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Premier League: sopravvalutata?
11 mar 2016
Anche il miglior campionato d'Europa è pieno di problemi.
(articolo)
35 min
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La Premier League è il prodotto calcistico meglio confezionato: ogni campionato però ha le sue specificità e i vari confronti rischiano di essere sterili. Questo articolo vuole evidenziare alcuni problemi, soprattutto di campo, per smorzare la retorica più comune che tende ad usare la Premier League come standard di eccellenza. Una retorica giusta per certi aspetti, meno per altri. Tranquilli: la Premier League piace a noi quanto a voi, ma non è perfetta. E non è escluso che in un futuro anche prossimo le cose possano cambiare, in meglio (arriva Guardiola) o in peggio.

Niente trofei, siamo inglesi

di Martí Perarnau

Articolo tradotto dall’originale di Martí Perarnau, pubblicato su Perarnau Magazine.

Non c’è neppure un allenatore inglese tra i 16 che si stanno giocando gli ottavi di finale di Champions League: ben tre francesi, due italiani, due spagnoli, due portoghesi, due olandesi, oltre a un belga, un tedesco, un argentino, un cileno e un ucraino. Eppure non c’è un allenatore inglese.

In realtà, era un evento decisamente prevedibile: non ce n’è neanche uno adesso perché non ce ne sono mai stati in questa Champions League. All’inizio della fase a gironi, infatti, si registravano ben otto allenatori portoghesi, sette spagnoli, sei tedeschi, cinque francesi e via dicendo, ma niente inglesi.

E se fosse semplicemente una sfortunata coincidenza? Per rispondere a questa domanda bisogna controllare le edizioni precedenti: neppure nella stagione passata erano presenti allenatori inglesi nella competizione per club più importante d’Europa (e forse del mondo). Vi parteciparono molti portoghesi, spagnoli, francesi, tedeschi e italiani. Anche un irlandese, ma no, nessun inglese.

E allora magari nella stagione ancora precedente: invece di nuovo, nessun allenatore inglese, e così via fino alla stagione 2011-2012.

Per trovare l’ultimo allenatore inglese che ha partecipato alla Champions League dobbiamo tornare fino al 13 aprile 2011, al White Hart Lane: Harry Redknapp allenava il Tottenham, che dopo aver eliminato il Milan agli ottavi con un gol di Crouch era stato surclassato al Bernabeu (4-0) dal Real Madrid. La partita di ritorno fu decisa da un gol di Cristiano Ronaldo. Da quel 13 aprile sono passati quasi 5 anni senza che un allenatore inglese abbia partecipato al più importante trofeo continentale.

Non possiamo parlare dunque né di casualità né di coincidenza, ma di una cruda realtà. Se contiamo solo le fasi a gruppo ed i turni ad eliminazione diretta, escludendo quindi i preliminari, all’inizio della prossima Champions League, a settembre, il calcio inglese avrà accumulato addirittura 630 partite consecutive senza un proprio esponente in panchina. In realtà, ci sono due piccole e casuali eccezioni: Steve Bould, vice di Wenger, si sedette in panchina da primo allenatore nel settembre 2012 per la squalifica del francese; Gary Neville, appena nominato allenatore del Valencia, scaldò la panchina del Mestalla il 9 dicembre 2015, perdendo 2-0 in casa contro il Lione, che sancì l’eliminazione della propria squadra.

A queste 630 partite potremmo quasi sicuramente già aggiungere le 125 della prossima stagione: non ci sono prospettive che questa tendenza possa modificarsi nel breve termine.

Può sembrare incredibile, ma è vero: nessun allenatore inglese ha mai vinto la Premier League da quando è stata istituita (1992). In tutti questi anni, sono riusciti a vincere allenatori scozzesi (Sir Alex Ferguson, 13 volte), francesi, portoghesi, italiani e cileni, ma mai un inglese. L’ultimo a vincere un campionato fu Howard Wilkinson, che, con il Leeds di Cantona, conquistò l’ultimo titolo di Football League, nel 1991-92.

Potrebbe essere semplicemente la conseguenza di un’invasione di stranieri? Decisamente no: dal 1992 si registrano 321 allenatori che hanno disputato partite in Premier, e di questi circa il 55% è inglese (179). Va detto che negli ultimi anni si è creata una tendenza inesorabile verso i tecnici stranieri, considerato il pessimo rendimento di quelli locali.

Il Leeds di Wilkinson vince il titolo: e dopo ci sarà la dominazione scozzese di Sir Alex.

Infatti, se osserviamo la provenienza degli attuali 20 allenatori della Premier ci accorgiamo della presenza di solo 3 inglesi: Alan Pardew, Eddie Howe e Sam Allardyce, con l’aggravante che le squadre da loro dirette (Crystal Palace, Bournemouth e Sunderland) non hanno alcuna possibilità di vincere il titolo o qualificarsi alla prossima Champions (c’era anche Steve McLaren del Newcastle, appena esonerato per far posto a Benitez). Le prime posizioni, infatti, sono occupate da un italiano, un argentino, un francese, un cileno, un croato, un olandese; e ancora dopo da un tedesco, un gallese, due olandesi, un altro gallese, due spagnoli.

Il primo allenatore inglese arriva addirittura alla quattordicesima posizione in classifica: Eddie Howe (Bournemouth), mentre Pardew è al quindicesimo, con McLaren e Allardyce in zona retrocessione.

Ovviamente nessun allenatore inglese ha mai vinto la Champions League, nonostante le vittorie dei club: il Manchester United in due occasioni (1999 e 2008), una volta il Liverpool (2005) e il Chelsea (2012). Gli ultimi allenatori inglesi ad alzare la vecchia Coppa dei Campioni risalgono all’inizio degli anni ’80: Bob Paisley con il Liverpool (1977, 78, 81), Brian Clough con il Nottingham Forest (1979 e 80), Tony Barton con l’Aston Villa (1982) e Joe Fagan con il Liverpool (1984). Quella fu l’epoca d’oro del calcio inglese (a livello di club) perché dopo la supremazia di Ajax e Bayern Monaco, le squadre inglesi conquistarono addirittura 7 titoli su 8 (solo l’Amburgo di Ernst Happel riuscì a interrompere questo dominio). Ma ormai sono passati più di trent’anni da quella golden age.

Naturalmente, il calcio inglese ha a disposizione tutti i mezzi per trionfare: eppure accumula circa trent’anni di fallimenti con i club e addirittura 50 con la Nazionale, che continua a vivere del ricordo del 1966. Il movimento inglese ha più soldi, più passione e più voglia di vincere di tutti. In questi decenni ha provato tutto quello che si può provare: allenatori di tutti i tipi e di tutte le nazionalità, calciatori con caratteristiche differenti e addirittura si è sforzato di rimuovere la filosofia conservatrice e isolazionista che, dai tempi di Jimmy Hogan, ha impedito il progresso per colpa di un orgoglio smisurato. Qualunque innovazione tecnica o tattica, qualunque idea che poteva comportare un passo in avanti, qualunque misura di progresso è stata sistematicamente boicottata in Inghilterra dagli stessi inglesi, con la tesi che erano loro stessi i padri fondatori del gioco del calcio.

Questo atteggiamento era valido non solo per quelli che, dopo aver emigrato, cercavano di rimpatriare portando con loro i progressi del calcio continentale (vedi Jimmy Hogan o George Raynor), ma influenzò anche quegli allenatori che rappresentavano delle istituzioni in Inghilterra, come Herbert Chapman, le cui proposte furono sabotate continuamente (tranne che per l’applicazione della WM, la sua unica innovazione conservatrice).

1958: la Svezia di George Raynor batte la Germania campione del mondo e arriva in finale della Coppa Rimet.

Protetto dall’armatura dei “padri fondatori”, il calcio inglese ha sempre rifiutato gli apporti dall’esterno, per non parlare dei progressi tecnico-tattici. Inoltre, ha sempre lasciato correre ogni tipo di avvertimento: se Hogan, Raynor o Chapman avvisavano che austriaci o ungheresi giocavano un calcio moderno e avanzato, gli inglesi rifiutavano questi avvisi con la superbia dell’aristocrazia elitista. Anche per questo sono arrivate sconfitte storiche, ma neppure le devastanti batoste rifilate dalla Scozia nel 1928 (1-5), dall’Ungheria nel 1953 (3-6) e nel 1954 (1-7), dalla Germania a partire dal 1970 e più in avanti da Italia e Spagna, sono riuscite a cambiare le idee dei fondatori del calcio. Sostenevano di saperne più di tutti, e non hanno ascoltato i numerosi avvertimenti lanciati continuamente da analisti inglesi come Charlie Buchan, Brian Glanville, Ivan Sharpe, F. N. S. Creek, Bernard Joy, Geoffrey Green o i già citati Hogan e Raynor.

Ci sono state quindi numerose (e molto prestigiose) voci critiche che nel corso dei decenni segnalavano, con argomenti fondati, la mentalità antiquata e obsoleta del calcio inglese, e l’inevitabile cedimento all’innovazione che si sprigionava nel calcio continentale. Nessuno, però, riuscì a piegare la mentalità conservatrice dei “padri fondatori”.

Alla fine, quando l’Inghilterra è cambiata e ha deciso di modernizzarsi, l’ha fatto con grande ritardo rispetto al resto d’Europa. Dagli anni ’90 il calcio inglese ha investito cifre milionarie in tutti gli ambiti: giocatori, allenatori, formatori, settori giovanili, servizi medici, selezionatori, scouting. Adesso in Inghilterra c’è il campionato meglio “confezionato” del mondo, eppure il prossimo 30 maggio sarà un altro anno in più del digiuno in Champions e in Premier degli allenatori inglesi. E le prospettive per l’anno prossimo non sembrano affatto differenti.

Proprio gli inglesi hanno dispiegato un arsenale di saggi e analisi, anche in forma di libro, per ricercare le cause di questo grave ritardo. Nonostante la famosissima frase di Lineker reciti “e alla fine vincono i tedeschi”, il vero problema consiste nel verificare perché non vincono mai gli inglesi.

Tra le diverse chiavi interpretative per comprendere la caduta libera degli ultimi decenni, l’opinione di Stéphane Henchoz, un passato da difensore centrale di Blackburn e Liverpool, è molto interessante perché individua nella formazione di base il punto debole del movimento calcistico inglese.

In uno dei suoi eccellenti articoli per il giornale svizzero Le Temps, Henchoz spiega con esempi concreti il basso livello tecnico dei giovani calciatori inglesi, che determina a sua volta un reclutamento massiccio di giovani stranieri tecnicamente più abili. L’ex calciatore svizzero aggiunge poi un punto fondamentale: “Gli allenatori mancano di formazione”, pur sostenendo che finalmente i dirigenti del calcio inglese hanno capito la gravità del problema e stanno iniziando a compensare questa carenza formativa, sia con gli allenatori che con i giocatori. Ovviamente quella sottolineata da Hechoz è solo una delle possibili cause della crisi.

Nonostante tutto ciò, i tifosi inglesi non si lasciano deprimere dalla mancanza decennale di successi e ancora una volta, come nei 50 anni trascorsi dal 1966, depositeranno tutte le loro speranze in un miracolo della Nazionale inglese agli Europei di Francia. E in fondo potrebbero anche aver fortuna e vincere, ma il problema strutturale del calcio inglese, il suo ritardo endemico rispetto agli altri movimenti europei nell’aspetto tecnico, tattico e strategico, non possono risolversi semplicemente con una vittoria casuale.

I padri fondatori hanno bisogno di sostenere un cambio profondo, che scuota il loro calcio sin dalle radici, per riposizionarsi al livello dei paesi innovatori e vincenti.

Immobilismo tattico

di Flavio Fusi

Ogniqualvolta si cerca di dare una spiegazione delle innegabili difficoltà in campo europeo delle squadre di club inglesi, gli allenatori si aggrappano sempre alla stessa scusa: la Premier è un campionato logorante, in cui ogni squadra è di alto livello e dove non esistono partite vinte in partenza. Una retorica non solo banale e priva di fondamento, ma che potrebbe benissimo giustificare anche il contrario: se il campionato inglese è così “allenante” perché i club inglesi faticano così tanto in Europa?

Evidentemente perché non lo è.

L’enorme ricchezza portata in dote dalle televisioni è il sontuoso giaciglio su cui i club inglesi e i loro manager si sono adagiati, senza preoccuparsi di crescere dal punto di vista tattico, come avvenuto nel frattempo Oltremanica, dove squadre di campionati decisamente meno ricchi hanno beneficiato della crescita nella cultura calcistica del proprio Paese (Spagna prima e Germania poi, in particolare). Al contrario, in Inghilterra, la convinzione di poter comprare il pezzo mancante del puzzle durante il mercato ha preso il sopravvento sulla necessità di progredire sotto il profilo tecnico-tattico.

L’arretratezza tattica delle squadre inglesi è sotto gli occhi di tutti. Si pensi al pressing, uno dei concetti tattici più determinanti che le squadre inglesi non sono mai riuscite ad imporre in campo europeo. Un fallimento dovuto all’incapacità complessiva di difendere in maniera collettiva e coordinata, come dimostrano i livelli di compattezza della Premier, decisamente inferiori agli altri grandi campionati continentali.

In Inghilterra si vedono raramente scivolamenti difensivi efficienti, tantomeno i reparti stretti e corti ormai di tendenza nel calcio moderno. Le linee sono larghe e con i calciatori distanti tra loro, la pressione è spesso solo individuale e di conseguenza di intensità limitata. Il pressing offensivo vede attaccanti isolati rendersi protagonisti di vane corse da una parte all’altra del campo e anche le statistiche ne sottolineano l’inadeguatezza . Nel 2014 Colin Trainor classificò l’intensità del pressing degli allenatori europei secondo il PPDA: nei primi 20 d’Europa non c’era neppure un allenatore di Premier, che invece popolavano la classifica dei peggiori 20. D’altronde anche quando si riescono ad organizzare in maniera compatta, le formazioni inglesi vanno in difficoltà in situazioni dinamiche e basta muovere la palla con relativa rapidità perché si aprano spazi.

Tuttora impera un’idea di difesa troppo individuale: gli uno contro uno sono frequenti e specie sulle fasce non è raro vedere vere e proprie marcature a uomo, con gli esterni che seguono i terzini avversari fin sulla propria linea difensiva, lasciando agli avversari il controllo del centro e degli interni del campo, di gran lunga le zone con la maggior importanza strategica. Un aspetto difensivo che conferma anche la sopravvalutazione in chiave offensiva dei cross e in generale del gioco sulle fasce.

Oltre a non sapere pressare come le loro avversarie continentali, le compagini di Premier non sono abituate a loro volta a giocare contro squadre che le pressano, visto che gioco forza le competizioni nazionali non ne sviluppano la resistenza al pressing. Anche le transizioni sono mal gestite e mal organizzate (si pensi al Manchester City di Pellegrini), tanto che il counterpressing era fino a pochi tempo fa un concetto sconosciuto ai maggiori commentatori britannici.

Il focus sulle individualità rimane anche in fase offensiva, dove ci si aspetta sempre molto dal singolo, troppo spesso limitato da sistemi di gioco statici, poco complessi e sempre uguali a sé stessi e che di settimana in settimana (o addirittura di stagione in stagione) mettono in mostra le stesse deficienze. Probabilmente manca anche l’umiltà per vedere il sistematico adattamento all’avversario tipico del calcio italiano.

Paradossalmente anche lo strapotere economico peggiora la situazione: sembra quasi che nelle loro scelte i manager della Premier tengano conto del prezzo del cartellino, piuttosto che dei ruoli in campo e della compatibilità con i compagni.

Ovviamente ci sono eccezioni, ma anche i pochi innovatori che negli ultimi anni sono giunti in terra d’Albione hanno trovato difficoltà a cambiare la mentalità dei propri giocatori. Il calcio di posizione ha faticato ad attecchire, con la versione troppo rigida di Louis Van Gaal criticatissima da tifosi e media e la personale visione del Juego de Posición di Mauricio Pochettino che ha cominciato a dare i suoi frutti solo quest’anno.

La sensazione è che non ci sia un’apertura degli allenatori locali verso gli stilemi e i nuovi metodi degli allenatori stranieri che ormai popolano la Premier League, ma piuttosto si cerca di progredire nella maniera “più semplice”, cioè continuando ad ingaggiare a suon di milioni i migliori allenatori stranieri, Klopp e Guardiola su tutti. Ma con un approccio top-down e così difficilmente sostenibile nel lungo periodo, il processo evolutivo del calcio inglese sarà lento e sempre un passo indietro rispetto alle novità di quello continentale.

Il culto dell'intensità

di Daniele Manusia

La tesi del mio intervento è semplice e non ci girerò molto attorno: a calcio non si deve giocare per forza a tutta velocità. Si può anche rallentare e in alcuni momenti, anzi, è necessario per ragionare.

Degli atleti apprezziamo la capacità di “ragionare” con il proprio corpo in frazioni di secondo, per coordinarsi, per leggere le moltissime variabili di gioco, per scegliere tra le opzioni a disposizione, e la tecnologia ha reso questo aspetto del gioco sempre più importante (esempio: gli allenamenti “neuronali” di Mourinho) aumentando la velocità e riducendo gli spazi. Il che ha portato ad alcuni dei frutti migliori del calcio contemporaneo e ha cambiato in parte l'idea di come deve essere un calciatore di primo livello. Non sono più ammesse pance da alcolista, caratteri deboli o scostanti, cali di concentrazione.

L'aumento dell'atletismo ha aumentato proporzionalmente (o comunque modificato) il livello tecnico richiesto: una cosa è controllare un pallone lento con un avversario a un paio di metri, un'altra addomesticare una pietra sparata da un cannone, con un muro di muscoli che preme da dietro per salirti sopra e non aspetta altro che la palla si stacchi di quei pochi centimetri necessari perché possa arrivare a toccarla.

Non voglio dire, quindi, che l'intensità di per sé sia un male. Ma il culto dell'intensità, sì. Sacrificare sull'altare dell'intensità qualsiasi altra idea di gioco. L'intensità è nemica del controllo e in condizioni così ostili la priorità diventa sopravvivere. Per cui meglio lanciare lungo un pallone in direzione delle punte che rischiare di perderlo mantenendo il possesso, meglio puntare frontalmente la porta, anche se non ci sono spazi, che portare fuori posizione troppi giocatori cercando di aprirne di nuovi. È un male perché questo tipo di problemi restano anche quando i ritmi si abbassano.

La Premier League non viaggia sempre a ritmi altissimi, ma solo quando dà il proprio meglio. E anche in quei momenti, è un gioco divertente, più vicino all'idea di intrattenimento contemporanea (come lo è l'MMA rispetto alla boxe), ma non è sempre calcio di grandissima qualità. Può anche esserlo, ma molto spesso non lo è.

Ad esempio, fatico a considerare questa ↓↓↓ un'azione d'attacco.

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(Disclaimer: per aumentare l'effetto paradossale del mio intervento ho tratto la maggior parte delle gif dalle partite che mi sono piaciute di più.)

Così, ad esempio, si rinuncia a tutti quei giocatori che sanno giocare a calcio in maniera egregia ma, magari, non sono a loro agio in situazioni di trincea. In Premier League ci sono giocatori tecnici capaci di resistere a quei ritmi, di mettere ordine e persino rallentare (per fare due esempi, Christian Eriksen e Mesut Özil), ma anche loro finiscono spessoin balia dei ritmi di gara, come ragazzini sulla nave dei pirati al Luna Park.

In generale le partite di Premier diventano meno “belle” (uso appositamente questa parola perché anche nel calcio l'occhio vuole la sua parte, ma spesso i detrattori di un gioco più ragionato e tecnico parlano di “estetica” come fosse una brutta parola) non appena il campo si restringe. Quando ci si avvicina a una delle porte o al fallo laterale, dopo una rimessa con le mani ma anche solo quando ci si avvicina alla linea senza un cambio di campo, quando cioè si va sulla fascia che non è ancora il “lato debole” dell'avversaria. E anche in tutte le altre situazioni in cui si alza la palla: lancio del portiere, della difesa etc.

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Le seconde palle a volte diventano terze palle, quarte palle, eccetera eccetera...

Certo ci sono quei momenti in cui la Premier League ha senso ed è a suo modo bella, come giocando spesso a flipper capita di avere l'impressione di poter controllare sul serio la pallina. Ma sono altrettanto tipici quei lunghi momenti in cui la palla non è di nessuno.

In questo caso ↓↓↓ lo decide un fallo, e provate a contare quanti passaggi degni di questo nome ci sono, contate gli errori tecnici:

La qualità non è un tesoro sommerso, e non basta che si ritiri la marea dell'intensità perché venga in superficie. Semmai è la costa di tufo erosa gradualmente dalle onde dell'intensità, e quando le acque si calmano restano crepacci e scogliere vertiginose. Per la mancanza di pressing, ad esempio, nelle zone più inoffensive del campo regna una tranquillità che mette tutti a disagio, e genera errori individuali banali e inspiegabili anche da parte di giocatori non fenomenali.

L'ideale sarebbe saper prendere decisioni senza pensare coscientemente, districarsi in esercizi di agility dog improvvisati con la palla tra i piedi (e Alexis Sanchez è forse uno dei migliori calciatori al mondo nell'agility dog), dove gli ostacoli sono gli avversari e il campo è un percorso tortuoso quasi illeggibile; ma al tempo stesso saper costruire un'azione decente dal basso, senza fretta e senza ansia. A volte basta davvero poco per denudare in pubblico le squadre più ricche di Premier League, anzi lo fanno da sole. E giocare con la mano sul ventre per coprirsi le vergogne non è semplice.

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Persino battere dal centro del campo sembra a volte una situazione imbarazzante per chi ha la palla, e ogni volta che un giocatore professionista si libera della palla come fosse una bomba a mano senza sicura un bambino che gioca nel vicolo di una periferia con una palla sgonfia soffre.

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Sarebbe assurdo, in un significato della parola “assurdo” che coincide con “impossibile”, se la Premier League non producesse anche alcune delle partite migliori della stagione (Arsenal-Tottenham ad esempio), delle azioni più entusiasmanti e dei giocatori più eccitanti.

Ma è anche quella lega dove alcuni dei giocatori tecnicamente più raffinati non riescono a inserirsi o a esprimersi al meglio, in cui sopravvive una certa idea di calciatore più forte che non è detto sia la migliore anche dal punto di vista dello spettacolo, che resta la più grande attrattiva che la Premier League al momento può fornire. Non c'è una sola idea di calcio, hanno tutte i loro pro e i loro contro, ed è sempre bene tenerlo presente.

Perché la Premier non sa commerciare

di Emiliano Battazzi

«Ho saputo poi che i campioni eran rimasti campioni e i maestri maestri». Sono passati ormai 77 anni da quando il poeta Delio Tessa scriveva sul quotidiano L’Ambrosiano la cronaca della partita (senza conoscere neppure le regole) tra Italia e Inghilterra del 1939.

In questo momento non siamo più campioni del mondo in carica, ma ad occhio e croce gli inglesi si sentono ancora maestri. La potenza economica della Premier League è innegabile, così come il nostro declino nell’ultimo decennio, riflettutosi anche nel quarto posto nel ranking UEFA. Mentre inseguiamo gli inglesi nel coefficiente, ma siamo molto vicini, assistiamo a un flusso di trasferimenti che ci spinge a domandare: chi ci guadagna?

Secondo la teoria mercantilista, il commercio internazionale era un gioco a somma zero: una parte guadagnava, l’altra perdeva. Dall’Inghilterra temono di essere dalla parte sbagliata e ne hanno tratto una conclusione: don’t buy from Serie A.

Ma analizzando il flusso di acquisti dalla Premier negli ultimi tre anni, neppure noi sembriamo averne tratto particolare giovamento: dei 20 giocatori arrivati in questa stagione (tra sessione estiva e invernale) giocano titolari solo Dzeko (più o meno) e Szczesny. Tra i migliori nel triennio ci sono Tevez, Gervinho, Salah, Evra, Pepe Reina, Marcos Alonso; ma tra i peggiori si rabbrividisce a leggere i nomi di Cole, Vidic, Torres, Marin, Podolski, Richards, Essien, Anderson.

Nei fallimenti si individua un minimo comun denominatore: calciatori che, per motivi diversi, avevano perso la loro intensità agonistica. Sparita quella, fondamentale per giocare nei ritmi accelerati della Premier, rimaneva poco e niente: Ashley Cole, il miglior terzino sinistro inglese degli ultimi 15 anni, con difficoltà nel fare la diagonale, accantonato dopo essere stato umiliato da Robben; Vidic, un guerriero che da noi sembrava impacciato, tecnicamente in difficoltà e poco abile nella gestione degli spazi, ha dovuto smettere dopo un infortunio; ma anche Dzeko, per tornare alla stagione in corso, è stato rimproverato da Spalletti perché sembra non conoscere a memoria i classici movimenti del centravanti.

Nello stesso arco temporale, in Premier sono sbarcati dalla Serie A giocatori di tutti i tipi: da Lamela, una giovane promessa lanciata da una stagione zemaniana (che notoriamente altera le statistiche delle ali d’attacco) a Jovetic, frenato da numerosi infortuni e da una concorrenza stellare nel City. Poi c’è un gruppo di giocatori che sembra semplicemente inadatto ai ritmi della Premier come Cuadrado, Ibarbo, Hernandez, Alvarez, Vargas, addirittura Inler. Infine, giocatori di seconda o terza fascia il cui acquisto da parte di club inglesi rimane misterioso (Borriello, Dossena, Diakitè, Armero, Nocerino, Kozak, Benalouane).

Sembra abbastanza chiaro che a sopravvivere in Premier sono solo quei giocatori che, non essendo campioni, riescono almeno ad avere un’intensità atletica superiore a quella della nostra Serie A: Lamela era uno dei migliori nei devastanti test di Zeman, Giaccherini è un moto perpetuo (frenato da un infortunio nel Sunderland) e anche Alexis Sanchez, passato prima per Barcellona, ha caratteristiche atletiche fondamentali.

Oltre all’aspetto atletico, preponderante, ci sono variabili che incidono in misura significativa, a partire dalla lingua e dallo stile di vita (un gran numero di sudamericani sembra non adattarsi e voler tornare in Serie A). A tal proposito, bisogna ricordare che i calciatori inglesi da sempre hanno difficoltà ad uscire dal calcio britannico con successo, mentre non si può dire la stessa cosa dei calciatori italiani. Inoltre, in Serie A un errore di posizione può costarti la carriera, in Premier l’errore è un elemento fondante, perché il ritmo alto si basa anche sulla serie concatenata di errori tattici e di gioco.

La teoria del gioco a somma zero è stata poi superata proprio da un economista inglese, David Ricardo, che riuscì a dimostrare come dal commercio tutti potessero guadagnarci. E però, bisogna saper commerciare, e sembra un problema per i club di Premier: c’entra la mancanza dei direttori sportivi in quasi tutte le società?

Infatti, a una visione più razionale, emerge lo scarso valore effettivo dei giocatori acquistati dai club di Premier, mentre i vari Thiago Silva, Ibra, Marquinhos, Cavani, Benatia, Vidal, insomma i veri grandi prodotti della Serie A, sono altrove. Le squadre italiane hanno almeno la giustificazione della difficoltà economica: è quasi impossibile strappare un grande giocatore ad un club inglese e ci dobbiamo accontentare di campioni maturi (alcuni troppo) o indesiderati, a costi tra l’altro contenuti (Tevez 9 milioni più bonus, oh yes), o di giovani promesse (Pogba a parametro zero, ciao Sir Alex). Invece i club inglesi continuano ad acquistare a cifre esagerate buoni, modesti e pessimi giocatori dal nostro campionato: Lamela 30 milioni più bonus, 18 milioni per Darmian, 11 per Ogbonna, 7 per Benalouane. Comprare meno, comprare meglio: una formula facile per le squadre della Premier.

Forse siamo semplicemente dei mercanti migliori, forse è la nostra storia: già dal 1277 Genova aveva creato una linea di collegamento navale con l’Inghilterra, mentre Venezia ci arrivò un po’ più tardi, verso il 1314. Forse agli inglesi sarebbe servito un Alfonso de Ulloa, che proprio a Venezia tradusse dallo spagnolo nel 1561 il testo “Instrución de Mercaderes”. Il titolo, con l’aggiunta di un sottotitolo esplicativo stile Lina Wertmuller, recitava in modo inequivocabile:

«Institutione de’ Mercanti che tratta del comprare et vendere, et della usura che può occorrere nella mercantia insieme con un trattato de’ cambi. Et in somma si ragiona di tutto quello che al mercante christiano si conviene». Non è troppo tardi per regalarlo ai dirigenti della Premier League.

I limiti del modello manageriale

di Alfredo Giacobbe

Nel momento in cui scrivo, è stato appena annunciato l’ingaggio di Kevin Nolan, ex Newcastle e West Ham, come player-manager del Leyton Orient. La notizia riguarda un club di quarta divisione, è comunque rilevante per il suo anacronismo. Quella del factotum “giocatore-allenatore-dirigente” è stata, nel mondo professionistico, un’anomalia quasi esclusivamente inglese. Un modello che ha funzionato, fino a essere portato come esempio positivo, finché la complessità del mondo calcio non è esplosa.

Oggi è impensabile che un solo uomo possa seguire, in maniera profonda e competente, tutte le sfaccettature che costituiscono la vita di un grande club: dall’andamento agonistico di una squadra, nella quale il livello di sofisticatezza dell’analisi e degli allenamenti ha raggiunto livelli impensabili solo qualche anno fa; agli aspetti economici legati agli affari di mercato, dove operano globalmente soggetti tra loro diversissimi; alla gestione dei media, in un mondo nel quale occhi e orecchi elettronici registrano ogni istante del gioco e della vita pubblica e privata di ogni membro del club.

Eppure quello dell’uomo solo al comando è un modello che resiste, soprattutto nella testa dei managers britannici. I tentativi divide et impera che alcune società fanno per ridurre la complessità del problema, attraverso l’assunzione di un Director of Football, portano spesso a uno scontro frontale col manager: la bagarre tra Kinnear e Pardew, ai tempi del Newcastle, costrinse il primo a rinunciare all’incarico; la privazione dei poteri di mercato è uno smacco che Brendan Rodgers fa fatica a dimenticare, tre anni dopo.

Gli allenatori stranieri sono più abituati dei colleghi inglesi a condividere le responsabilità della gestione dell’area tecnica, forse per questo sono scelti dai club inglesi in percentuali sempre maggiori. Oggi i manager made in UK presenti in Premier League sono sette su venti, otto se pensassimo di naturalizzare lo spagnolo Roberto Martinez, che ha vissuto la maggior parte della sua carriera professionistica in Inghilterra. Dieci anni fa erano il doppio.

Anche Oltremanica esistono illuminati come Les Reed, direttore esecutivo del Southampton, per il quale il manager è solo l’ultimo anello della catena dirigenziale, quello che è più facilmente sostituibile. Perché i progetti del club devono avere necessariamente un orizzonte di lungo termine, che va al di lá della carriera di un manager. Reed rappresenta comunque una minoranza nel panorama della Premier League.

Quello della longevità del manager è un altro tema tutto inglese, impugnato spesso dal fronte dei reazionari. Oggi è impensabile che un manager resista in un club più di tre/quattro stagioni: neanche Mourinho e Guardiola, i due migliori allenatori in attività, sono andati oltre nelle loro esperienze. È vero che se lo avessimo valutato nello stesso arco temporale, Sir Alex Ferguson sarebbe stato esonerato e non avremmo avuto la sua legacy al Manchester United. Ma è anche vero che le pressioni che un manager subisce oggi, nel mondo accelerato dai social, sono enormemente più grandi.

La prossima stagione sarà la ventesima consecutiva sulla panchina dell’Arsenal per l’ultimo degli highlander, Arsene Wenger, e difficilmente vedremo una gerenza tanto lunga in futuro, anche in Inghilterra. E in ogni caso l’alsaziano ha dovuto cambiare tanto, nel suo stile e nei suoi metodi, per stare al passo coi tempi ed è ancora oggi uno dei manager più moderni della lega. Tanto per fare un esempio, l’Arsenal è stata la prima società inglese ad aver acquisito le conoscenze per prodursi in casa i report di match analysis, mentre il suo collega Sherwood non perde occasione per deridere gli analisti o gli attuali metodi di scouting. In definitiva, il riscatto tecnico-tattico della Premier League deve passare attraverso il cambiamento di mentalità dei propri manager e la rinuncia della tradizione, ormai sorpassata.

Tanti soldi poche idee

di Dario Saltari

A distinguere più di ogni altra cosa la Premier League dagli altri campionati europei è la quantità di soldi che circolano. Quest’estate sei dei dieci acquisti più costosi sono stati realizzati da squadre inglesi. Negli ultimi dieci anni il bilancio netto del mercato del campionato inglese è stato di oltre -4 miliardi di euro, cioè più di quattro volte quello della Liga, più di cinque volte quello della Serie A, più di sei volte quello della Bundesliga. La ricchezza e la sua equa distribuzione (il rapporto tra i diritti televisivi distribuiti alla prima in classifica rispetto all’ultima è attualmente a 1,53; in Italia questo valore si aggira intorno al 5) è ciò che spesso viene indicato come ciò che permette alla Premier League di essere così varia e competitiva. Tutti i club inglesi, dal Chelsea allo Stoke City, hanno possibilità di spesa di gran lunga superiori rispetto alla maggioranza degli altri club europei e giocatori di fascia alta come Ayew o Cabaye possono giocare in piccole squadre come lo Swansea e il Crystal Palace. I motivi di tutto ciò sono noti (tra gli altri: stadi di proprietà, ricchi contratti televisivi, apertura al capitale estero), qui mi interessa parlare delle conseguenze.

Delle conseguenze negative in particolare. Sì perché, per quanto il ranking UEFA sia sicuramente un modo parziale per paragonare la qualità dei campionati, il fatto che la Premier League stia lottando per il terzo posto con una lega che ha una capacità di spesa cinque volte inferiore non può non essere indicativo. L’impressione è che il fatto che tutti i club di Premier League siano diventati così ricchi, e soprattutto così tanto più ricchi rispetto al resto d’Europa, stia diventando un limite più che una spinta all’evoluzione tecnico-tattica del campionato.

Da una parte perché il fatto che anche i club più piccoli abbiano enormi interessi economici in gioco aumenta le pressioni verso il risultato di breve periodo, scoraggia il rischio, aumenta il peso del fallimento: in poche parole atrofizza tutti quegli elementi che permettono una reale innovazione. Mentre negli altri campionati questo fattore influisce solo su due o tre club di prima fascia, in Gran Bretagna questo fenomeno interessa praticamente tutta la lega. Forse i club di Premier stanno diventando come le grandi compagnie tecnologiche: too big to innovate. Facebook è diventata troppo grande per rischiare di rivoluzionare il mercato di nuovo, gli conviene comprare le novità che il mercato produce, come WhatsApp. Allo stesso modo, i club di Premier sono diventati troppo grandi economicamente per sperimentare con il rischio di fallire, economicamente è più sicuro puntare su grandi e costosi curriculum. Il Manchester United ha scartato frettolosamente l’esperimento Moyes per puntare su Van Gaal (a sua volta messo in discussione per la mancanza di risultati), il Chelsea si è rifugiato su Mourinho con successi effimeri, l’Arsenal non cambia allenatore da anni, il City ha preferito continuare con Pellegrini (nonostante i limiti evidenti) per poi puntare un’immensa quantità di soldi su Guardiola. Nei “piccoli” club, allenatori molto legati alla tradizione inglese come Tony Pulis, Sam Allardyce o Alan Pardew hanno ancora un grande successo perché garantiscono una certa sicurezza nei risultati.

Lo stesso vale per i giocatori, scartati e sostituiti con dei nuovi non appena non arrivano agli standard qualitativi (e fisici) che la Premier richiede. Questo è ovviamente un lusso che solo i club estremamente ricchi possono permettersi. Ma allo stesso tempo impedisce anche l’evoluzione tecnica dei giocatori, che o sono pronti o non sono. L’esempio attuale più luminoso è Kevin de Bruyne, considerato subito inadatto dal Chelsea, cresciuto al Wolfsburg e ricomprato dal City un anno e mezzo più tardi alla modica cifra di 74 milioni di euro. Ma lo stesso si potrebbe dire per Di Maria, Salah o Cuadrado.

Dall’altro lato è anche vero che la ricchezza diffusa della Premier non è un segreto per nessuno e questo porta inevitabilmente a una sopravvalutazione economica di giocatori e allenatori acquistati, fattore che gonfia i bilanci senza aumentare sensibilmente la caratura tecnico-tattica delle squadre.

In questo senso, mi sembra in qualche modo indicativo il fatto che il campionato probabilmente più interessante tatticamente e più progredito tecnicamente (nonché il primo per ranking UEFA), quello spagnolo, sia anche quello che distribuisce i diritti TV in maniera più diseguale in Europa (attualmente il rapporto tra i premi ricevuti dalla prima classificata e quelli ricevuti dall’ultima in Liga si aggira intorno a 7,8). A parte Barça e Real (e poche squadre “intermedie” come Atletico e Valencia), il campionato spagnolo si compone esclusivamente di club economicamente molto piccoli.

Ovviamente questo non vuol dire che ci sia una relazione empirica diretta tra la diseguaglianza economica tra i club e la loro innovatività. Influiscono anche altri fattori come, per esempio, l’assenza nei top club inglesi di quella mentalità pionieristica che permette ai grandi club come il Barcellona di vincere tutto in pochi anni con due allenatori sconosciuti e opposti come Guardiola e Luis Enrique. E per fortuna quel genere di cose ancora non sono sul mercato.

La contraffazione della cornice

di Emanuele Atturo

Ogni volta che c’è in programma un big match di Premier League mi capita la stessa cosa. Accendo la TV con l’hype a mille nella testa, mi godo l’ingresso in campo scenografico delle squadre, i cori stupendi dei tifosi che le accompagnano. I colori dello stadio sono magnifici: in una Chelsea - Liverpool il blu e il rosso delle maglie possono risultare così rarefatti da raggiungere il classicismo astratto del biliardino. Spesso il telecronista racconta qualche aneddoto sulla rivalità storica delle due squadre, che quasi sempre affonda in radici profonde e affascinanti. Poi quando la partita comincia davvero lo spettacolo non si rivela all’altezza delle sue premesse. La Premier League somiglia a quei film che bisogna vedere per tenersi aggiornati, ma che non per forza ci appassionano e che non sempre riusciamo a guardare fino alla fine. Ciò nonostante non ne possiamo che riconoscere l’importanza culturale.

Eppure, anche in una stagione come questa, dove le grandi squadre stanno rendendo al di sotto delle loro possibilità (e il Leicester rappresenta l’unico punto di interesse, sebbene soprattutto narrativo), criticare la Premier League può essere interpretato come un atto di lesa maestà. Il campionato inglese è ancora quasi universalmente considerato il punto d’arrivo qualitativo del calcio moderno, spesso usato per mettere in luce la decadenza del calcio italiano. Forse però è il momento di chiederci cosa intendiamo per “qualità”: quella del prodotto o quella del suo confezionamento? L’intrattenimento della Premier League in sé o del contesto in cui la Premier League si gioca?

L’impressione è che dovremmo provare a scindere i due piani, quello della cornice e quello del dipinto, almeno per poterci interrogare seriamente su quanto l’uno condizioni l’altro.

La Premier League viene spesso definita “La NBA del calcio”, e questo è innegabile a livello di “levigatezza” estetica. Gli stadi belli e pieni sono parte della “televisività” del prodotto. La folla assiepata a un metro dal campo di gioco trasforma davvero il quadro televisivo in una specie di teatro (e ‘teatro’ è una delle espressioni più usate in riferimento ad alcuni stadi inglesi). Le inquadrature degli spettatori che interagiscono emotivamente nei confronti dei giocatori vicini alla linea laterale fanno parte dello spettacolo quasi quanto i gesti tecnici. O comunque hanno il pregio di arricchirli emotivamente.

Solo in Premier League è possibile un abbraccio così catartico tra i giocatori e i tifosi. Tra i momenti che più spesso vengono citati per descrivere la bellezza “speciale” della Premier. Soprattutto per la loro capacità di creare una comunione emotiva in grado di coinvolgere anche il fruitore televisivo.

La bellezza degli impianti storici va quasi oltre il calcio. Il Craven Cottage, lo stadio del Fulham, è stato costruito sulle spoglie di un antico cottage aristocratico che affaccia sul Tamigi. Un terreno un tempo frequentato da Anna Bolena durante le sue battute di caccia.

Ma anche i grandi stadi costruiti più recentemente sono riusciti a mantenere intatto un clima partita intenso e un quadro estetico spettacolare. Il tutto si traduce in una restituzione televisiva di alto livello, con un colpo d’occhio immediato imparagonabile agli altri campionati.

In alto l’immagine-base di West Ham – Tottenham: l’intensità e l’esattezza dei colori. Il fascino discreto di alcune rifiniture dello stadio, un quadro con una densità complessiva degna di una pittura fiamminga. La capacità di restituire una forte estetica britannica. In basso l’immagine di un Chievo Verona – Napoli, giocata teoricamente a Verona, ma che potrebbe benissimo essersi disputata in un rettangolo verde sottratto a un deserto lunare. Con spettatori radi e lontani, che sfumano fino a poter essere scambiati per cartonati. Una pista d’atletica spoglia e fredda a incorniciare ventidue calciatori con kit di gioco dozzinali.

Si tratta di dettagli, certo, ma la loro percezione, per quanto sfumata, ci entra sottopelle. Mi pare simile alla differenza che passa tra un film con un’ottima fotografia e uno con una fotografia scadente: è chiaro che sarà oggettivamente più gradevole guardare un film con una bella fotografia. Non solo. Di solito una bella fotografia è garanzia di un prodotto audiovisivo di ottima fattura, come di converso una pessima fotografia è percepita come sinonimo di un prodotto scadente (pensiamo alla capacità di una certa fotografia “smarmellata” di rimandarci al sentimentalismo spicciolo delle fiction Rai).

L’altro motivo per cui la Premier League viene paragonata alla NBA è la capacità di radunare i più grandi giocatori del panorama mondiale. Il che è innanzitutto vero solo in parte, visto che i migliori in assoluto probabilmente giocano in Spagna. Il fatto è che in ogni caso, anche la presenza di calciatori di livello, finisce per rappresentare poco più di un guscio vuoto: capace di creare grandi premesse di spettacolo, che poi però si rivelano al di sotto delle aspettative. Quante partite memorabili di Juan Mata - uno dei giocatori più divertenti da guardare - ricordate dal suo arrivo in Premier?

L’undici di partenza dello Swansea, 16 esimo in Premier, ha almeno tre dei miei giocatori preferiti (oltre alla pantera Gomis, in panchina).

La mia impressione è che la particolare estetica della Premier League condizioni in modo sottile, ma determinante, il nostro giudizio di valore sulla sua qualità. Questo chiaramente non è un difetto, semmai qualcosa da cui tutti i campionati possono imparare: riuscire a vendere il prodotto come qualcosa di levigato, spettacolare, privo di difetti. D’altra parte però dovremmo sempre interrogarci su quanto spesso sia la bella cornice a fare il bel quadro.

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