Il fenomeno—oggi
La finale dell’Australian Open del 2015 contro Maria Sharapova è una delle ultime prove dell’incontenibilità statuaria del gioco di Serena Williams. Sharapova ci arriva battendo Eugenie Bouchard ai quarti e Ekaterina Makarova in semifinale, entrambe per 6-3/6-2, mentre la statunitense batte Dominika Cibulková prima per 6-2/6-2 e Madison Keys poi per 7-6/6-2. Serena accusa una bruttissima tosse durante tutto il torneo, che però non sembra ostacolarla davvero; ce ne dimentichiamo, vedendola giocare.
Durante questa partita Sharapova tenta l’impossibile: spinge l’avversaria all’estremo, forza i colpi agli angoli del campo, la costringe a giocare al meglio delle sue possibilità. Forse ricorre a troppi drop shot, per cercare una via d'uscita dallo scontro da fondocampo. Williams è inarrivabile, però: ribatte ogni servizio, è irraggiungibile quando è lei a condurre il gioco. Durante il secondo game, ad esempio, Serena ha appena ottenuto l’1 a 0, sono 30 pari, ha la battuta e prima si porta sul 40-30 con un rovescio a rete angolato che spiazza l’avversaria, poi ingaggia una battaglia per il punto successivo con un controllo dei fondamentali e un gioco di gambe tutto suo: quando i muscoli la servono, prenderla è davvero impossibile.
In Australia, Serena vince per la sesta volta, nessuna nell’Era Open ha saputo fare altrettanto in questo torneo. È numero uno nella classifica WTA a trentatré anni.
Alla fine del match Maria Sharapova ammette la superiorità della rivale, dice di aver fatto del suo meglio, rassegnata. Il conto delle vittorie della statunitense sulla russa è inesorabile: diciassette a due, quattro sono finali di tornei dello Slam. Williams ne ha vinte tre, la rivale solo una, memorabile, a Wimbledon nel 2004. A marzo di quest'anno Serena fa suo anche il torneo di Miami contro Carla Suárez Navarro con il punteggio senza storia di 6–2/6–0, e raggiunge la vittoria numero settecento in carriera.
In semifinale incontra Simona Halep e la batte in tre set (6–2/4–6/7–5). Spinge l’avversaria da una parte all’altra del campo, la sfianca sul fondo, al limite della linea; avanza, velocizza verso la rete e aggredisce sempre per conquistare lo spazio; si mantiene sull’argine bianco del campo, stretto e pericoloso, familiare solo alle campionesse. È ormai chiaro come l’incontro sia saldamente nelle mani della statunitense, anche se la romena non demorde, recupera punti e colpi vincenti, conquistando il 5 pari.
A questo punto Serena Williams esplode, e lascia a 0 l’avversaria nell’ultimo e decisivo game. Nel tennis, vincere a 0 è comune e spesso non è determinante per una partita. Quando è Serena a vincere a 0, è una questione sentimentale: ha a che fare con una forma di riscatto viscerale, e lei trova l’unico modo per esprimerlo nel non essere clemente, non averne la capacità.
Un punto per parte. Terzo set, 3-1: Simona guadagna un punto faticoso e lungo, costringendo Serena a un recupero eccezionale di dritto, che vola alto e lascia il campo a uno smash spettacolare di Halep (minuti 1:25-1:55). 5 a 4, punto del 30 pari: stavolta è Serena stavolta che mette a segno lo smash (minuti 2:55-3:08).
Williams avrebbe già dovuto incontrare Halep, subito prima di Miami, nella semifinale di Indian Wells, ma si ritira per un infortunio al ginocchio destro. La sua partecipazione al torneo rimane comunque importante, perché è un ritorno.
La semifinale del 2001, che vedeva le due sorelle Williams una contro l’altra sul tabellone, non si giocò perché Venus si ritirò per problemi al ginocchio. Le voci mai accertate di una presunta combine arrivavano da più parti e durante la finale i Williams—tanto Serena in campo quanto Venus e Richard sugli spalti—furono fischiati dal pubblico. Anche dopo il match point i fischi continuarono, mentre Venus e suo padre lamentarono di essere stati investiti da frasi razziste, quindi la famiglia Williams decise di non prendere più parte al torneo.
Durante la conferenza stampa prima del torneo di quest’anno, Serena dice: «Mi è stato insegnato, quando ero giovane, di provare ad avere sempre la visione d’insieme, quindi cercare di superare quel nervosismo, i miei sentimenti, come sarebbe stato tornare. Quando dimentichi, quando perdoni, devi dimenticare anche alcune emozioni. Credo che sia davvero importante accettarsi per quello che si è. Quando si è nella posizione di essere un modello per gli altri, perché non farlo. Sento che questa è l’opportunità perfetta per me per farlo».
Il fenomeno—ieri
Nel 2013 arriva la seconda vittoria al Roland Garros, dopo undici anni di digiuno sulla terra rossa di Francia, da quel torneo del 2002 che diede inizio al suo anno d’oro. È una tra le più importanti in assoluto, fautrice del consolidamento dell'attuale primato in classifica e l’avversaria è, nemmeno a dirlo, Maria Sharapova, battuta con 6-4/6-4.
Quando le due si scontrano il presupposto è sempre uno: Maria deve dimostrare di essere all’altezza, partendo sempre dall’inevitabile sconfitta, e cercare per quanto possibile di non subire una umiliazione. Sa che a un certo punto sarà compatita, larva in un bozzolo. E durante gli incontri deve mettere in campo diversi superpoteri—uno solo non basta—ogni volta qualcosa che liberi la farfalla, almeno per qualche game. Riesce a portare a termine partite strepitose, ma non basta mai.
A Parigi nel 2013, la russa è la campionessa uscente e sui primi punti sembra poter ribaltare il solito scenario: finalmente sembra eliminare la frustrazione provocata dalla rivale: salva tre palle break, portandosi sul 40 pari, e conquista il primo gioco con un servizio poderoso.
Nel secondo set arriva il superpotere: Williams è molto imprecisa sul servizio e sui colpi incrociati, mentre Sharapova si porta sul 2 a 0. Poi Serena ingrana, spazza via le incertezze e approfitta del nervosismo dell’avversaria, che non riesce a prendere per un soffio una risposta, e risale sul 2 a 1. Williams riesce a scardinare l’ennesimo superpotere: Sharapova non è più incisiva come prima, non riesce nemmeno a tenere il servizio nel gioco successivo, quindi la statunitense pareggia.
Il primo set si piega a favore di Serena, e nel secondo la storia si ripete: Maria tiene il servizio nel primo gioco, salva cinque palle break, ma non riesce ad allungare. E ancora, di nuovo, come sempre, Serena ruggisce.
Williams insiste con il gioco a rete, accelerando, porta Sharapova al limite. Il match point è un ace.
Quando Serena alza la coppa, nel suo discorso di premiazione (tutto in impeccabile francese) ringrazia chiunque del sostegno, quasi per ringraziare sé stessa, senza dirlo apertamente: è riuscita a ritrovare il suo gioco su uno dei campi per lei più ostici. Stringe la coppa forte al cuore, l’antidoto a tutte le sconfitte e a tutte le sfortune.
Dopo l’Open di Francia perde a Wimbledon agli ottavi e a Cincinnati in finale, ma conquista l'US Open contro Victoria Azarenka con il punteggio di 7–5/6–7/6–1.
Prima del 2013, Azarenka ha battuto Williams solo una volta, a Miami nel 2009. A Flushing Meadows, la bielorussa resiste per due set. Lo fa con un gioco molto preciso, spesso angolato, sfruttando una grande mobilità. Non sbaglia molto, mentre Serena sembra usare una strategia molto più accorta e contenitiva, che non le fa abbandonare mai il match; colpo su colpo, nonostante il vento e proprio alla maniera del vento per indirizzare l’avversaria dove vuole.
Durante il primo set, Victoria Azarenka rimane sempre in partita e non concede né spazio né aggressività all’avversaria. La ferma in diversi momenti cruciali, in modo esemplare: con un passante di dritto che vale il primo punto del quarto game (minuto 1:15), con un rovescio angolato sul fondo che la porta al 15 pari nel quinto game con il punteggio di 2 pari nel set (minuto 1:26) e dopo un lungo scambio in cui Azarenka si impone con un dritto incrociato, ancora nell’angolo più lontano, nonostante la statunitense avesse spinto nel tentativo di farla uscire dalla linea di fondo in cui si era rintanata (minuto 4:12).
Nel terzo set Serena morde l’incontro e non lo molla più. Il match point è un secondo servizio profondo che Victoria riesce a respingere, ma troppo lungo. Il terzo set è, semplicemente, la fotografia di un trionfo.
Intermezzo uno
A guardarla oggi, coriacea sui campi da gioco e rasserenata fuori, viene da domandarsi se le continue ascese e discese che hanno segnato la sua carriera siano la benzina principale della macchina fenomenale che vediamo. Sono diverse le giocatrici tecnicamente forti, molte quelle preparate atleticamente; solo lei, però, sa vincere quando a chiunque altro appare impossibile: vede la risalita dal pozzo quando gli altri vedono solo il fondo e durante la sua carriera questa determinazione accecante ha contribuito a farla tornare sempre, e più forte di quando si era allontanata.
Due in particolare sono stati i momenti più tragici della sua vita, che prima fisicamente e poi emotivamente l’hanno abbattuta: il più recente è l’anno che va da luglio 2010 a giugno 2011 e l’altro è il biennio di fine 2004-fine 2006.
Nel 2009 Serena Williams torna in vetta per rimanerci fino a Wimbledon 2010, dove vince contro Vera Zvonareva. Poco dopo, a Monaco, calpesta dei vetri rotti fuori da un ristorante, procurandosi un taglio al piede, sembra un piccolo incidente, salvo poi doversi operare e saltare il resto della stagione. Perde la testa della classifica e inizia il travaglio. Quasi al recupero, a marzo 2011, ha un’embolia polmonare che la tiene fuori ancora sino a giugno, le causa una depressione e l’impossibilità di allenarsi e partecipare ai tornei. Il ritorno, in recupero, è a Eastbourne nel 2011, dove non va oltre il secondo turno, e poi a Wimbledon, dove perde contro Marion Bartoli (nona nel ranking) al quarto turno. Proprio prima del torneo di Eastbourne, Serena dice: «Ero sul letto di morte—letteralmente. […] All’inizio mi avevano detto che sarebbe andata bene, sarebbe andato tutto bene ma le cose si sono fatte serie. Se l'avessero trascurato per altri due giorni sarebbe stata la fine della carriera—o anche peggio. Mi hanno detto che avevo diversi trombi in entrambi i polmoni. Si muore per queste cose».
Rinasce, quindi, e si arrampica, ricomincia a macinare vittorie e punti in classifica WTA: nel 2011 finisce l’anno dodicesima, nel 2012 terza, nel 2013 prima, quando raggiunge tredici finali vincendone undici—a un passo dal record di Martina Hingis (dodici) del 1997—e conserva il primato fino a oggi: è il vero e proprio Momento Del Ritorno.
Intermezzo due
Lindsay Davenport ha vinto cinquantacinque titoli nel singolo e trentotto in doppio, una medaglia d’oro alle Olimpiadi nel 1996 ed è stata al numero uno della classifica WTA. Contro Serena Williams gioca quattordici volte perdendo in dieci occasioni. Sono solo quattro le finali in cui le due si affrontano: nel torneo di Los Angeles nel 2000 e nel 2004, in cui vantano una vittoria a testa, in quello di Monaco nel 2001, quando vince Serena, e agli Australian Open del 2005, quando Lindsay è numero uno al mondo, mentre Serena è settima. La finale è una partita difficile fin dall’inizio per Serena: durante il primo set, perso 2-6, accusa diversi problemi alla schiena che la costringono a un gioco molto difensivo, arretrato.
Tuttavia Serena recupera e batte Lindsay 6-3/6-0 nel secondo e terzo set. Sull’ace vincente che chiude il secondo set, dopo aver lasciato Davenport a zero nel game, Williams davvero (minuto 2:20) ruggisce. Serve nonostante il corpo, colpisce la pallina trovando una energia, specie mentale, fino a quel momento nascosta.
L’ace che vale la vittoria è figlio di uno dei momenti-Serena, uno spazio-tempo solo apparentemente insignificante, compresso tra gli altri che compongono una partita. È l’attimo della svolta in cui lei trova, stipato nella mente, il colpo perfetto: può essere solo un punto, può valere un game o un set, non importa, perché è quel frammento che conta. È quando lei ruggisce. E vince.
Dopo l’Open australiano, il 2005 le riserva solo delusioni: una distorsione alla caviglia sinistra le impedisce di giocare il Roland Garros, per la prima volta dal 1999 non si qualifica per le Finals di fine anno e rimane fuori dalla top 10 del ranking WTA: non succedeva dal 1998.
Il 2006 non va meglio: dopo strazianti problemi fisici e periodi di depressione, l’anno si conclude con un posizionamento WTA a tre cifre. Dopo l’eliminazione al terzo turno degli Australian Open per mano della slovacca Daniela Hantuchová, gioca a Cincinnati a luglio, arrivando fino alla semifinale persa 6-2/6-3 contro Vera Zvonareva; a Los Angeles, perdendo sempre in semifinale da Jelena Jankovic per 6-4/6-3 e allo US Open, dove, per la prima volta in carriera, deve giocare le qualificazioni.
È novantunesima al mondo, non va oltre gli ottavi di finale: la elimina Amélie Mauresmo, contro cui, fino a quel momento, ha perso solo una volta, a Roma nel 2003. Ma è durante questo incontro che arriva un nuovo momento-Serena: e stavolta è un bagliore, a cui lei si aggrapperà. Pur perdendo il primo set, infligge nel secondo un 6-0 a una delle più importanti top player del momento. Lascia incredula la sua avversaria, che sul 2 a 0 va alla battuta perplessa, quasi preoccupata: cosa sta succedendo di fronte ai suoi occhi? Non sarebbe dovuto essere facile? Dopotutto, Serena non avrebbe dovuto nemmeno giocare, dopo Melbourne.
Nel terzo set cede definitivamente, ma sa di avere fatto ancora una volta l’impossibile, infatti il 2007 è uno degli anni della risalita. Parte dall’Australian Open contro Maria Sharapova, vinto in finale con un copione rodato: 6-1/6-2 e, per la prima volta dopo due anni, arriva ai quarti di finale negli altri Slam.
Intermezzo tre (una cosa che non capiterà mai più)
Serena Williams trova spesso il modo di spuntarla anche quando sembra soffrire fisicamente per gli strascichi di un infortunio. Ne è un esempio la conquista del torneo di Miami del 2004 contro Elena Dementieva, con il punteggio di 6-1/6-1 in cinquanta minuti, in cui Serena gioca un match perfetto, prende subito il totale controllo della partita e vince undici giochi consecutivi. Torna a vincere in modo schiacciante dopo un infortunio grave e una operazione al ginocchio che l’hanno tenuta fuori dal campo per otto mesi, dopo la vittoria a Wimbledon dell’anno precedente contro Venus Williams per 4-6/6-4/6-2. Lascia senza fiato: le sue ginocchia la portano fedelmente da un capo all’altro del campo come fossero nuove, aggrediscono il cemento e l’avversaria come se stessero di fronte a un muro crepato.
Dopo aver perso il primo set, Serena non concede altro, non può, non deve: fa la partita affondando con potenza dalle retrovie e velocizzando il gioco a rete, per chiudere i punti migliori. Non vuole lasciare spazio a contromosse o strategie, e per quanto Dementieva provi ad arginarla, cresce punto dopo punto, diventando incontenibile.
Serena recupera e vince, sì, ma quell’anno è disgraziato: nel 2004 termina al numero sette in classifica, senza aver vinto nemmeno un torneo dello Slam, cosa che non succedeva dal 2001.
Sono passati pochi mesi dalla grande stagione 2002-2003, eppure si è sgualcito il tocco della vittoria. Aveva passato anni a rincorrere sua sorella Venus nei primati e nei successi e, una volta agguantati, sembra che Serena sia ridotta al lumicino, indifesa, e il recupero dall’infortunio al ginocchio non aiuta.
Il 2004, non a caso, è l’anno della finale di Wimbledon contro Maria Sharapova, in quel momento tredicesima al mondo, che si impone con 6-1/6-4 e si intromette non solo nel recupero di condizione di Serena ma anche nell’egemonia delle sorelle Williams che, prima di allora, non era mai stata scalfita per davvero.
Maria vince il suo primo Slam, proprio quello Slam, a soli diciassette anni. Non è tanto la sua età a sorprendere, quanto il modo in cui si afferma: insospettabilmente schiacciante. Prende le redini del match senza remore e fin da subito, aggiudicandosi il primo set velocemente. Gioca di affondo: la potenza di Sharapova è più fresca, precisa, Williams appare scricchiolante e arrugginita, quasi infastidita. Sul 6-1 il pubblico di Wimbledon è incredulo, applaude un rinnovamento che vede schiudersi davanti agli occhi, tenace e niente affatto arrogante.
Serena tenta una rimonta all’inizio del secondo set, provando a forzare maggiormente i colpi lunghi e a riacquistare lo spazio del campo, ma sbaglia molto nella precisione, fino a cedere completamente concedendole la finale, le aspettative, il Tempio del tennis mondiale e, in quel momento, parecchie delle sue sicurezze.
Le due si scontreranno anche a fine anno, nelle WTA Finals di Singapore, dove è ancora Maria Sharapova a vincere in tre set, con punteggio di 4-6/6-2/6-4. Maria si aggiudica subito il primo game e fino al 4 pari del primo set la partita sembra molto equilibrata. Serena costringe l’avversaria a più movimenti lungo la linea di fondocampo, non è attonita come durante la finale di Wimbledon. Le prende le misure, la stanca, riacquista quello che le appartiene: la mentalità determinata della vittoria. L’impressione è che Maria sia più imprecisa nelle risposte e meno incisiva nei colpi più importanti.
Il rientro in campo nel secondo set e poi il terzo, però, sono inesorabili: l’energia mentale e fisica di Williams scema, mentre Sharapova riacquista coraggio, il servizio impeccabile e l’aggressività nel fondamentali. Uno dei punti migliori di Sharapova è al minuto 1:18, arriva dopo uno scambio eccezionale in cui la russa risponde e affonda il colpo decisivo con un diritto veloce e potente, che viene ribattuto dalla statunitense con pochissime speranze.
Dopo questa finale, Maria Sharapova non vincerà mai più contro Serena Williams, almeno fino a oggi.
Il fenomeno—perché nasce la leggenda
In allenamento, Venus e Serena giocano spesso una contro l’altra, e da ragazzina Serena sceglie l’unico modo possibile per batterla: imbrogliare.
In Serena Williams. My life, scritto con Daniel Paiser e pubblicato in Italia dalle Edizioni Mare Verticale, a pagina 69 scrive: «[…] E poi odiavo perdere e sapevo che se avessi giocato correttamente con lei, probabilmente avrei perso. Così chiamavo una palla fuori quando era dentro. Insistevo nel dire che un mio colpo era chiaramente dentro quando non lo era. La mia bugia era senza scuse, davvero. Venus era più brava di me, ecco tutto. Era solo il mio modo per cercare di vincere. Era sbagliato, lo ammetto, ma mi pareva di essere costretta a farlo per stare al passo. Non sembrava che a Venus importasse. Non diceva mai niente. […]».
Leggere questa confessione fa ridere e suscita quasi tenerezza, pensando a cosa Serena riesce a raggiungere sui campi di tutto il mondo nella stagione 2002-2003: è la quinta tennista ad aver conquistato tutti e quattro i trofei del Grande Slam consecutivamente, partendo dal Roland Garros del 2002 fino all’Australian Open del 2003. Per farlo, in finale batte sempre e solo sua sorella, componendo quella che passa alla storia del tennis come la stagione del “Serena-Slam”, l’anno del ribaltamento del paradigma che l’aveva accompagnata fin da ragazzina: non è più la sorellina meno brava, meno carina, meno atletica, meno determinata, meno forte, ma è finalmente l’indomabile numero uno.
A Parigi finisce 7-5/6-3 e a Melbourne 7-6/3-6/6-4, ma è a Wimbledon e New York che le sorelle Williams decidono di dare lezione di grande tennis. La finale di Wimbledon 2002, vinta con il punteggio di 7-6/6-3, segna un momento storico per Serena: dopo questa vittoria diventa numero uno nel mondo per la prima volta.
(Dal minuto 1:05) Serena fa una partita molto matura: aspetta gli errori dell’avversaria e ne approfitta, soprattutto nel secondo set, controlla il servizio e imposta la sua azione da fondocampo, sfodera dei dritti veloci e potenti, incrocia il rovescio e apre il gioco fino a trovare il tempo giusto per arrivare a rete, mettere in difficoltà Venus e conquistare il punto.
A New York, infine, finisce 6-4/6-3: Venus vince il primo gioco segnando punti veloci, impostando l’azione costringendo Serena a continui spostamenti sulla linea di fondo, ma Serena non demorde, cerca lo spazio per rimpostare il copione del torneo precedente, aggiungendo più cattiveria e convinzione e si porta a casa il suo secondo US Open.
Il “Serena-Slam” non è solo l’inizio roboante della leggenda, ma è anche un traguardo personale riuscito per le ragioni più imperfette tra quelle possibili: battere Venus e dimostrare qualcosa a qualcuno. Sempre in Serena Williams. My life, l’ottavo capitolo racconta il preludio a quell’anno strabiliante. Il titolo è “Lo Slam del mio ex” e a pagina 183 (siamo nel 2001) scrive: «[…] Quel ragazzo mi aveva spezzato il cuore. Poi aveva strappato i due pezzi, li aveva calpestati sotto i suoi piedi e li aveva schiacciati sotto la sua auto. E la cosa peggiore fu che mi fece pensare che la colpa fosse mia. […] Allora, che cosa feci? Me ne andai in Germania a giocare in un torneo. Non l’avevo programmato ma ci andai. Nel mio quadernetto degli appunti, misi il suo nome sul margine per ricordarmi che avevo qualcosa da dimostrargli. A lui e a me. Dopo di che continuai a vincere».
Pensare di avere qualcosa da dimostrare è stato il filo rosso che ha unito le partite di Serena nei primi anni Duemila. Per lei, c’era sempre stato un destinatario preciso, in campo, cui far recapitare il suo ruggito: la sorella, la Davenport, la Kournikova, la Mauresmo, la Capriati. Ma le si è parato davanti, minaccioso e subdolo, uno fuori dal campo, capace di rubare le solida fondamenta: un’anti-Serena fragile e debole, incapace di fronteggiare dei vuoti, continui set in cui viene lasciata a zero dalle vittorie mancate, dal colore della pelle, dalla paura del fisico che non regge, dall’energia mentale sfuggente.
Da quassù il panorama è meraviglioso
Serena Williams è stata a lungo la sorellina scarsa di Venus, ha visto arrivare la fine della carriera e l’ha schivata, ha affrontato la depressione e un lutto grave, è caduta tante volte quante si è rialzata, ma nel frattempo ha vinto in un modo unico e totale—con la mente, il corpo, i numeri, l’emozione—che tutto sembra tranne che prossimo alla fine. Ha conquistato, tra gli altri, un totale di trentaquattro titoli del Grande Slam, diciannove dei quali in singolare (appena tre in meno del gigante Steffi Graf), tredici in doppio (tutti con Venus) e due in doppio misto (entrambi con Max Mirnyi), nonché quattro medaglie d'oro alle Olimpiadi (nel 2000, 2008 e 2012 in doppio e nel 2012 in singolare). È anche l'unica ad aver completato il Career Golden Slam sia in singolare che in doppio.
Vogue, nell’aprile 2015, ha dedicato la copertina a Serena, che in questo video gioca, si allena e balla su “7/11” di Beyoncé al BallenIsles Country Club.
Esiste una costante per Serena, un prima e un dopo in cui affronta il peggio o il meglio. L’aspetto interessante è che lo fa nello stesso modo: ruggendo e ricominciando meglio di prima. Spesso i tennisti raccontano, in età più matura e con tanti successi alle spalle, di giocare con maggiore serenità, di divertirsi maggiormente. Serena Williams non fa eccezione e la contrapposizione tra la giovane Serena dell’affermazione dirompente e quella adulta di oggi, statuaria e grintosa, è lampante. Oggi è una donna molto consapevole delle sue prerogative, che, partita dopo partita, sta imparando a gestire sé stessa come se fosse il dono più prezioso. Che pretende forza e salute. Non le basta semplicemente vincere.