Sto guardando su YouTube un tizio che gioca a Mario 64, il leggendario platform del Nintendo 64, antenato dell’attuale Mario Odissey per Switch, campione di incassi e di critica. Ma questo non ci gioca come facemmo io e te quasi venti anni fa. No, questo si muove camminando all’indietro, anzi saltando all’indietro, fa le scale così; poi passa attraverso le porte, attraverso le pareti, affronta il boss finale e finisce il gioco in sei minuti e quarantaquattro secondi. Senza prendere nessuna Stella, cioè gli oggetti che, nell’intenzione del game designer, ti consentono di accedere al livello successivo: ma a lui che gli frega, lui passa attraverso le porte. Nei video suggeriti ce ne sta un altro di un tizio che invece prende tutte e 120 le Stelle disponibili nel gioco e lo fa precisamente in un’ora, trentanove minuti e ventotto secondi netti. Io e te ci abbiamo messo mesi, semmai ci è presa la voglia di farlo.
Le persone di cui stiamo parlando si chiamano rispettivamente Akira e cheese05 e sono i due campioni del mondo che detengono il titolo di Mario 64, nella categoria 0 Star (detta generalmente any %, cioè gioco finito a qualsiasi percentuale, senza contare gli achievements opzionali) e in quella 120 Star (chiamata anche full %, che indica il gioco completato perfettamente). Sono gamer professionisti e la loro disciplina si chiama speedrun.
Alla base della logica dei videogame
La speedrun sta avendo un’inaspettata fortuna negli ultimi anni. Nonostante non sia tra le discipline più frequentate e iconiche dei videogiochi competitivi, comunemente detti e-sports, si può dire che sia la più antica.
L’obiettivo è finire il gioco nel minor tempo possibile, a determinate condizioni che generano rispettive categorie: a qualsiasi percentuale, completando tutte le missioni secondarie, oppure con o senza l’uso di “glitch”, cioè sfruttando o meno i buchi dell’universo virtuale creato dai programmatori. In realtà la maggior parte delle speedrun si fondano sull’abuso dei glitch e solo in alcuni casi viene individuato un glitch talmente grande che fa nascere una sua categoria specifica: per esempio alcuni giochi hanno la categoria “out of bounds”, “fuori dai confini”, che raccoglie tutte quelle performance in cui il giocatore ignora completamente la struttura del livello, muovendosi nel buio della matrix videoludica.
Ogni titolo fa storia a sé e le categorie in cui gli speedrunner competono emergono dalla storia di quella community: Mario64, per esempio, ha la categoria a 100 stelle, quella a 70, quella a 16, a 1 e infine a 0; ognuna figlia di momenti di svolta in cui si scopriva che il gioco poteva essere completato con questo o quel limite. In altri giochi che hanno avuto delle riedizioni, come Half Life 2, si compete con l’Old Engine, il software originale, o con il New Engine, cioè il motore del remake che ha corretto alcuni glitch, aprendone però degli altri.
In generale, le categorie completamente prive di glitch sono poche e non così giocate. Parte integrante dello speedrunning consiste appunto nel “rompere" il gioco: un hacking immanente che non lavora “sul” codice ma “dopo” il codice, sfruttando tutti i buchi che i programmatori hanno lasciato dietro di sé: si attraversano muri, si accelera all’inverosimile, si diventa invincibili, ci si teletrasporta attraverso i livelli e così via.
Nonostante questa pratica di decostruzione dell’universo videoludico suoni aliena alla maggior parte dei videogiocatori, ho detto che la speedrun è forse il più antico esport di sempre perché il presupposto alla base della disciplina era lì dalle origini dei videogame. Per capirlo, ci aiuta montare un’analogia con gli sport tradizionali, paragone recentemente sdoganato dall’apertura del CIO agli e-sports.
Sommariamente, gli sport vengono divisi in due tipi: sport di squadra e sport individuali. Azzarderei, però, un ulteriore suddivisione degli individuali, cioè tra sport 1 contro 1 e sport contro il record, cioè contro l’unità di misura. Nel calcio, nel basket, nella pallavolo, due squadre si fronteggiano. Nel tennis, nella scherma e nella boxe sono due individui a sfidarsi. Ma in tanti altri sport, come il nuoto o la maggior parte dell’atletica leggera (tra l’altro gli sport olimpici per antonomasia), accade qualcosa diverso.
Apparentemente siamo in una situazione di uno contro molti, ma a ben guardare non esiste una dialettica tra questo uno e i molti, nessun rapporto, nessuno scambio, nessun vera influenza reciproca. Certo, nel nuoto c’è la questione dello spostamento dell’acqua causato dagli altri atleti e nei cento metri non è indifferente quale corsia occupi. Ma aldilà del fatto che l’influenza di questi fattori è risibile e raramente viene evocata per giustificare una performance, ci sono altre discipline (come le varie competizioni di salto o di lancio di un oggetto), che costituiscono il laboratorio perfetto per questa tesi. Nel salto in lungo, l’atleta compie la sua performance in perfetta solitudine: c’è solo lui e l’unita di misura, il punteggio che riesce a raggiungere. La competizione con i suoi avversari avviene solamente per tramite di quest’unità di misura, ma tra gli atleti non c’è relazione, potrebbero persino non incontrarsi affatto.
Possiamo tracciare la stessa tripartizione negli e-sports. Gli e-sports di squadra sono quelli che attualmente fanno i numeri più impressionanti, cioè i MOBA (Multiplayer Online Battle Arena, come League Of Legends) e gli FPS (First Person Shooter come Overwatch); se ne è parlato qui. Quelli 1 vs 1 vedono i picchiaduro come genere principe, nonché quello che ha popolarizzato il concetto di e-sports (I vari Street fighter e Tekken, ma anche anomali come Super Smash Bros di cui parlai qui. E infine ci sono proprio le speedrun, il gamer contro l’unita di misura.
Storia delle speedrun
Essendo un’attitudine implicitamente iscritta nei videogiochi stessi (o per lo meno in alcuni di essi), non si può rintracciare una vera e propria nascita delle speedrun quanto piuttosto seguire il percorso di una progressiva formalizzazione della disciplina.
Come facilmente sospettabile, un grosso spartiacque in questo percorso è costituito dall’avvento di un internet diffuso, tra gli anni novanta e duemila, poi nuovamente trasformato, in tempi molto recenti, dalla nascita di alcune piattaforme web 2.0, di cui parleremo a breve. Prima di internet, nell’ambiente più circoscritto della Real Life, l’implicita competizione dei videogame che oggi si allarga su scala mondiale, si sfogava nelle sale giochi che avevano il loro provinciale campione di Street Fighter o recordman di Space Invaders. Stupisce, tuttavia, che tentativi di coinvolgere i vari campioncini da baretto in circuiti più grandi, risalgono addirittura agli albori del medium. Il primissimo torneo di cui si ha memoria fu organizzato dall’università di Stanford nel 1972, intorno al gioco Spacewar!, e si vinceva un abbonamento annuale a Rolling Stones.
Otto anni più tardi, nel 1980, la Atari organizza un torneo di Space Invaders che attrae più di diecimila partecipanti, numeri che non hanno nulla da invidiare a quelli contemporanei. L’anno seguente, viene fondata la Twin Galaxies, un’organizzazione con lo scopo di raccogliere, verificare e pubblicare i record videoludici su scala mondiale, entrando anche in collaborazione con il ben noto Guinnes World Record che nell’edizione del 1983 accetta il suo primo record videoludico. La nascita di Twin Galaxies può essere letta come il primo atto fondativo del circuito speedrun. La società si occupava sia di organizzare eventi come tornei tra top player, sia di verificare i record mondiali fatti in separata sede, che prima di un organo ufficiale, erano semplici sparate da mitomani che nessuno poteva falsificare o sfocate fotografie a rischio manomissione. Per esempio, nella storia della speedrun di Donkey Kong, (che potete vedere su Summoning Salt, uno splendido canale YouTube che sta facendo molto per ricostruire e diffondere la storia culturale delle speedrun), Twin Galaxies è uno degli attori principali nell’ufficializzazione dei record tra due rivali che registravano con i barocchi strumenti dell’epoca: una telecamera montata su un tre piedi che punta su un cabinato da sala giochi.
In questo momento però “l’esport contro il record” non è una speedrun per antonomasia, cioè una corsa contro il tempo. È più legata al concetto di punteggio, interno a quei videogiochi che facevano espressamente mostra del record e classificavano i risultati ottenuti dai vari giocatori in una schermata apposita. Oggi questo tipo di record sono inseriti nel più specifico concetto di Speedrun, trasformato in termine ombrello. Ma affinché nascessero le speedrun vere e proprie, quelle basate sulla rapidità con cui si finisce un gioco che ha un inizio e una fine (solitamente un adventure, un platform e così via), dobbiamo aspettare il decennio successivo.
L’evento detonante è una modalità presente in Doom, videogame storico uscito nel 1993, che permetteva agli utenti di registrare brevi demo del gioco e condividerle online. La community si lancia nell’impresa di finire nel più breve tempo possibile i livelli selezionabili e, nel 1994 viene fondato COMPETE-N, un sito che aveva espressamente l’obiettivo di raccogliere le performance dei giocatori di Doom, diventando il primo sito di speedrunning della storia. Negli anni seguenti, altre community di players si ispirarono a quella di Doom e, da quella di Quake, nascerà nel 1998 Speed Demos Archive, un altro sito simile a COMPETE-N che però avrà il più ampio scopo di allargare la sfida a tutti i giochi, cioè potenzialmente tutti, diventando un punto di riferimento per la scena in espansione.
Negli anni zero, la community degli speedrunners cresce online, sparpagliata in vari forum. Va notato che in questa fase le tecniche di registrazione sono ancora primitive e macchinose. Gli archeologi delle speedrun, mentre si imbarcano nell’impresa di ricostruire la “world record progression”, trovano spesso solo tracce verbali dei momenti di svolta che furono. All’epoca i giocatori si prendevano l’onere di registrare una speedrun solo se credevano di essere in procinto di fare il record definitivo, quello che sarebbe rimasto per anni, forse per sempre. Oggi la situazione è opposta e abbiamo un’abbondanza inesauribile di performance registrate. A cambiare il tavolo da gioco non è stata solamente la maggiore accessibilità alla tecnologia di Video game capture, un dispositivo che registra direttamente quello che avviene sullo schermo, quanto l’avvento di un colosso delle telecomunicazioni digitali che ha cambiato gli e-sports in generale.
Twitch nasce nel 2011 come costola di Justin tv, una generica piattaforma di streaming di proprietà di Amazon che verrà surclassata proprio dalla sua costola e chiuderà i battenti nel 2014. La costola aveva un progetto più chiaro: diventare la televisione mondiale degli e-sports. La spinta di Twitch agli e-sports è incalcolabile. Non solo trasmette tornei che quotidianamente vengono svolti in tutto il mondo, dai piccoli weekly della sala lan di quartiere, ai mega eventi che riempiono i palazzetti dello sport e fanno milioni di telespettatori; Twitch ha anche dato agli e-sportivi di ogni gioco un modo concreto di tirare su un reddito, dando l’opportunità di aprirsi un canale personale dove mandare in onda i propri allenamenti giornalieri e interagire con la fanbase. Ed è proprio questo secondo uso che ha riconfigurato le speedrun donandogli le sembianze che hanno oggi. La quotidianità di uno speedrunner, infatti, consiste nell’accendere il suo gioco del momento, collegarlo a Twitch, e provare n volte a fare il record del mondo, in diretta, con tot persone che lo guardano e sperano sia la volta buona (i vods vengono comunque salvati sulla piattaforma).
Qua avviene una rivoluzione copernicana importante nella gerarchia tradizionale della competizione sportiva. Negli anni dieci compaiono molti tornei belli grandi di speed run, talvolta all’interno di grosse kermesse con molteplici discipline e videogame, altre con eventi loro dedicati, come quelli organizzati da Games Done Quick. Se questi eventi hanno la capacità di pubblicizzare l’esport, di fare community e raccogliere fondi e visibilità, la loro importanza concettuale è molto ridotta. Il record del mondo non esce quasi mai fuori da queste competizioni, come è logico che sia: c’è più probabilità che il campione lo imbrocchi una delle dozzine di volte che ci prova ogni giorno a casa su Twitch, o una di quella manciata di volte l’anno che va a sfidare i suoi pari al torneone, magari pure con un surplus di ansia da prestazione addosso?
Il punto è che nelle speedrun le prestazioni contano tutte, anche quelle che nell’atletica sarebbero considerate mero allenamento, basta che siano registrate e/o verificabili. Di conseguenza l’allentamento finisce per coincidere con il tempo della gara, mentre la gara propriamente detta, il cosiddetto “evento”, si ritrova declassato a semplice manifestazione ludica. Il mondo delle speedrun conferma e radicalizza la nostra intuizione riguardo tutti gli sport contro il record, compresi quelli tradizionali: gli atleti potrebbero gareggiare lontani nel tempo e nello spazio, nulla di sostanziale deriva dal loro trovarsi uniti in un “qui ed ora”.
Chissà, se l’atletica fosse nata nell’era della riproducibilità tecnica, avremmo fatto a meno delle olimpiadi per piazzare telecamere che riprendono Usain Bolt 24/7, in attesa che rompa nuovamente i limiti umani.
L’esecuzione e i suoi nemici
Le speedrun si fondano sull’impresa di un’esecuzione perfetta. Credo che il concetto di esecuzione nello sport prenda tanti nomi: tecnica individuale, prodezza, gesto del fuoriclasse. Sono diversi i modi per riferirsi a quella parte di una competizione sportiva che sembra decisa da un’azione eseguita al picco delle capacità umane, da una superiorità fisica semplicemente incontenibile. E tuttavia, in tanti sport tradizionali (e mi riferisco qua a quelli che ho definito sport di squadra e quelli 1 vs 1) esiste l’altra metà del cielo, la nebulosa concettuale che logicamente si contrappone all’esecuzione: la tattica, la strategia, il decision making, il mind game. È l’eterna diatriba mente vs corpo declinata nello sport. Visto che lo sport è per antonomasia una celebrazione dei corpi, la retorica in favore della supremazia fisica è spesso dominante.
Pensate quanto sia comune, nel calcio, sentire che “l’uomo partita” con un’azione fenomenale ha risolto il match, o che “quelli sono undici alieni” e altre affermazioni simili. Ma del calcio si può parlare anche come uno “sport intelligente” in cui la tattica e la strategia contano quanto, se non di più, delle singole individualità. Molte partite vengono vinte perché una squadra ha giocato pensando, sfruttando un’organizzazione tattica complessiva nella quale i singoli gesti, magari dei semplici passaggi, non necessitavano di un’esecuzione da fuoriclasse.
Può sembrare paradossale che anche negli e-sports domini la retorica dei corpi, visto che le critiche di chi non vorrebbe integrarli a pieno titolo nella categoria di sport vertono proprio sull’assenza di atletismo nei giochi, eppure è proprio così. Vuoi perché dalla gente comune questi “campioncini" di videogame (un’infantilizzazione voluta) vengono visti come dei Rainman che compiono gesti meccanici e ripetitivi a velocità supersoniche; vuoi perché, per reazione, la community dei games risponde con retoriche altrettanto machiste che pongono l’accento sulla preparazione fisica dei giocatori, ma l’idea del corpo dell’(e)sportivo inteso come macchina perfetta in mezzo ad altri corpi difettosi è comune anche tra gamers.
Negli sport tradizionali la coordinazione “da alieno” riguarda tutto il corpo, qui solo le mani, ma la sostanza non cambia. Non per niente, il momento di e-sports più famoso di sempre, riguarda proprio una performance compiuta al cento per cento dal corpo. Risale al 2004, Daigo Umehara, uno dei più longevi campioni di Street Fighter, è in semifinale all’EVO. All’ultimo round del primo match rimane con uno spicchio della barra della vita. In Street Fighter se pari semplicemente un colpo, muovendoti indietro, ti viene comunque sottratta un poco di vita. L’unico modo per evitarlo è fare “parry”: una parata estremamente precisa, eseguita mentre parte il colpo avversario, entro una finestra di 4 frame, una piccolissima frazione di secondo. Daigo si trova con un pixel di vita mentre parte la mossa speciale dell’avversario, che usa Chun-li: una raffica di calci rapidissimi con un cambio di ritmo quando la combattente cambia gamba (dai che la conoscete). A questo punto il nostro, che usa Ken, non ha molte scelte, anzi solo una: parare con il parry ogni singolo colpo di Chun-li (15 in tutto) e contrattaccare con una combo che sconfigga il suo avversario. Ce la fa, compie il miracolo sportivo, il pubblico è in delirio e ancora oggi si racconta quell’impresa come una leggenda.
Bisogna sottolineare due cose: la prima è che, come anticipato, questa è una performance compiuta completamente dal corpo, un’esecuzione perfetta e obbligata. Non c’era decision making, mind-game, nessun albero di scelte aperto dalla tattica o dalla strategia: o fare l’impresa o non fare l’impresa. Come quando si dice che un calciatore poteva tirare solo con quella traiettoria per segnare. La seconda cosa, ben più importante, è che stiamo parlando di un caso limite. La fase principale di una partita a Street Fighter (o di qualsiasi altro picchiaduro) viene chiamata neutral e consiste nel momento in cui nessun giocatore ha il vantaggio sull’altro, cioè non si è nell’esecuzione di una combo o nel tentativo di fermarla/respingerla/impedire che continui. Entrambi devono trovare il modo di entrare nella difesa dell’avversario e iniziare una combo per fare quanti più danni possibili. In questa fase, la rapidità delle tue mani conta poco, molto meno di quella del tuo cervello: è tutta tattica, mind-game, un complesso sistema di finte e contro-finte che si influenzano a vicenda, così complesso che sono stati scritti interi manuali solo su questa parte dei picchiaduro, quella più teoricamente interessante e speculabile.
Spesso gli sport comportano questi due piani che, ovviamente, si sovrappongono: decisioni brillanti della mente che preparano il terreno a esecuzioni straordinarie del corpo che poi si prendono tutti gli applausi. Spesso ma non sempre. Quella terza categoria di sport, ed e-sport, che abbiamo chiamato “contro il record o l’unità di misura” rappresenta il dominio totale dell’esecuzione, il puro corpo. Tanto l’atletica leggera, il nuoto, gli sport da tiro quanto le speedrun, vedono l’assenza completa di mind game e richiedono “semplicemente” un’esecuzione perfetta.
Attenzione, quando parliamo di mind-game non parliamo di mind-set, cioè dello stato mentale con cui si affronta una gara. Anzi, negli sport contro il record, l’aspetto mentale è probabilmente più importante che negli altri: le performance sono brevi e precise, richiedono la massima concentrazione e non c’è la possibilità di “eclissarsi” per poi rifarsi, come negli sport di squadra. Per mind-game intendiamo esclusivamente ciò cui ci siamo riferiti prima: quella parte di un gioco che richiede intuizione, strategia, decision making, improvvisazione. Nei cento metri non hai scelte da compiere, hai solo da massimizzare la tua performance, da produrre quel gesto tecnico definitivo che hai raffinato in migliaia di allenamenti, da tendere asintoticamente alla perfezione. Certo, prima della gara esiste la preparazione che comporta una miriade di scelte: dal tipo di allenamento o di dieta da seguire, fino a quei rari cambi di paradigma strutturali che si verificano quando qualcuno inventa una nuova tecnica (vedi il salto in alto con il ben noto Fosbury). Ma all’interno della performance non c’è innovazione: gli atleti conoscono la frequenza del loro battito cardiaco e il numero di falcate o bracciate che fanno, anzi, che devono fare. La performance è il tentativo di combaciare con quel doppio dell’atleta, quello spettro ipotetico che compie l’esecuzione perfetta: la macchina.
In effetti nelle speedrun questa macchina esiste davvero. Si chiama TAS, Tool Assisted Superplay e consiste nell’editare un gioco frame-by-frame, praticamente fotogramma per fotogramma, allo scopo di ricreare tecnologicamente la speedrun perfetta, cui i performer umani potranno solo avvicinarsi.
La speedrun si conferma il parallelo e-sports degli sport contro il record, mostrando il dominio dell’esecuzione in modo ancora più cristallino. Nelle speedrun capiamo ancora meglio quella distinzione tra preparazione prima della performance, che è anche tattico-strategica, e performance di pura esecuzione. Infatti è come se ogni gioco che finisce sotto le grinfie degli speedrunner subisse infinite “invenzioni del Fosbury”, cioè cambi di paradigma che modificano completamente il modo in cui quello sport funziona. L’opera di decostruzione del gioco, la ricerca della strada più breve per terminarlo e dei relativi glitch e skip che ne accorciano il percorso, inizia appena il titolo esce ma non si può mai dire quando finisce. Si scoprono nuove strategie o glitch in giochi di 15, 20 o 30 anni fa, che aprono scenari inediti per gli speedrunner. Ma, appunto, è un’operazione che avviene prima della performance, mai durante: una volta che sei partito per fare il record non è che ti metti a cercare le scorciatoie; le sai, devi solo applicarle. Talvolta i ruoli sono persino distinti: c’è chi studia il gioco (o lo “labba”, come dicono con un inglesismo da “to lab something”) alla ricerca dei buchi nella programmazione e delle vie più rapide e poi chi ha le mani buone e mette in pratica queste indicazioni, proprio come nello sport esistono i coach e gli atleti.
Testa e mani non comunicano, quindi, negli sport contro il record, al punto che possono incarnarsi in due persone distinte. Ma ciò che impressiona davvero di questi esecutori incredibili è proprio il tipo di testa che deve sostenere le loro mani, una testa preliminarmente sterilizzata dei suoi aspetti creativi, una testa che è, deve essere, pura concentrazione. Che da qui somiglia tanto a un’alienazione.
Il record e l’alienazione
Tanta letteratura ha esplorato la condizione spirituale dello sportivo impegnato nel perfezionamento del gesto tecnico. David Foster Wallace, dentro e fuori la fiction, ha scritto pagine bellissime sull’allenamento ascetico necessario ad eseguire un servizio efficace, quella parte puramente tecnica del tennis che condiziona l’intero scambio che segue e, pertanto, tutta la partita.
Un ascetismo che aliena l’individuo nella misura in cui lo riduce (o lo eleva) a una macchina, momentaneamente privato di quella qualità propriamente umana che è la creatività.
Non a caso, Wallace, da umanista e scrittore, ci racconta di essere stato un tennista tutto mentale, tutto creativo, che elaborava complesse strategie per mettere fuori gioco il suo avversario, sfruttando le geometrie tracciabili sul campo da tennis, nonché il vento: il tornado e la trigonometria che danno il titolo alla raccolta che contiene questo reportage.
Contrapponeva, insomma, la libertà della creatività alla brutalità della perfezione. L’uomo comune è contemporaneamente affascinato e terrorizzato dal gesto perfetto, specialmente quando sbircia nell’allenamento ossessivo che è servito a raffinarlo. Ma se nel tennis, come in tante altre discipline, accanto a questa pura tecnica da limare compulsivamente, c’è spazio per la creatività del gioco; negli sport contro la misura rimane solo l’esecuzione tecnica. Ci si spalancano davanti agli occhi le vite di questi esseri disumani, o bestie o Dei come diceva Aristotele, che hanno consacrato l’esistenza a ripetere una singola azione: correre, saltare, sparare.
A prima vista, sotto questo aspetto, le speedrun sembrano scostarsi dall’analogia che abbiamo costruito con i cugini tradizionali. in fondo, nella maggior parte dei videogiochi, anche nella loro scarnificazione da speedrunner, le azioni da compiere sono molteplici e varie. Ma, ad uno sguardo più attento, l’operazione dello speedrunner potrebbe essere anche più alienante di quella dell’atleta tradizionale. Si apre infatti uno iato enorme tra l’esperienza comune e l’esperienza del pro player, che nell’atletica non si dà. Quando io e Bolt corriamo, facciamo sostanzialmente la stessa cosa: lui a un livello stellare, io pateticamente. Questi sport contro l’unità di misura portano allo stato dell’arte un’esperienza comune (o comunque riproducibile da tutti): una singola azione che nasce con quello scopo e ha il fine in sé stessa.
D’altro canto, come ho scritto all’inizio, quando io e il campione speedrunner di Mario 64 prendiamo il joystick in mano, facciamo cose profondamente differenti: io mi metto a girare spensierato per i prati, lui parte come un treno dentro le pareti, ignorando tutto il resto. La maniacalità della loro disciplina si inserisce all’interno di universi virtuali vastissimi, stravolgendoli. Si nota specialmente nei giochi 3d che, per loro essenza, hanno tutti una tensione verso il genere open world: il giocatore è immerso in un mondo esplorabile in tutte le direzioni, solitamente riempito da sottotrame, missioni speciali, bonus da raccogliere, easter eggs o semplici zone molto caratterizzate, graficamente impressionanti, esteticamente gradevoli da visitare.
Lo speedrunner di questo mondo vede un frammento minuscolo (specialmente nelle categorie any %) e tira dritto verso i titoli di coda, saltando un livello dopo l’altro, ignorando gli stessi confini dell’ambiente virtuale con le sue tecniche frame perfect che rompono il codice. Si può dire che lo speedrunner, dopo centinaia se non migliaia di partite, veda solo il codice. Come Neo di Matrix che, una volta risvegliato, percepisce il mondo come stringhe di numeri verdini che cadono dal cielo, lo speedrunner non percepisce più il castello di Mario, ma solo i comandi necessari per attraversarlo da parte a parte. Molti di loro, leggono la chat di Twitch durante le dirette, mentre sbrigano le parti più semplici del livello solo con la memoria muscolare, senza guardare lo schermo. Qualcuno prova anche a finire giochi interi da bendato.
Affrontare un universo virtuale con una con serie di azioni che hanno lo scopo di ridurre al minimo quell’universo stesso, è letteralmente più alienante di ciò che succede negli sport tradizionali. Nell’atletica assistiamo a un’intensificazione di un gesto, un’intensificazione che sappiamo ottenuta grazie a enormi sacrifici che, all’occhio di noi comuni mortali, possono dipingere una vita alienata: nello sport è l’atleta che ci appare un alienato rispetto alla sua stessa vita, consacrata a un solo scopo che ha messo in secondo piano tutti gli altri. Nelle speedrun l’alienazione entra nella performance medesima, tramite quel mondo che ci scorre ai margini del campo visivo, con tutte le sue potenzialità, offerte dal game designer e bruscamente ignorate dal giocatore.
Alcune speedrun hanno anche i tratti estetici dell’alienazione, come quella di Zelda Ocarina of Time, in cui il personaggio, per andare più veloce, cammina all’indietro per la maggior parte della performance, con la telecamera che inquadra il terreno già calpestato, muovendosi completamente alla cieca (prassi comune in molte speedrun per via di una ricorrente mal calibrata gestione dell’accelerazione dei personaggi, che sinceramente non saprei spiegarvi). C’è un che di violento nel modo in cui questi professionisti trattano quelle romantiche avventure che abbiamo giocato in gioventù, mancando completamente di rispetto alle loro storie, alle loro sfide, imbarcandosi in una sorta di avventura parallela, quasi incomprensibile all’osservatore non competente. Qui stiamo lavorando, è come se ci dicessero, le vostre bambinate fatele da un’altra parte.
In questo senso, nelle Speedrun troviamo messa in pratica la più radicale separazione tra Casual Gamers e Competitive Players, quelle due categorie di videogiocatori che sovente si sono trovate l’un contro l’altra armate, a strattonare per la giacchetta l’industria videoludica che, come è ovvio che sia per evidenti logiche commerciali, pende più verso i primi che verso i secondi.
In una certa misura, tutti gli e-sports sono un altro gioco rispetto a quello fruito dai casual: sia per via della precisione tecnica con cui sfruttano le meccaniche del software, ma anche perché le regole da torneo limitano nei fatti il giocabile, tramite ban o limitazioni di personaggi, strumenti, stage o intere modalità di sfida. L’insieme di questi aspetti prende il nome di metagame, appunto un gioco costruito sopra al gioco. Ma al netto di tutto ciò, nella stragrande maggioranza degli e-sports, è ben visibile l’intenzione del game designer di offrire una competizione, a partire dalla semplice presenza del multiplayer organizzato come giocatore contro giocatore (o giocatori contro giocatori). D’altro canto, la speedrun è l’introduzione coatta di criteri competitivi e multigiocatore nei titoli single player. A volte trovano pezze di appoggio nel software, che può prevedere punteggi o cronometri che misurano la “bravura” nel completare un livello, ma se non ci sono, poco male: se li fanno da soli.
Speedrun come scatto in avanti degli e-sports, rivoluzione in seno ai videogiochi per “casual”, estensione dell’approccio competitivo a tutti i generi. Alcuni troveranno affascinante la tenacia con cui la mentalità sportiva è riuscita a imporsi in terreni apparentemente aridi, trasformandoli a suo uso e consumo. Altri si sentiranno un po’ a disagio nel constatare che la vittima sacrificale di quest’operazione è quella parte creativa e “dispendiosa” del gioco, tanto centrale da essere spesso identificata con lo stesso concetto di gioco.