Il progetto Red Bull
Giovedì 26 febbraio il Salisburgo è stato eliminato dall’Europa League dal Villarreal. Entrambe le squadre sono arrivate a partecipare alla seconda coppa più importante d’Europa grazie ai pesanti investimenti di ricchi presidenti che ne hanno riscattato il passato minore.
Uno scontro europeo tra squadre di mecenati quindi, in cui quella spagnola del presidente Fernando Roig, dell’azienda di ceramiche Pamesa, ha passato il turno. Ma definire quella austriaca “la squadra di un mecenate” sarebbe riduttivo. Nonostante la UEFA imponga l’utilizzo del nome Salisburgo nelle competizioni continentali, il nome ufficiale della squadra è “Red Bull Salisburgo” e si tratta di una delle cinque squadre gemelle create in provetta dall’azienda di bibite energetiche. Un esperimento nato dieci anni fa che nel lungo termine potrebbe cambiare il sistema del calcio europeo.
La Red Bull sta tentando di replicare nel calcio le modalità con cui è entrata nella Formula 1: piuttosto che legare il proprio nome ad una squadra vincente prova ad entrare direttamente nel processo di creazione dei successi. In questo modo si preoccupa in prima persona che il ritorno di immagine per il marchio sia dei migliori, non affidandosi alla scelta esterna di una squadra e dei suoi risultati mai del tutto pronosticabili.
Oltre al potere di intervento, la formula ha un altro vantaggio. La Red Bull diventa attore principale dei successi, e per questo oggetto principale della passione dei tifosi. Una strategia di marketing creata per far avvicinare i tifosi al marchio in modo più immediato, entrando in contatto con la loro sfera più intima ed emozionale.
La strategia è partita da una sola squadra, così da individuare il template da poter poi replicare nelle altre parti del mondo, su diversa scala, con le dovute accortezze. Nel mondo ideale di Red Bull, il ragazzo austriaco che va a vedere il Red Bull Salisburgo alla Red Bull Arena, con indosso la maglia bianca e i pantaloncini rossi, sarà uguale all’americano che andrà a vedere i New York Red Bulls giocare nella Red Bull Arena del New Jersey, con la stessa maglia bianca e gli stessi pantaloncini rossi. Colori in comune, stemma in comune, soprannome in comune (ovviamente i Tori Rossi) e anche mascotte in comune (ovviamente un toro rosso). L’identità della squadra viene trapiantata di volta in volta in un nuovo mercato (si ragiona in termini di mercato, non di campionato). Ai tifosi viene offerto il pacchetto completo di squadra di livello: finanze inesauribili, stadio nuovo e adatto alle famiglie, prospettive di futuro assicurato. Un’offerta chiaramente allettante.
Salisburgo la prima pietra
Come si può immaginare, una squadra creata in provetta per vendere bibite energetiche non ha trovato l’immediato appoggio di tutti quei tifosi che quella squadra la tifavano da prima.
L’Austria Salisburgo aveva una storia vincente alle spalle: tre campionati nazionali e due supercoppe d’Austria; ma già nel 1978 fu costretta a cambiare la propria denominazione sociale per motivi di sponsor, prima in “Casino Salisburgo” poi “Wüstenrot Salisburgo” (una grossa azienda immobiliare). Nonostante queste trafile, tutti hanno continuato a riferirsi alla squadra semplicemente come l'“Austria Salisburgo”.
Fino al 6 aprile 2005, quando la Red Bull vi ha intravisto un insieme di fattori perfetto: una già profonda dipendenza dallo sponsor (fino all’ingerenza nella denominazione sociale) e un contesto abbastanza vincente per non partire da zero. Da quel momento in poi l’Austria Salisburgo sarebbe diventato definitivamente Red Bull Salisburgo.
Il processo di “rebranding” ha coinvolto praticamente tutti gli aspetti: nome, colori sociali (con il passaggio dal viola al biancorosso), lo stemma e addirittura il passato. I nuovi proprietari sono infatti arrivati a negare le precedenti vittorie e a definire l’Austria Salisburgo “una squadra senza storia”.
Se la modifica dei colori sociali non è certo una novità nel calcio (basti pensare al Parma di Tanzi, passato dal bianco e nero al blu e giallo) la profondità del resto degli interventi ha polarizzato i tifosi, alcuni dei quali si sono scissi per rifondare la squadra da loro tifata. Lo sprezzo della reazione di un portavoce della Red Bull sembra comunque nascondere una giustificazione: «Abbiamo perso migliaia di tifosi nel breve periodo, ma ne abbiamo guadagnati decine di migliaia nel medio periodo».
Il rifondato Austria Salisburgo, che milita oggi in terza divisione, ha però una dimensione più vicina a quella della squadra riserve della Red Bull che non alla prima squadra, che ha già vinto cinque titoli in dieci anni.
La storia della squadra riserve è un altro esempio del livello di preparazione con cui la Red Bull è entrata nel calcio e, al contempo, dell’impotenza del sistema nel metterle dei freni. L’azienda, invece di creare una squadra B da zero, ha comprato il titolo sportivo da l’USK Anif, un’entità già esistente, andando a modificare i colori sociali e il nome in FC Liefering e facendola giocare nello stesso stadio della squadra madre. Grazie al titolo sportivo della vecchia entità, per le leggi austriache, l’FC Liefering (a tutti gli effetti la squadra B del Red Bull Salisburgo) potrebbe addirittura giocare nello stesso livello della piramide, nonostante non possa giocare la Coppa Nazionale. Attualmente si trova già in seconda divisione, dove fa da arrivo alle giovani promesse che la Red Bull trova in Austria e nel mondo, grazie ad altre due divisioni in Sud America e Africa.
Paura eh?
Dal luglio 2012 la Red Bull ha nominato come Head of Global Football il francese Gérard Houllier, ex tecnico della Nazionale francese e del Liverpool, con lo scopo di gestire e coordinare tutte le sezioni calcio. Prendere un nome conosciuto, con ampi trascorsi anche nella gestione del calcio giovanile, ha un duplice vantaggio. Da una parte, a livello di immagine, ci si può permette si mandare davanti alla stampa una figura autorevole; dall’altra si può disporre di un esperto che guidi la scelta dei giocatori più promettenti dalle filiali in Sud America e Africa, verso quella di Salisburgo. Le due filiali sono state create come "academies" per scovare talenti in due mercati ricchi come quello brasiliano e quello ghanese (Red Bull Brazil e Red Bull Ghana competono nel Campionato Paulista e nella Division One ghanese, il secondo livello della piramide del campionato africano).
Gli osservatori della casa madre portano i talenti locali a giocare nelle filiali in loco e da lì scelgono i migliori per il salto verso l’Europa. Talenti autocostruiti, cresciuti in casa, con un costo del cartellino prossimo allo zero. La strategia mira, nel lungo periodo, a rendere la Red Bull un universo calcistico totalmente autosufficiente, in grado di sopravvivere anche senza interazioni con l’esterno, per esempio nel calciomercato. Che senso avrebbe comprare giocatori da altre squadre quando si ha la possibilità di formare in casa i migliori giovani talenti austriaci, brasiliani e africani?
Ci sono già quindi gli esempi del giocatore ghanese David Atanga, che con diciotto anni ancora da compiere è stato indirizzato dal Red Bull Ghana verso Salisburgo, dove ora gioca nel Liefering; ma c’è soprattutto il brasiliano Felipe Pires, che di giri ne ha fatti ancora di più, passando dal Red Bull Brazil alle giovanili del RB Leipzig in Germania, prima di arrivare al Liefering in estate e passare in prima squadra a gennaio.
Lipsia: il fiore all’occhiello
Ho nominato quasi distrattamente la squadra tedesca del RB Leipzig come parte del sistema per far arrivare Felipe Pires in Europa, ma in realtà la squadra tedesca punta a breve termine ad essere il centro dell’universo Red Bull nel calcio. Il Red Bull Salisburgo non è mai stato in grado di raggiungere la fase a gironi della Champions League, nonostante i ripetuti tentativi. Questo da una parte non permette di trattenere i giocatori migliori, non attratti dalla prospettiva di un campionato ormai minore come quello austriaco (ultimo esempio la stella Kevin Kampl, passato al Borussia Dortmund a gennaio); dall’altra incide negativamente nello sviluppo della visibilità del marchio, troppo relegato ai successi in un mercato ristretto come quello austriaco. Con il mercato più grande d’Europa letteralmente a due passi, la Red Bull ha deciso quindi di entrare nel calcio tedesco.
Con un ragionamento tipico da multinazionale, ha innanzitutto cercato di individuare la città migliore in cui trapiantare il template Red Bull ed entrare nel nuovo mercato. Il varco giusto è stato trovato nella città di Lipsia, perla architettonica della Germania Est, che ha il vantaggio di possedere uno stadio da 44000 spettatori costruito per i Mondiali del 2006.
Con l’ingresso a Lipsia la Red Bull prova a inserirsi nella voragine competitiva tra le squadre dell’ovest e quelle dell’est, rivelatesi non all’altezza dopo l’unificazione e quasi tutte in guai finanziari. Ad attrarre l’azienda la possibilità di inserirsi in un vuoto di mercato, e d’altra parte anche di farlo in una zona sempre molto ricca di talenti, fondamentali per costruire un progetto da zero.
Nel 2009 l’azienda prova a replicare l’operazione austriaca: tenta di comprare un club storico come l’FC Sachsen Leipzig, ma le proteste dei tifosi bloccano l’acquisto. A quel punto la Red Bull decide di iniziare dal basso, acquistando la licenza del Markranstädt, squadra di quinta divisione, per provare una scalata alla Bundesliga aiutata da un budget di 100 milioni di euro in dieci anni.
In Germania però le autorità hanno reso la vita più difficile alla Red Bull. Hanno vietato la possibilità di usare il nome dell’azienda come nome della squadra e il logo societario nello stemma, mettendo a dura prova le capacità di adattamento e la fantasia della Red Bull. La risposta della multinazionale è stata in un certo senso geniale: invece di Red Bull Lipsia la squadra si chiama RB Lipsia, dove RB sta per RasenBallsport (sport con la palla su campo) ovvero un gioco linguistico per mettere R e B sul nome e suggerire comunque quello di cui si parla, soprattutto se abbinato alla maglia con i due tori rossi, che invece è stata permessa.
La salita della piramide calcistica tedesca è stata rapida e la squadra si trova ora nella Serie B tedesca, ma la Red Bull vuole di più. È direttamente il boss della multinazionale, nel 2011, a tracciare gli obiettivi a medio termine del progetto: «Stiamo sviluppando il RB Leipzig con l’obiettivo di giocare nella Bundesliga in 3-5 anni. Vogliamo anche andare in Champions League e avere successo lì, una cosa che puoi ottenere solo con un club che gioca in uno dei campionati top». Fedele all’idea che non bastano i soldi ma serve l’organizzazione, la Red Bull, un anno dopo le dichiarazioni del boss, ha ingaggiato come direttore sportivo del RB Leipzig l’ex allenatore dello Schalke 04 semifinalista di Champions League nel 2011, Ralf Rangnick. Nella scelta del DS è stata fondamentale l’esperienza all’Hoffenheim, protagonista di un’incredibile salita dalle serie minori fino alla Bundesliga. Un anno dopo essere stato nominato DS del RB Lipsia, Rangnick è stato nominato anche DS della squadra di Salisburgo, riunendo sotto di sé le due squadre e formando, insieme a Gérard Houllier, un governo consolare in cui uno guida il tronco del progetto, e l’altro le ramificazioni.
Rangnick e Houllier, i due consoli che guidano il progetto, si stringono la mano nella Red Bull Arena di Salisburgo, ma sarebbe potuta tranquillamente essere a Lipsia o New York.
L’opposizione in Germania
Se l’offerta del pacchetto Red Bull ha avuto successo a Lipsia, in una città che con cinquecentomila abitanti è lontana da anni dal grande calcio, nel resto del Paese l’arrivo della multinazionale ai piani alti ha portato molti tifosi avversari a creare un fronte comune d’opposizione.
A Berlino i tifosi dell’Union hanno accolto con 15 minuti di silenzio l’inizio della partita e rilasciato all’entrata dello stadio volantini dal titolo “la cultura calcistica sta morendo a Lipsia”, proseguendo: «Gli avversari di oggi rappresentano tutto quello che noi dell’Union non vogliamo dal calcio. Un prodotto di marketing spinto da interessi finanziari (...)». Quasi in ogni trasferta la squadra di Lipsia viene accolta da striscioni contro Red Bull. Non si tratta solo di un problema etico, il progetto rischia di essere un’anomalia capace di minare alcuni capisaldi del sistema calcistico tedesco.
In Germania un privato può investire in una squadra di calcio quanto vuole, ma senza possedere più del 49% del club, con il rimanente 51% che deve rimanere in mano ai tifosi. A Lipsia la Red Bull in teoria non viola la regola, ma certamente ne viola lo spirito alla base: ha mantenuto il sistema a base sociale, ma ha imposto un costo di acquisto della membership di 800 euro all’anno (per fare un esempio, il Bayern ne chiede 60), riservandosi comunque il diritto di non accettare la domanda di richiesta di acquisto senza dover dare giustificazioni. Come risultato la Red Bull è socio di maggioranza con il 49% e le restanti quote sono in mano a persone vicine alla Red Bull stessa, che controlla quindi senza problemi l’assemblea. La Red Bull non viola quindi la regola del 50+1, ma se ne fa beffa.
L’altra regola che la Red Bull sembra non aver intenzione di rispettare è quella del fair play finanziario. Rangnick, oltre a portare a Lipsia per 4 milioni complessivi Terrence Boyd e Marcel Sabitzer dal Rapid Vienna (indebolendo una rivale per la lotta al titolo austriaco), ha già aggirato il FFP per rafforzare il Red Bull Salisburgo. Ha acquistato Massimo Bruno dall’Anderlecht per 8 milioni di euro come RB Lipsia e poi lo ha prestato gratis al Red Bull Salisburgo, che quindi si ritrova in rosa un giocatore che pesa 0 a bilancio nel momento in cui la UEFA andrà a verificare i conti. Fino a quando non si avrà quindi il paradosso di due squadre gemelle contemporaneamente in Europa, la UEFA ha comunque il problema di non poter fermare operazioni come quest’ultima, che sono una vera pernacchia al FFP.
Diciamo che anche i testimonial sono stati scelti con un certo gusto.
Negli Stati Uniti il concetto di franchigia è accettato con più disinvoltura. La presenza della Red Bull a New York non crea alcun problema, almeno dopo che l’azienda, sviando i malumori iniziali, ha incorporato la storia dei New York MetroStars.
In Europa, dove si tollera poco che il mercato contamini l’identità delle squadre, la situazione è ben diversa. Il doppio fronte Lipsia-Salisburgo crea problemi non solo ai puristi del gioco, ma anche all’organizzazione generale del sistema calcio. Il progetto Red Bull potrebbe espandersi con facilità verso altri campionati, viste le risorse praticamente illimitate delle multinazionali e l’efficacia dell’esportazione del proprio template in ogni nuovo mercato.
A quel punto l’idea di un futuro distopico in cui la Red Bull guida una squadra in ogni principale campionato europeo, nonostante le smentite della multinazionale, potrebbe diventare un’incredibile realtà.