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Ricordate N'Kono?
09 mar 2015
Intervista al più grande portiere africano, il primo a giocare in Europa.
(articolo)
10 min
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Thomas N’Kono è un uomo sorridente con un'andatura dinoccolata. Trasmette empatia immediata, nonostante gli occhiali da sole che non leva mai, neanche mentre allena Kiko Casilla e Pau López, i portieri dell’Espanyol. Primo ad arrivare e ultimo ad andar via, uno dei miti viventi del calcio africano è solito trascorrere tutte le sue mattinate nel centro sportivo di Sant Adrià de Besòs, dove si sente a casa da ormai dodici anni ed è lì che ama «distrarre il corpo».

Due volte Pallone d’oro africano (1979 e 1982), due volte campione d'Africa con il Camerun, di cui ha difeso i pali anche nel 1990, quando la Nazionale allenata dal russo Valery Nepomnyashchy, guidata da Roger Milla e Omam-Biyik è arrivata fino ai quarti. Dopo aver battuto l'Argentina di Maradona all'esordio e la Colombia di Valderrama e Higuita agli ottavi, il Camerun è stato eliminato dall'Inghilterra di Platt, Gascoigne e Lineker, con due rigori contro. Quel Camerun ha lasciato un segno indelebile sul calcio degli anni 90. N'Kono ha avuto una lunga carriera, cominciata in Camerun e finita in Sudamerica, passando nove anni all'Espanyol e diventando una figura iconica al di là dei confini del suo continente. Gigi Buffon, ad esempio, ha chiamato il proprio figlio Thomas in suo onore.

A 58 anni dove trovi la voglia di sgobbare ancora su un campo da calcio?

È la mia passione. Anche se allenare gli altri è diverso dal preparare sé stessi. Bisogna riuscire a trasmettere ai propri allievi le conoscenze tecniche acquisite in prima persona, e al contempo farli rendere al meglio dal punto di vista fisico.

In effetti hai smesso di giocare a 43 anni. Una carriera iniziata nel 1977 e conclusa nel 1999, come si fa?

Fu tutto frutto del caso. Il mio ultimo contratto da professionista (con il Bolivar, ndr) arrivò dopo aver accompagnato un amico in Venezuela. Mentre ci allenavamo insieme passò di lì il presidente del Bolivar che mi vide in azione e alla fine come portiere scelse me e non lui.

Quanto deve la tua carriera al tuo primo preparatore, lo jugoslavo Vladimir Beara?

Tantissimo. Quando Vladimir arrivò in Camerun non conoscevo i fondamentali tecnici veri e propri del portiere. Avevo un talento innato ma nel calcio non basta. La preparazione di un allenatore europeo ha posto le basi per il mio futuro.

Che ci faceva uno jugoslavo in Camerun negli anni della guerra fredda?

Durante gli anni ’70 il governo del Camerun e quello della Jugoslavia avevano degli accordi commerciali e Beara arrivò nel mio Paese come nuovo allenatore della Nazionale. Io avevo diciotto anni e avevo già vinto un titolo nazionale, ma in realtà ancora avevo una visione molto istintiva del ruolo del portiere. Ero come un chitarrista autodidatta che non sapeva leggere le partiture. Il merito di Vladimir fu di farmi maturare dal punto di vista tattico e tecnico.

In che lingua comunicavate?

Lui spiccicava qualche parola di francese, ma alla fine, come si dice, la lingua del calcio è universale e dopo poco siamo arrivati a capirci.

Gli inizi però furono piuttosto duri.

Si trattava di allenamenti fisicamente massacranti. Ricordo che Beara creò un muro sul quale erano disegnati dei numeri: il mio compito consisteva nell’allenarmi contro quel muro, prima calciando il pallone nel punto in cui era segnato il numero che lui sceglieva, e poi provando a bloccarlo dopo il rimbalzo. In quel modo imparai a bloccare i tiri con una sola mano, una tecnica che faceva imbestialire il mio allenatore nell’Espanyol, Javier Clemente.

Fu Beara a convocarti per la prima volta in Nazionale maggiore?

Sì, ma accadde qualcosa che ritardò il mio esordio. Era lunedì e io e un altro portiere, diciottenne come me, fummo convocati per un allenamento extra mercoledì alle 16, in vista della prima convocazione in Nazionale maggiore. Il campo sportivo distava due chilometri da casa ma l’allenamento del lunedì era stato talmente duro che martedì avevo ancora male dappertutto, così mercoledì decisi che sarei rimasto a casa e il mio compagno fece altrettanto, quasi come se fossimo stati in contatto telepatico. Vladimir ci aspettò fino alle 17, poi se ne andò furioso. Per questo fummo esclusi entrambi dal gruppo per un bel po’. In quel momento mi resi conto che dedizione al lavoro e disciplina sono fondamentali. Mesi dopo Beara mi fece debuttare con la Liberia e da quel momento non persi più il posto da titolare.

Come si prepara un portiere?

Da preparatore mi occupo principalmente dell’organizzazione del lavoro dei miei ragazzi. La mia metodologia è mista, sia tecnica, sia analitica: per me è importante che il portiere sappia in che modo si schiera la squadra per saper posizionarsi correttamente e poter essere utile ai compagni. Oggi è molto più difficile essere portiere rispetto a quando giocavo io, perché è fondamentale essere bravi anche con i piedi.

Sei il preparatore dei portieri dell’Espanyol dal 2003. In questi anni la società ha cambiato tre presidenti e svariati allenatori, ma tu sei sempre qui. Come te lo spieghi?

Si vede che il mio rendimento è costante e fruttuoso e che la mia maniera di lavorare viene giudicata positiva e senza alcun condizionamento. Inoltre i portieri che ho allenato hanno sempre fatto bene. Ad esempio adesso Kiko Casilla è nel giro della Nazionale spagnola.

Sei stato il primo portiere di colore a giocare in Europa, all’Espanyol dal 1982, che ricordi hai?

All’epoca c’erano molti pregiudizi sulle qualità dei portieri africani, da molti ritenuti inadeguati e poco sicuri nelle uscite. Ma anche qui, una volta arrivato, sono diventato titolare e non ho più perso il posto.

Ancora oggi ci sono pregiudizi simili, o peggiori.

Il razzismo è solo una scusa per offendere qualcuno. Ho sempre affrontato questo problema con filosofia, perché non è il colore della mia pelle che mi fa odiare dai tifosi avversari bensì il mio talento e il mio rendimento. Il razzismo si percepiva anche ai miei tempi, ma io ho sempre preferito concentrarmi sul mio gioco piuttosto che sulle grida di chi mi bistrattava, anzi rispondevo ai cori razzisti con una risata.

Pensi che il percorso di Balotelli sia stato turbato da questi problemi?

Non lo conosco personalmente, ma credo che oggi come oggi noi neri dobbiamo saper tollerare tutte le critiche velleitarie e senza senso. Soprattutto noi sportivi perché siamo dei privilegiati e non conosciamo la vera faccia del razzismo.

Cosa ne pensi delle recenti dichiarazioni di Arrigo Sacchi, che ha parlato di un’eccessiva presenza di calciatori di colore nelle squadre giovanili italiane?

Quelle di Sacchi sono state delle dichiarazioni inopportune, datate rispetto al periodo storico in cui viviamo. Siamo in piena globalizzazione e i matrimoni tra neri e bianchi sono all’ordine del giorno, così come gli scambi tra culture differenti. A Sacchi mi verrebbe da dire che il problema dei vivai in Italia deriva in primis dalla mancanza di organizzazione piuttosto che dalla presenza di troppi elementi di colore. Ha messo le mani avanti dicendo di aver allenato calciatori di colore, ma non cambia il contenuto delle sue affermazioni. Forse sarebbe meglio chiedere scusa. I neri sono il bersaglio facile; è sempre colpa dei neri. Soprattutto degli africani. Mi viene da ridere perché spesso si stigmatizza tutto ciò che di negativo viene dall’Africa, ma non si ricorda mai quanto di buono arrivi dall’Africa, come le risorse naturali e gli alimenti.

Come mai un Pallone d’oro africano non ha mai giocato in una grandissima squadra europea?

In quegli anni le frontiere erano difficili da oltrepassare ed erano permessi solamente due giocatori stranieri per squadra. Era anche rischioso prendere un portiere che occupasse uno di questi due posti.

C’è chi la chiamava lo Yashin nero. Cosa significava per te?

Significa essere considerati tra i migliori. Ultimamente non si dà molta importanza al ruolo del portiere, che si equivale a quello dell’attaccante, perché entrambi ti possono far vincere un titolo, anche se in maniera differente.

Qual è la principale dote di un portiere?

Il grande portiere è innanzitutto colui che non commette errori. L’importante è non subire gol, o fare interventi poco ortodossi... (ride).

Gigi Buffon è un tuo grandissimo ammiratore. Che rapporto hai con lui?

Gigi è un amico, a volte ci sentiamo. È stato un onore sapere che ha chiamato suo figlio come me. Era addirittura presente al mio addio al calcio giocato in Camerun nel 1999. Ti lascio immaginare lo stupore della gente nel vedere un ventenne bianco durante quell’occasione.

Buffon avrebbe meritato di vincere il Pallone d’oro nel 2006?

Assolutamente. E non solo quell’anno. Purtroppo nel calcio si premia chi fa i gol e non chi li evita, anche se in quell’occasione il Pallone d’oro lo vinse Cannavaro, che se l’era guadagnato con un gran Mondiale.

In Italia hai giocato i Mondiali del 1990, nei quali dovevi partire come riserva. Mi racconti come è andata?

Due settimane prima dell’inizio dei Mondiali, durante la preparazione in Jugoslavia, mi informarono che non sarei partito titolare, ragion per cui ero sul punto di fare le valigie e tornare all’Espanyol, che in quel periodo stava giocando le ultime giornate di campionato, decisive per tornare in prima divisione. Alla fine, però, la dirigenza e alcuni allenatori che mi avevano guidato in passato mi convinsero a restare. Il posto da titolare lo conquistai allenandomi come sempre, senza scoraggiarmi. Alla vigilia dell’incontro iniziale con l’Argentina il portiere titolare Bell rilasciò delle dichiarazioni polemiche riguardo la squadra e la Federazione. Mi comunicarono che sarei stato il titolare di quella storica partita solo cinque ore prima del calcio d’inizio.

L’inizio di un sogno. Il Camerun arrivò ai quarti di finale dopo aver battuto la Colombia 2 a 1 a Napoli. In quella partita un altro grande portiere, René Higuita, vi fece però un bel regalo perdendo palla in uno dei suoi dribbling.

(Ride). Sì, fece un bel regalo a Roger (Milla, ndr).

Poi, sempre a Napoli, la sconfitta per 3 a 2 contro l’Inghilterra, arrivata dopo essere stati in vantaggio 2 a 1 fino al minuto 82.

Credo che in quell’incontro abbiamo peccato di presunzione e di inesperienza. Ci mancavano otto minuti per raggiungere la semifinale ma abbiamo voluto continuare ad attaccare cercando il terzo gol. Avremmo dovuto essere più umili e cercare di gestire il risultato.

Il rigore del 2 a 2 fu piuttosto dubbio.

L’arbitro fischiava più a favore degli inglesi, quindi avevo accumulato della rabbia che sfogai in quel momento. Quel rigore fu molto più ingiusto di quello che sarebbe stato fischiato dopo, quando Lineker si lanciò su di me e non riuscii a frenarmi.

Quali furono le tue sensazioni quando scendesti in campo nello stadio che fu di Maradona?

Fu fantastico. Durante il giro d’onore dopo la vittoria con la Colombia tutto il pubblico ci applaudì con molto entusiasmo. Dopo il Mondiale sono tornato varie volte a Napoli per vedere Diego, con il quale avevo un ottimo rapporto anche se ormai non ci sentiamo più.

Nel 2002, quando eri preparatore dei portieri del Camerun, sei stato accusato di aver usato la magia nera.

In Africa succede anche questo. Alla vigilia della semifinale contro il Mali padrone di casa fui preso dalla polizia e ammanettato. Pensavano che grazie a dei presunti rituali di magia nera avrei penalizzato il Mali prima dello scontro con il Camerun. Al nostro allenatore, il tedesco Winfried Schäfer, non fu torto un capello, quando in realtà l’unico tra i due con qualcosa di magico era proprio lui. La miglior vendetta me la diede il campo con il 3 a 0 in semifinale e la vittoria della coppa.

Oltre a te il Camerun ha altri due idoli: Roger Milla e Samuel Eto’o. Chi scegli tra i due?

Bella domanda. Sono due fenomeni differenti. Roger è un genio, Samuel è un vincitore che ha sfruttato la sua voracità per ottenere dei risultati che nessuno ha mai ottenuto in Camerun.

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