A trentacinque anni ha trovato la consacrazione, inventandosi una delle sue migliori stagioni, la nona in maglia biancoceleste. Sarebbe il momento di prendersi il ruolo di venerabile maestro, di grande vecchio. Eppure di lui ci si è accorti sempre poco, anche per il suo carattere («Timido, introverso ma determinato» dice lui), per il suo gioco fatto di intelligenza e lavoro sporco. L'utile rincalzo, il concreto, il silenzioso Stefano Mauri è rimasto troppo a lungo nell'ombra. O è finito sotto i riflettori per i motivi sbagliati. E dico subito che non mi occuperò del suo coinvolgimento nell'inchiesta sul calcioscommesse, perché non è di questo che mi interessa raccontare.
Salire di categoria
È nato a Monza, l'8 gennaio 1980. È cresciuto a Peregallo di Lesmo, ha fatto la scuola a Vimercate, fino ai vent'anni è rimasto a giocare in giro per la Brianza (Casati Arcore, Monza, Brugherio, Meda), ma il dialetto brianzolo non lo sa. Non si è formato in giovanili prestigiose, in A ci è arrivato a ventidue anni. Quando ne aveva sedici, l'allenatore del Brugherio lo teneva in panchina dicendo che non era abbastanza forte per la Promozione.
Agli allenamenti lo portava il nonno, perché i genitori avevano troppo lavoro. Ma il padre è stato presente, ha seguito da vicino tutto il percorso, lo ha spronato «con critiche dure ma costruttive». Il padre, che ha giocato e allenato a livello minore, avrebbe preferito tenere Stefano lontano dal calcio. L'opposto del genitore ossessionato dal successo dei figli: ha continuato a proteggerlo anche negli anni del professionismo. Con Delio Rossi si sfiorò l'incidente diplomatico: in un'intervista il padre di Mauri attaccò la preparazione atletica e la scelta di escludere il figlio a vantaggio del tridente. Stefano dovette fare un comunicato per prendere le distanze. È scomparso prima di questa stagione di rinascita, il padre, mentre il nonno non ha fatto in tempo a vedere il suo esordio in A.
Già negli anni di Modena, Brescia, Udine, e nella stagione d'esordio alla Lazio, si vedevano le caratteristiche dei suoi gol. Già allora mirava ai punti periferici della porta, già allora la sua consapevolezza del tempo e dello spazio si manifestava nei tiri al volo.
Da anni ai nastri di partenza è stato considerato una seconda linea, ma nel corso delle stagioni ha sempre finito per fare il titolare o quasi. E con tutti gli allenatori che ha avuto (da De Biasi a Reja, da Delio Rossi a Spalletti, fino a Pioli), con tutte le idee di calcio si sia trovato a confrontarsi.
Quando arriva alla Lazio viene presentato come un fluidificante di sinistra. Negli anni avrebbe ricoperto tutti i ruoli dalla metà campo in su. Solo in questa stagione ha fatto il centrocampista di costruzione, l'incursore della trequarti, il prudente esterno d'attacco nel 4-3-3, il “falso nueve”. Stefano Mauri è uno che si sacrifica a seconda delle necessità della squadra, uno che si adatta fino a non potersi più riconoscere in un unico ruolo. Uno che, forse, in un unico ruolo si sentirebbe stretto. Un jolly, insomma. Come Roberto Néstor Sensini, campione d'Italia con la Lazio nel 2000 e suo compagno nell'anno e mezzo all'Udinese. Sensini, che dei bianconeri diventò allenatore pochi giorni dopo il passaggio di Mauri alla Lazio.
C'è una frase negli Essais di Montaigne che dice: «Le più belle anime sono quelle che hanno maggior varietà e duttilità. Non vi è forma per quanto buona nella quale volessi essere conficcato così da non sapermene distaccare».
Ritiro estivo 2012.
È più di un gioco di parole il suo trasferimento da Meda a Modena. È il passaggio dall'allora C2 alla B, e poi l'approdo nella massima serie (stagione 2002/03). Con la maglia dei canarini ci resta fino all'estate 2004, incrocia per qualche settimana Stefano Pioli, il tecnico scelto dal Modena per una nuova stagione che non riguarderà Mauri. Perché lui segue De Biasi al Brescia, ceduto a cinque minuti dalla chiusura del mercato.
Va a giocare con Roberto Baggio, che insieme a Klose considera il più forte compagno mai avuto, e che in quella stagione chiude la carriera. L'estate seguente Mauri si trasferisce a Udine. Un anno e mezzo: l'accesso alla Champions League con Spalletti, e l'inabissamento con Cosmi. A quel punto arriva alla Lazio, in punta di piedi.
Maturità
È il il gennaio 2006, si presenta più o meno come sostituto di César. Più o meno, perché non sembra all'altezza del brasiliano. Né di Massimo Bonanni, arrivato in quella stessa finestra di mercato.
La prima all'Olimpico con la maglia biancoceleste è una gara contro il Milan: la squadra per cui Stefano tifava da ragazzino, la squadra contro cui aveva esordito in A con la maglia del Modena. I primi tempi è molto fischiato. I primi anni, in realtà. Come tutti i giocatori più utili che appariscenti, come molti giocatori fondamentali sul piano tattico, sostenuti e amati dagli allenatori più che dai tifosi. Ma fin dai tempi di Modena ha una carpa tatuata sul polpaccio: il simbolo della perseveranza. E oggi ha quasi trecento presenze in biancoceleste (284, con 46 gol e 40 assist), la fascia di capitano, due Coppe Italia e una Supercoppa italiana in bacheca.
Negli anni si rivela un giocatore di presenza e movimento, che tocca poco il pallone ma risulta decisivo. Un calcio pratico da leggere fra le righe, compensato dal suo grande talento acrobatico, dal gusto con cui si lancia a mezz'aria, dai movimenti spettacolari che tenta più spesso degli altri per raggiungere il pallone.
In campo porta lucidità, niente isterismi. Basti vedere la sua reazione alla violenza di Mexès, lo scorso gennaio. Basti vedere l'incidenza che ha avuto nei derby (tre gol segnati), cioè nel momento in cui la testa fa davvero la differenza. Quando gli chiedono cosa significhi perdere per lui, risponde: «Trovare un nuovo punto di partenza. Per lavorare in modo più concentrato o ritornare a essere umili». E non è un caso che sia rientrato sempre benissimo dopo le interruzioni (il grave infortunio muscolare nel 2011/12, la squalifica di nove mesi nella stagione scorsa).
Questa sua umiltà sfugge a molti. Si sente spesso dire che, anzi, è un arrogante, uno snob, un fighetto. Un antipatico. E questa percezione era diffusa già prima della vicenda calcioscommesse, e le si sovrappone. Se fra gli estimatori riceve un affetto tiepido, quindi, i suoi detrattori gli fanno una guerra furiosa. Per esempio Daniele De Rossi, che gli ha tirato un pugno in faccia nel 2012 e una gomitata sotto un occhio nel derby di lunedì.
In Nazionale esordisce con Lippi, poi viene chiamato sia da Donadoni che da Prandelli. Collezionerà 11 presenze in un arco tra il 2004 e il 2011. A lui resta un po' di rimpianto, soprattutto per non aver giocato Europei o Mondiali. Il rimpianto giustificato, credo, di chi paga per aver viaggiato sempre a fari spenti.
Nella rosa della Lazio è il giocatore che questa stagione ha subito più falli. Pioli lo ha schierato anche contro il furor di popolo che avrebbe voluto giocatori più funambolici. E sotto la sua gestione Mauri ha superato il proprio record personale di reti stagionali in A: 9, contro le 7 di Brescia. Lo stesso ruolino di Candreva, che peraltro ha giocato quasi settecento minuti in più. A trentacinque anni, dunque, supera il sé stesso di ventiquattro.
Lazio-Napoli 3-1, 7 aprile 2012. Se da ragazzini l'avessimo fatta a “tedesca”, avremmo discusso fosse una rovesciata o una “mezza”. Lui dice che è la sua rete più bella, e aggiunge: «Credo sia uno dei gol più belli della storia del calcio», in uno slancio dove la consueta sincerità annulla la consueta modestia.
Spesso i suoi gol sono anomali, di una bellezza personale e per niente scontata. Per l'imprevedibilità e gli incroci al volo, per l'attenzione agli angoli della porta. Per il suo rapporto speciale con il tempo e con lo spazio, che gli dà una superiorità nello scegliere il momento di impattare il pallone.
Alcuni restano come esemplari. L'allungo nel derby del marzo 2012, il modo di disarticolarsi e insieme mantenere chiarissimo il rapporto di distanza dal pallone lanciato da Ledesma. L'acrobazia contro il Napoli nel 2012 oppure, a Napoli nel 2011, il tocco geniale che trova l'unica traiettoria possibile per raggiungere l'obiettivo.
Un anno prima. Napoli-Lazio 4-3, 3 aprile 2011. Inserimento, rimpallo, dribbling nello stretto e tocco geniale. Niente potenza, niente di rumoroso: un tocco leggero, un “billiard shot” come dice il titolo del video (e in effetti a Mauri il biliardo piace molto), e la palla che va in buca.
Grande vecchio
Dopo ogni gol alza le braccia, tenendo i gomiti ad angolo retto, e avvicina gli indici ai pollici di entrambe le mani. Del significato, dice: «Preferisco tenerlo per me e per pochi amici». Gli piace mantenere un giardino per sé, «un retrobottega tutto nostro» per tornare a Montaigne. E non si fatica a immaginare quanto gli pesi il sacrificio che la vita del calciatore comporta: «Non hai più vita privata: non puoi andare in giro in certi orari, molti sparlano di te […] Si ha un’idea idilliaca del nostro lavoro e non si raccontano mai i lati negativi».
Non è un ruffiano, non infiamma la tifoseria. Certo non è un gioco delle parti, il suo, quando dice che l'esultanza del selfie di Totti non l'avrebbe mai fatta. Nelle interviste è compassato, in campo sembra frenato dalla razionalità. Poi di colpo può dire frasi come: «Sono altruista in campo, ma fuori no». Frasi di una sincerità pura, insensibili ai giudizi che possono scatenare, tanto da risultare poco comprensibili.
Mi pare non ci sia immagine più esplicita di questa: Mauri riesce a esultare e insieme a nascondersi, prendersi la scena e rifiutarla.
Per Sky ha figurato in due spot. In uno mi mette un po' in imbarazzo: insieme a Vucinic, viene rimproverato dai personaggi della serie Romanzo Criminale perché è andato a ballare invece di pensare al derby in arrivo. Nell'altro sta insieme ad Ambrosini su una barchetta, e tirano su una rete piena di palloni e fanno togliere il cappello di fronte alla pesca miracolosa. Questo mi sembra funzionare meglio, sul piano della verosimiglianza: sarà per l'abbigliamento più sobrio, sarà perché Mauri non fa mistero di avere una fede profonda (peraltro la sua canzone preferita è "Losing my Religion" dei R.E.M.), e perché so del suo pellegrinaggio a Medjugorje.
Fino a quando giocherà? Di sicuro il rinnovo del contratto con la Lazio, in scadenza a giugno, è una formalità. Ancora un anno, magari due. L'impressione è che possa continuare a ritagliarsi minuti in campo ben più dei funamboli che in molti vorrebbero al suo posto. Il senso del sacrificio e quello del tempo gli allungheranno la carriera. Lui, dopo, vorrebbe allenare.
Forse ci sarà bisogno dell'annuncio del ritiro, perché gli vengano tributati gli onori che si riservano a un grande vecchio. Forse ci vorrà ancora tempo per accorgersi davvero di Stefano Mauri. O forse possiamo cominciare già adesso.