, Michigan

La città di Flint deve la sua fama all’industria automobilistica. Nel 1908 William Crapo Durant, pioniere del settore, vi fondò la General Motors e per un certo periodo di tempo tutte le Buick e le Chevrolet venivano costruite lì. A Flint sono nati il cestista JaVale McGee, l’attore ed ex giocatore di football Terry Crews e il regista Michael Moore che ha girato il suo documentario d’esordio proprio lì. È del 1989, si chiama “Roger & Me” e racconta dei suoi falliti tentativi di intervistare Roger Smith, l’allora amministratore delegato della General Motors.

In quegli anni la chiusura di undici stabilimenti a Flint avrebbe portato al taglio di 30.000 posti di lavoro, e per quell’angolo di Michigan sarebbe stato l’inizio della fine: è considerata ancora oggi una delle città più invivibili d’America a causa del suo altissimo tasso di criminalità.

Ed è in questa terra desolata che il 17 marzo del 1995 vede la luce Claressa Shields. Suo padre, Clarence “Bo Bo” Shields, da giovane era un pugile. Aveva partecipato ad alcuni tornei amatoriali prima di iniziare a combattere, per soldi, dentro i bar e nei garage. Con la sua bimba è molto affettuoso. La chiama “Muffin” e si diverte, dopo averla fatta sedere sulle gambe, a muoverle le braccia facendole tirare dei piccoli jab in aria. Un giorno, quando Claressa ha due anni, il padre scompare dalla sua vita. Condannato per furto con scasso, deve passare in carcere sette anni.

A badare a lei e a i suoi fratelli minori, Briana e Dusable, dovrebbe pensarci innanzitutto la loro madre, Marcella Adams. «Mia madre, be’, si prendeva cura di noi», ricorda Claressa. «Ma io ero sempre piuttosto arrabbiata. Non avevamo mai abbastanza cibo».

Eppure, la famiglia riceve dei buoni pasto: «Onestamente non so cosa accadesse ai buoni pasto, ma credo che [mia madre] li vendesse per comprare la droga». Oltre alla droga, la dipendenza dall’alcool sarà una costante nella vita della signora Adams, incapace di garantire un letto ai propri figli, costretti a dormire sul pavimento. Claressa fino a cinque anni non riesce a parlare, poi si sblocca, ma per un po’ soffre di balbuzie.

Claressa Shields in posa per il Body Issue di ESPN.

La bicicletta smarrita

Muhammad Ali raccontava di aver iniziato a boxare a dodici anni, perché dopo aver subito il furto della bicicletta voleva vendicarsi. Nell’ufficio di polizia a cui si rivolse per denunciare il furto c’era una palestra, e l’ufficiale che lo accolse gli propose di allenarlo. Sembra quasi che la boxe abbia scelto Muhammad Ali, più che il contrario. Se la rabbia del pugile di Louisville una volta esplosa è stata immediatamente incanalata nella boxe senza soluzione di continuità, Shields cova il suo dolore a lungo prima di scatenarsi sul ring. E alla base di quel dolore c’è una privazione di valore enormemente maggiore rispetto a quello di una bicicletta.

«Mia madre aveva sempre uomini intorno. Non tutti gli uomini sono cattivi, ma era come se questi suoi amici fossero tutti dei pervertiti». A 5 anni viene violentata da uno di loro. Quando ne ha circa 8 viene molestata da un altro. «Lo dicevo a mia madre, ma lei non mi ha mai, mai, creduto». Sua zia però le crede e Claressa da quel momento si trasferisce dalla nonna, la sua salvezza, scomparsa nel 2010: «Non ho ancora trovato nessun altro capace di darmi l’amore che mi dava lei».

Le cose non vanno molto meglio a scuola, dove i compagni la prendono di mira per via del suo fisico allampanato e dei suoi capelli crespi: «Sono stata per molto tempo vittima di bullismo e non ho reagito, ma ad 11 anni la rabbia arrivò ad un punto tale che iniziai a picchiare chiunque, ragazze di 13 anni, ragazze di 14 anni. Facevo a botte anche con i ragazzi».

Ed è più o meno a questo punto della storia che il padre ritorna in scena. Uscito dal carcere, ricuce i rapporti con la figlia. Le parla di Leila Ali, la figlia di Muhammad, campionessa mondiale dei supermedi, ritiratasi dopo 24 incontri, tutti vinti. Un’altra volta, molto scuro in volto, le confida di quanto avrebbe voluto che uno dei suoi figli fosse diventato un pugile come lui. Claressa, che ha solo 11 anni, fa due più due, ma il padre è contrario: «Mi disse “Ma no! La boxe è uno sport per uomini”. Cominciai a piangere. Non gli parlai per due giorni. Il fatto che mi aveva detto di no fu una motivazione, volevo dimostrargli che si sbagliava». Impietosito dalle lacrime, il vecchio cede e malvolentieri la iscrive alla Berston.

Like Mike

«La prima volta che è venuta qui non le ho prestato attenzione perché era una ragazza, ma due settimane dopo le ho dato un'occhiata e... Wow! Era speciale. Il modo in cui ascoltava, il modo in cui afferrava i concetti. Capiva le cose molto più velocemente dei ragazzi». Sono questi i primi ricordi di Claressa Shields conservati nella memoria di coach Crutchfield. Li affida alle telecamere che stanno filmando “T-Rex”, il documentario che ha seguito la pugile nella sua preparazione alle scorse Olimpiadi.

T-Rex è il soprannome di Shields. Le viene affibbiato quando inizia a boxare perché è molto magra e con le braccia corte (“Ress” è la contrazione del suo nome). Il nomignolo non l’ha mai lasciata, perché col tempo le avversarie hanno iniziato a temerla come se fosse il predatore del Cretacico. Per raggiungere il livello più alto possibile, Claressa si allena duramente con i maschi della palestra. Si irrobustisce, aggiunge oltre 70 chili alla sua statura che via via si avvicina ai 178 centimetri. È la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene. Si allena tutti i giorni, anche il venerdì, quando gli altri ragazzi fanno festa e la palestra è deserta.

«La boxe è davvero la mia vita. È vero, non puoi essere una teenager normale. I teenager fanno tanti esperimenti come bere e fumare; io non ho mai fatto niente di tutto ciò. Le ragazze si ritrovano col pancione molto facilmente a Flint; il mio obiettivo prima di boxare era avere dieci bambini prima dei 26 anni. Senza la boxe, non so dove sarei».

Grazie alla boxe, invece, Shields trova la sua strada. Il suo esordio è fulminante: vince i primi 26 incontri della carriera, 14 per KO. Il suo stile di combattimento non passa inosservato: «Alcuni giornalisti mi dicono che ho infranto i limiti del pugilato femminile. Nessuna scende sul ring ed è così aggressiva, nessuna scende sul ring e prova ad uccidere la propria rivale». La furia con cui si scatena sulle avversarie induce una parte della stampa a paragonarla a Mike Tyson. Lei non ne è convinta: «Non lo so, non lo so. Penso di essere più veloce di Tyson… Sono un mix tra Sugar Ray Robinson e Joe Louis: il primo tirava pugni veloci come lampi, mentre il secondo era capace di mandarti al tappeto con entrambe le mani».

La sconfitta

La prima inquadratura del documentario “T-Rex” è un piano medio di Claressa Shields circondata dai giornalisti, al termine di un incontro. Uno di essi le ha posto una domanda. I secondi passano ma lei non risponde. Guarda in basso. Tira su col naso. Scuote la testa. Il linguaggio del corpo è inequivocabilmente quello di una pugile sconfitta. Poi, sollecitata da una giornalista, finalmente parla: «Non mi piace il punteggio. 23-15?! Nella mia vita non ho mai fatto solo 23 punti».

Il trailer ufficiale di "T-Rex".

È nel maggio 2012 che Shields, da poco diciassettenne, assaggia per davvero il gusto acre della sconfitta. E sarebbe potuta essere una sconfitta pesante. A Qinhuangdao, in Cina, si disputano i Campionati mondiali di pugilato dilettanti: oltre al titolo iridato ci si gioca l’accesso alle Olimpiadi di Londra. Per la prima volta nella sua carriera, Claressa, che gareggia con i pesi medi, non è seguita da coach Crutchfield, poiché la mancanza di fondi gli ha impedito di affrontare il viaggio. Più che un allenatore per lei è un secondo padre. Dopo la morte dell’amata nonna, infatti, Shields ha iniziato a trascorrere le estati a casa sua, con la sua famiglia. Oltre ai fondamentali del pugilato, le ha insegnato le buone maniere: «Ero solita mangiare con le mani. Un giorno, quando avevo probabilmente 12 anni, afferrai un pancake e lo piegai. Lui mi disse: “Cosa stai facendo? Sei una ragazza, Sei una signora!”».

Con i coach della federazione americana al suo angolo, Claressa supera agilmente il primo turno, ma nel secondo si scopre quasi impotente davanti alla britannica Savannah Marshall, che vince 14-8. Al termine dell’incontro, seduta su una sedia nello spogliatoio, grida a sé stessa: «Svegliati! Svegliati! Svegliati!». Come se quel match non potesse essere altro che un incubo. Come se lei, piegata dalla vita senza mai spezzarsi, sul ring non possa conoscere altra emozione che il trionfo. Il destino, però, vuole che a Londra ci vada comunque: Marshall vince quel torneo e indirettamente consegna a Shields uno dei posti del ranking che garantiscono l’accesso alle Olimpiadi.

Da quel momento in poi non perde più: il suo record attuale recita 74 vittorie su 75 incontri. La sconfitta non è un’eventualità presa in considerazione dal sistema nervoso di Shields, come conferma il suo coach: «Ha una determinazione fuori dal mondo. Lei crede che nessuno possa batterla, nessuno. Qualcuno pensa che questa sia arroganza, ma no, è fiducia nei propri mezzi».

Sogni d’oro

A cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo, il mondo della boxe femminile è stato protagonista di diverse pellicole cinematografiche più o meno riuscite (“Blonde Fist”, “Girlfight”, “Million Dollar Baby”). Tuttavia, fino alle Olimpiadi di Londra 2012, il pugilato rimaneva l’unico sport ad escludere le atlete. Per anni molti allenatori si sono rifiutati di lavorare con le donne. A metà anni ’90 la boxe femminile era stata definita dal New York Times «un freak show». Il 14 agosto 2009, mentre Shields rubava dal suo coach i segreti di quell’arte che solo tre anni prima aveva iniziato a praticare, l’Executive Board del Comitato Olimpico Internazionale annunciava finalmente che a Londra 2012 le donne avrebbero potuto combattere, a più di un secolo di distanza dall’introduzione della boxe maschile.

Claressa Shields è la prova vivente di quanto ingiustificato fosse tale ritardo: «Un sacco di volte mentre crescevo la gente mi considerava diversa perché ero una ragazza. Ma non sono mai andata dal parrucchiere. Giocavo a football con i ragazzi. Quando andavo in palestra potevo mettermi una t-shirt addosso e allenarmi, proprio come i ragazzi. Potevo sudare come loro. Potevo correre forte come loro. Nessuno mi diceva “Oh, una ragazza non dovrebbe fare queste cose”. Io mi sentivo pienamente a mio agio».

A Londra, con coach Crutchfield a seguirla dagli spalti, Shields, che è ancora una ragazzina diciassettenne, non lascia speranze alle avversarie: «Volevo distruggere tutto quello che incontravo sul cammino verso la medaglia d'oro. Volevo solo prendermi ciò che mi spettava, senza affidarmi al parere dei giudici, rischiare una split decision o una sconfitta di un solo punto. Volevo solo dominare ogni incontro». Nei quarti di finale supera la svedese Laurell per 18-14, in semifinale la kazaka Volnova 29-15.

Il giorno della finale viene presentata dallo speaker come «una donna in missione». Anche la russa Torlopova, una pugile col doppio della sua età, non ha scampo: 19-12 Shields. Nessuna sorpresa per lei: «Sapevo che avrei battuto la russa prima ancora di salire sul ring. Avevo visto i video dei suoi incontri e sapevo di essere una pugile migliore. Ma quando sono stata proclamata vincitrice ero al settimo cielo». Quando sale sul podio, mentre a Flint la sua famiglia la segue dalla tv con le guance solcate dalle lacrime, lei non riesce a restare un secondo ferma. Bacia la medaglia, fa una linguaccia, afferra la medaglia con due mani, la fa ruotare da destra a sinistra, da sinistra a destra, come fosse il volante di un’auto e lei una conducente impazzita. Quella medaglia non la molla nemmeno un istante. La tiene avvolta tra le dita anche quando va a letto: «Avevo paura di svegliarmi e accorgermi che era diventata d’argento».

La felicità.

Il risveglio

Le medaglie non si trasformano da un giorno all’altro. Ma la vita di una medagliata, nelle aspettative di Claressa, sarebbe dovuta cambiare all’istante. Al suo ritorno, la città di Flint le dedica una gran parata, la banda suona per lei, tutti le chiedono autografi e foto, il sindaco le consegna le chiavi della città. Ma quando l’ultima nota musicale si spegne nell’aria e l’ultimo lustrino atterra sull’asfalto, Claressa si accorge che la vita non è poi così cambiata, che a Flint ci sono i soliti problemi, che la sua rimane una famiglia disfunzionale. E nemmeno il portafoglio è così ricco.

Aldilà di una concessionaria locale che le regala una Camaro nero-oro personalizzata, i grandi sponsor sono riluttanti ad accostare il proprio marchio ad una una donna che picchia altre donne, una ragazza così lontana dall’ideale classico di femminilità. Preferiscono investire su tenniste, nuotatrici o sorridenti ginnaste, come Gabrielle Douglas, capace di guadagnare più di 8 milioni di dollari dopo il suo oro a Londra. «All’inizio è stato scoraggiante. Tutti dicevano che qualcosa sarebbe successo», ricorda Shields. «Dopo forse un mese e mezzo non facevano che parlarmi di quello che aveva ottenuto Gabby Douglas. Io nemmeno sapevo chi fosse Gabby Douglas. Poi l’ho scoperto: be’, è una ginnasta ed è grandiosa a fare i salti mortali e tutta quella bella roba. Lei è la quarantunesima persona a vincere in quella categoria, ma la prima afroamericana a farlo. Io sono la prima persona ad aver vinto. Punto. Senza distinzioni di razza. Non ci sarà mai un’altra prima». Nel suo documentario spiega: «Non è una questione di soldi, semplicemente si tratta di ricevere quello che merito. Essere rispettata come donna. Essere rispettata in quanto nera. Essere rispettata come atleta che rappresenta gli Stati Uniti».

«Io vincerò. Punto»

Claressa Shields sa che c’è un unico modo per guadagnarsi il rispetto: continuare a combattere. Vince i Mondiali del 2014, quelli del 2016 e i Giochi Panamericani dell’anno prima. Soddisfa anche, sebbene brevemente, il suo desiderio di maternità: sua cugina è incinta e vorrebbe abortire per ragioni economiche, ma lei la dissuade e decide di adottare la nascitura. La chiama Klaressa e le promette di «darle il meglio di tutto, di proteggerla come nessuna madre ha mai protetto un figlio». Dopo otto mesi si ritrova i poliziotti in casa, mandati dalla cugina, che l’aveva accusata di aver rapito la figlia. «È stato molto doloroso», ha commentato Shields, «ma l’ho perdonata comunque e volevo tornare a parlare della bambina. Ma lei pretendeva troppe eccezioni nel contratto d’adozione. Era troppo per me. Le ho detto: “Non ti lascerò controllare la mia vita”».

Il 17 marzo 2014, giorno del suo diciannovesimo compleanno, grazie al suo agente Rick Mirigian, Claressa compare, insieme a Ricky Gervais, nello spot di una vettura Audi. Con l’avvicinarsi delle Olimpiadi di Rio de Janeiro arrivano i contratti con Powerade, Dick's Sporting Goods e Mini. Universal Pictures ha acquistato i diritti per raccontare la sua storia in un film. La visibilità offerta dall’evento brasiliano non è l’unico motivo della maggiore attrazione esercitata nei confronti degli sponsor. Shields ha iniziato ad ascoltare chi gli consigliava di evitare frasi come «Mi piace picchiare le persone e vederle piangere», di smussare i lati più selvaggi del suo essere e del suo apparire. «Adesso mi preoccupo di come mi stanno i capelli, del modo in cui mi vesto e del modo in cui parlo. Nel 2012 non me ne preoccupavo per niente. Sono sempre la stessa, ho solo cambiato il modo in cui mi presento agli altri».

«Voglio passare alla storia come la migliore pugile mai vissuta».

Dal maggio 2015 ha lasciato la sua città natale per andare a Colorado Springs, dove c’è lo U.S. Olympic Training Center. Dopo le Olimpiadi vuole trasferirsi col resto della famiglia in Florida, o comunque in un posto migliore di Flint, dove nel frattempo è scoppiata la crisi dell’acqua potabile, che si è scoperta contaminata da piombo in percentuali tossiche.

Alle 19.30 italiane di mercoledì 17 agosto tornerà sul ring per i quarti di finale del torneo olimpico, che, secondo lei, può avere un solo esito: «A Rio tutti quanti diranno che quella ragazza, Claressa Shields, sa combattere. So per certo che vincerò le Olimpiadi di nuovo. Lo so già. Vi sto dicendo quello che succederà. Io vincerò. Punto». E dopo? «Voglio avere una grande carriera da professionista e combattere su HBO e Showtime. Con una medaglia d’oro merito di andare in tv, ma con due medaglie d’oro merito davvero di andare in tv».

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