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Come è cambiato il tennis su terra
17 apr 2018
Negli ultimi anni l'evoluzione dei materiali ha cambiato radicalmente il gioco sul rosso, rovesciando i paradigmi del passato.
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15 min
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Nel descrivere il mutamento del calcio moderno, Emiliano Battazzi ha scritto che «nella rivoluzione dei paradossi che stiamo ancora vivendo, per avviare meglio la costruzione della manovra ci si è avvicinati alla propria area; per difendere meglio, viceversa, ci si è avvicinati sempre di più all’area avversaria».

Nel tennis si è sviluppata una tendenza simile, con modifiche ai vecchi paradigmi che sembrano contraddittorie. Negli ultimi decenni l’evoluzione dei materiali ha causato un’evoluzione dei giocatori, a cui sono chieste differenti caratteristiche tecniche e fisiche. In risposta, le superfici di gioco più rapide sono state rallentate, per salvaguardare le sfumature di uno sport che rischiava di essere sommerso da partite monotematiche, dominate da punti diretti ottenuti con il servizio.

In questo contesto, la terra battuta è rimasta la superficie più fedele per composizione, anche se le nuove contingenze hanno modificato in modo sensibile il modo in cui i giocatori vi si approcciano. I nuovi paradossi del tennis hanno creato un contesto nel quale, dopo l’arrivo di Nadal – vincitore per la prima volta nel 2005 al Roland Garros – il modello del giocatore vincente su terra è cambiato e non è più così necessario avere una grande regolarità e spiccate doti in fase difensiva, seppure queste ultime abbondino nel campione spagnolo. Il Master 1000 di Montecarlo, cominciato da poco, rappresenta il tradizionale inizio dei grandi tornei su terra. Anche quest’anno sarà interessante raccogliere i segnali su come i nuovi giocatori e i nuovi materiali stiano condizionando l’evoluzione del tennis, rovesciandone progressivamente certi canoni.

Una cronologia del cambiamento

Il fenomeno della forte specializzazione dei giocatori tra le varie superfici è iniziato all’incirca a metà degli anni Settanta, più o meno con l’arrivo di Bjorn Borg e Guillermo Vilas, ed è terminato circa trent’anni dopo, a metà degli anni Duemila. Secondo Emilio Sánchez, ex tennista, vincitore di tre grandi slam in doppio: «A partire dagli anni Duemila è finita l’epoca degli specialisti, che giocavano negli anni Settanta-Ottanta, quando c’erano 20 o 25 giocatori diversi che giocavano bene su una sola superficie. Da questo momento la maggior parte dei giocatori gioca bene su tutte le superfici». La fase più acuta del fenomeno della specializzazione c’è stata tra la metà degli anni Ottanta e l’arrivo del nuovo millennio.

Prima dell’era-Borg – vincitore per sei volte al Roland Garros – i giocatori più forti avevano invece successo più o meno su ogni terreno, considerando poi che tre Slam su quattro si disputavano su erba. Dall’esplosione del campione svedese – cioè dopo il 1974 – fino al 2007, invece, soltanto André Agassi e Mats Wilander riuscirono a vincere Slam su erba, duro e terra rossa europea. In mezzo si affermò una grande quantità di giocatori capaci di aggiudicarsi solo il Roland Garros. Oltre ai più estrosi Adriano Panatta e Yannick Noah, il Philippe Chatrier è stato l’unico terreno di caccia per giocatori robusti e regolaristi come gli spagnoli Carlos Moyá, Juan Carlos Ferrero, Albert Costa e Sergi Bruguera, i sudamericani Gustavo Kuerten, Andrés Gómez e Gastón Gaudio, il grande tattico Michael Chang e l’inossidabile austriaco Thomas Muster.

In epoche più recenti il tennis è tornato sulla via dell’omologazione, sia a causa del rallentamento delle palline e delle superfici più veloci, che per una generale standardizzazione dei giocatori verso livelli più alti, che sarebbe avvenuta in ogni caso. Emilio Sánchez riconosce nella finale dell’ATP World Tour Championship – le attuali ATP Finals, cioè il cosiddetto Master – del 1999 tra due giocatori da terra, Carlos Moyá e Álex Corretja, uno dei turning point storici: «Credo che quello sia stato un momento di grande rilievo per il tennis internazionale. Credo che da quel momento il tennis che si gioca indoor, per la sua velocità, sia diventato più simile a quello che si gioca sulla terra o sull’erba».

Per altri, invece, l’anno chiave del passaggio al nuovo tennis è il 2002, principalmente per la vittoria di Hewitt a Wimbledon da fondocampo a seguito del cambio della semina dell’erba e dell’aumento della sua altezza dall’anno precedente. Una contingenza che venne fuori soltanto in seguito ma di cui due giocatori di casa, i britannici Tim Henman e Greg Rusedski, sospettarono da subito, denunciando pubblicamente il rallentamento dell’erba dei Championships.

Fino agli ultimi anni delle racchette di legno, tuttavia, il mondo dei tennisti si divideva in una dicotomia ben marcata. Da una parte gli attaccanti, giocatori che cercavano di chiudere il punto conquistando l’approccio a rete o, in alternativa soprattutto sulla terra battuta, giocare smorzate di attacco o vincenti. Dall’altra parte una serie di giocatori che, per caratteristiche fisiche o difficoltà nella chiusura a rete e nella sensibilità tecnica, si poteva permettere sulla terra battuta di giocare quasi esclusivamente di rimessa, senza concedere errori gratuiti e nel caso attendere l’attacco dell’avversario per giocare passanti o pallonetti vincenti.

L’avvento dei nuovi materiali ha cambiato completamente il modo di intendere il gioco da fondocampo. Alcuni dei tennisti specializzati nella terra battuta negli anni Novanta sono stati sottovalutati per le loro capacità aggressive, diverse dal modello paradigmatico – troppo ferrato nell’immaginario collettivo – dell’attaccante come giocatore di rete e non anche come giocatore di manovra da fondocampo. Michael Chang vinse la finale del Roland Garros del 1989 attaccando molto da fondo – soprattutto con il rovescio in anticipo dal movimento brevissimo – il suo avversario Stefan Edberg, senza subire passivamente il suo gioco offensivo. Thomas Muster è stato una sorta di precursore di Nadal, sottovalutato per l’aggressività con cui caricava il dritto mancino in diagonale sul rovescio degli avversari. L’evoluzione dei materiali stava cominciando a favorire questo tipo di tennis, permettendo ai giocatori con aperture più ampie di caricare di top spin la palla rendendola pesante, non più semplicemente liftata, alta e fastidiosa come accadeva fino ai primi anni Ottanta.

La sfida del secondo turno tra Gustavo Kuerten e Thomas Muster al Roland Garros 1997 (forse i più grandi campioni su terra negli anni Novanta) ha un ritmo di gioco che potrebbe essere buono per un Challenger dei giorni nostri. Nonostante siano due cosiddetti terraioli puri, nessuno dei due palleggia passivamente aspettando l’errore dell’avversario.

Tra la metà degli anni Ottanta e l’arrivo del nuovo millennio il tennis ha così conosciuto il periodo della massima specializzazione dei giocatori. Come ha spiegato Nicola Pietrangeli: «Il passante non è più piatto o tagliato come ai nostri tempi ma oggi è molto arrotato e lavorato e diventa difficile fare la volée». In quel periodo il colpo di volo è rimasto un passaggio obbligato solo per avere successo sull’erba, con l’eccezione di André Agassi vincitore a Wimbledon nel 1992, ma le nuove rotazioni in top spin hanno contribuito a demarcare ancora più nettamente i giocatori da campo veloce e i terraioli.

Attaccanti da fondo

Negli anni Duemila il rallentamento dei campi veloci e l’ampliamento degli “sweet spot” (i punti ideali di impatto sulle corde) sulle racchette hanno consentito l’ascesa più o meno indiscriminata del tennis di contrattacco, rendendo più facili la risposta al servizio e le fasi difensive e premiando sempre di più la continuità e l’atletismo. Parallelamente anche il gioco aggressivo da fondocampo si è evoluto, soppiantando ormai definitivamente l’attacco della rete e mescolandosi in maniera omogenea a quello di ribattuta. Rafael Nadal e Novak Djokovic hanno rappresentato la sintesi perfetta tra le capacità in fase difensiva e quella offensiva, tanto nella manovra quanto nell’abilità di rovesciare l’inerzia degli scambi.

La nuova aggressività da fondocampo è ben rappresentata dalla crescente tendenza a giocare dritti anomali o a sventaglio, spostandosi dalla parte del rovescio. Questo strumento offensivo è diventato una specie di imperativo categorico del tennis dei terraioli spagnoli a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila: le nuove corde in monofilamento e le maggiori rotazioni del busto concesse dalle nuove racchette hanno favorito il top spin, che sulla terra viene esaltato di più. Spostarsi sul dritto è diventato efficace perché permette ai tennisti di caricare la palla generalmente di molto più peso rispetto a un rovescio normale, rendendo difficile per l’avversario giocare vicino al campo.

Fra le cose progressivamente decadute c’è la dicotomia tra il rovescio bimane e quello classico a una mano. Fino agli anni Novanta il colpo bimane veniva considerato uno strumento efficace per il gioco da fondocampo, e quindi per gli scambi più lunghi della terra battuta, mentre per affinare il gioco di volo e di sensibilità – più efficace sui campi più veloci – molti maestri e allenatori impostavano i loro giocatori con il rovescio a una mano, a volte staccando la mano non dominante nelle fasi giovanili, come accadde a Stefan Edberg e Pete Sampras.

Il colpo a una mano oggi resiste invece meglio sulla terra battuta. L’impostazione generale dei giovani ha iniziato a cambiare verso la fine degli anni Novanta: questo fenomeno è stato visibile ad esempio nei tennisti australiani della generazione di Hewitt, i meno conosciuti Peter Luczak e Todd Reid, cresciuti sul veloce ma impostati con il rovescio bimane. Parallelamente, in quello stesso periodo, il rovescio a una mano è sopravvissuto ed è rimasto in auge in molti giocatori latini tipicamente terraioli di quella stessa generazione, come i sudamericani Gastón Gaudio, Luis Horna, Fernando Gonzalez, José Acasuso, Mariano Puerta, Carlos Berlocq, gli spagnoli Tommy Robredo, Nicolas Almagro, Albert Montañés, Alberto Martín, David Marrero, l’italiano Filippo Volandri e molti altri.

La stessa tendenza si è verificata nel tennis femminile, dove la maggior parte delle giocatrici con il rovescio a una mano degli ultimi 15 anni proviene da Italia e Spagna: Francesca Schiavone, Roberta Vinci, Tathiana Garbin, Alberta Brianti, Carla Suárez Navarro, Lourdes Domínguez Lino. Tutte tenniste più adatte alla terra battuta, mentre nella dicotomia classica – rappresentata meglio di chiunque altro dalla rivalità tra Martina Navratilova e Chris Evert – gioco da fondocampo e gioco di volo si distinguevano anche nel femminile rispettivamente all’opposto, con il rovescio bimane riservato alle baseliner.

La terra, infatti, permette al rovescio a una mano di completare il movimento d’apertura, più ampio ed elaborato di quello bimane. Allo stesso tempo, il rovescio a una mano genera quasi sempre più rotazione in top spin rispetto a un colpo bimane: nello scorso Master 1000 di Miami i giocatori con il dato più alto di giri al minuto generati dal rovescio erano Roger Federer e Stefanos Tsitsipas, separati da 17 anni di età ma con biomeccaniche di rovescio simili. Per colpire una palla senza peso o in fase discendente – come di frequente avviene sulla terra battuta – spesso una sbracciata di rovescio a una mano genera una palla più pesante rispetto a un colpo bimane che non ha molto appoggio, come ad esempio accade sulla risposta che spesso sulla terra viene colpita lontano dal campo e non in anticipo.

In questo scambio (tralasciando il prodigioso passante della Muguruza) la Schiavone si crea i presupposti per attaccare grazie a una serie di poderosi rovesci a una mano in top molto carichi e pesanti, che solo sulla terra hanno così tanta efficacia (via Roland Garros YouTube).

Non va neanche trascurato che le racchette moderne permettono di tirare colpi vincenti da qualsiasi posizione del campo, e quando le condizioni atmosferiche rallentano ulteriormente il campo ad essere favoriti sono i grandi bombardieri, quei tennisti che possono colpire e spingere quasi da fermi. Ne sono un esempio la vittoria di Soderling su Nadal al Roland Garros del 2009, o quella di Andrea Petkovic su Sara Errani nel 2014, sempre a Parigi. Insomma, più il campo è lento e più sono favoriti i giocatori aggressivi.

La principale conseguenza è che l’efficacia di un giocatore sulla terra battuta non riguarda più le sue scelte tattiche, ripartite nel più classico confronto di stili tra giocatore di rete e giocatore di fondo, quanto soprattutto un mix tra ampiezza dell’apertura dei colpi e top spin generato. Non è più rilevante come prima, in sostanza, quanto un giocatore sia più o meno offensivo o controffensivo. L’evoluzione dei materiali ha permesso che molti paradigmi tradizionali venissero rovesciati: oggi su terra può capitare che sia favorito il giocatore più offensivo, quello che sa spingere meglio la palla, e viceversa in alcuni casi sul duro, o addirittura sull’erba, invece il tennista più abile a difendersi appoggiandosi in maniera perfetta e con colpi piatti.

La NextGen e le nuove prospettive

Il cambio di paradigma ci costringe a modificare la percezione di certi giocatori. Per fare un esempio, negli anni Ottanta nella sfida tra Wawrinka e Murray si sarebbe potuto pensare allo scozzese, più regolarista e forte fisicamente, come più adatto alla terra battuta rispetto allo svizzero. I nuovi materiali, invece, permettono a Wawrinka di caricare colpi vincenti a piacimento e la maggiore lentezza della terra battuta nasconde le sue lacune in fase difensiva, che nel gioco moderno su terra non sono più decisive. Allo stesso modo, per fare un esempio nel tennis femminile, Agnieszka Radwańska è da anni considerata una delle giocatrici più abili in fase difensiva, ma la mancanza di spinta nei colpi la rende nettamente più efficace sull’erba, per via delle sue grandi capacità in appoggio, piuttosto che sulla terra battuta.

La terra permette a Wawrinka di caricare il rovescio alare in tutta la sua potenza.

Già negli anni Settanta la classica demarcazione tra attaccanti da erba e fondocampisti da terra battuta aveva avuto la sua celebre eccezione in Jimmy Connors, che per le sue abilità in appoggio si esprimeva meglio sulle superfici veloci pur essendo un baseliner. Ma è forse con la prossima generazione di tennisti a venire, a seguito del calo di Nadal, quando avverrà, che si compirà un ulteriore mutamento del paradigma del giocatore vincente su terra battuta.

Tra i cosiddetti NextGen il giocatore forse più tradizionale nel modo di intendere il classico modello di tennista da terra è Borna Coric. Il croato è un giocatore di contrattacco, regolare ed è dotato di un’apertura del dritto molto complessa, ma recentemente su quel colpo sta effettuando miglioramenti e in generale sulla terra ha molto più tempo per poterlo eseguire con comodità. Risulta efficace sul rosso anche grazie a ottime capacità nel servizio in kick, oltre che atletiche e di spinta sul rovescio.

Ma l’evoluzione del gioco su terra si rispecchia soprattutto nella presenza di giocatori in teoria molto lontani dal modello classico del terraiolo, ma che in futuro potrebbero vincere tornei importanti sul rosso, cioè Alexander Zverev e Kyle Edmund. Il tedesco in generale si esprime bene su terra perché può compensare la relativa lentezza del suo braccio e completare i colpi, soprattutto il dritto. Zverev – che pur essendo alto 1,98 m non gioca quasi mai a ridosso della linea di fondo – sulla terra ha più tempo per spostarsi sulla palla senza arrivare in ritardo e completare anche il suo grande rovescio in spinta molto ovalizzato, dove porta la racchetta inizialmente sopra la testa e non dietro al corpo, perdendo un po’ di tempo.

Edmund invece possiede il pregio di un dritto elaborato ed estremamente pesante, ma il difetto di un’evidente scarsa reattività negli spostamenti laterali. Edmund genera comunque una quantità talmente elevata di top spin e penetrazione con il dritto che sulla terra riesce più o meno sempre ad avere l’inerzia del punto in mano.

Due scambi in cui Edmund si sposta molto sul dritto fin dalla risposta e ottiene il punto, con Tipsarevic in balia della pesantezza del colpo migliore del britannico.

Un altro giocatore ugualmente adattabile alla terra battuta e diverso dai canoni classici – ma che appare un gradino inferiore – è il russo Karen Khachanov, anche lui come Zverev alto 1,98 m, ma dall’apertura ancora più complessa sul dritto. Hyeon Chung, viceversa, pur essendo estremamente preparato fisicamente e solido da fondo ha bisogno di troppo appoggio sulla palla e fa un po’ fatica a comandare spingendo con il dritto, oltre che necessitare di molto ritmo per rendere bene, lasciando intendere che i suoi campi preferiti siano quelli duri.

Rimanendo sul tema della sopravvivenza del rovescio a una mano, il greco Stefanos Tsitsipas possiede con il suo rovescio un’apertura e una capacità di caricare una palla in fase discendente tali che potrebbe risultare più fastidioso proprio sulla terra battuta, invece che su altri terreni. Ieri ha battuto piuttosto nettamente Denis Shapovalov, che proprio in virtù delle sue scelte sul rovescio sembra non essere adatto ai campi in terra, nonostante anche lui disponga del rovescio a una mano: Shapovalov tende sempre a colpirlo in anticipo e commette invece qualche errore in più quando lo carica dal basso, oltre che essere generalmente meno efficace sul rosso in virtù di un piano tattico troppo offensivo e poco paziente.

Due errori di rovescio di Shapovalov, troppo abituato a colpirlo in avanti appoggiandosi, hanno sostanzialmente dato a Borna Coric il primo set nella recente sfida di Coppa Davis sulla terra croata.

In sostanza, anche le nuove generazioni hanno ormai capito che molti dettami del vecchio tennis sono ormai saltati, frutto della naturale evoluzione sia degli atleti che delle attrezzature. I cambiamenti del gioco sulla terra battuta negli ultimi decenni sono stati fin troppo sottovalutati, messi in secondo piano di fronte al drastico calo del gioco di rete sulle superfici più rapide. Ma sono forse altrettanto importanti per capire in che direzione sta andando questo sport, dall’identità sempre più fluida e complessa, nonostante le differenze immediatamente visibili tra i vari giocatori si siano affievolite rispetto alle epoche passate.

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