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Tévez o Messi?
05 giu 2015
L’Argentina tra passato e futuro: i due protagonisti della finale di Champions sono anche le due facce di un calcio che balla tra la bellezza passata e un futuro lontano dai suoi confini.
(articolo)
15 min
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Quando prendono la palla nel centro del campo, creano lo stesso effetto nella testa degli avversari. I difensori pensano subito a fare una doppia o tripla marcatura, per dovere più che per convinzione, e poi assistono impotenti a una serie di movimenti tanto devastanti quanto semplici, ritmati da qualche dribbling e finalizzati a un tiro sempre naturale, quasi logico. Sugli spalti, i loro tifosi sognano. Gli altri tremano. Tévez e Messi possiedono risorse individuali che annullano i processi collettivi. Possono partire a cinquanta metri dalla porta e segnare dando l’impressione di aver toccato palla una sola volta. Non giocano con la fantasia di Neymar e Ronaldinho, né con il sorriso, ma con un’ispirazione che sembra innata. Quella di Maradona e di tutti gli eredi del Diez.

Eduardo Sacheri ha scritto il libro che ha portato all’Oscar il film Il segreto dei suoi occhi, ma anche numerose storie di calcio e cronache nel mensile argentino El Gráfico. In una delle più belle scene del film il dialogo verte intorno al calcio, al suo carattere passionale: «Ti rendi conto Benjamín? Uno può cambiare tutto: faccia, casa, famiglia, fidanzata, religione, Dio. Ma c’è una sola cosa che non può cambiare, Benjamín... non può cambiare... la passione». Subito dopo c’è un piano sequenza di sette minuti ambientato nello stadio del Racing.

Se non lo avete visto dovreste: alzi la mano chi vuole vedere un film con un poliziotto che cerca un assassino allo stadio.

Ci siamo dati appuntamento per un’intervista nella caffetteria sul retro di una tipica libreria nel quartiere Palermo, a Buenos Aires. Eduardo Sacheri ha ordinato una Sprite e ha cominciato a parlare di calcio con gli occhi di un bambino e la serietà di un filosofo. «A noi argentini piace quando, nel bel mezzo del deserto e della confusione, ci salva una sola persona, un vero leader. Ce l’abbiamo dentro. San Martín, Perón, Passarella, Maradona. Abbiamo più fiducia in un eroico caudillo che nei lenti processi collettivi. Vogliamo risolvere tutto individualmente. E non può funzionare. Basta guardare come guidiamo: siamo un pericolo per l’umanità. Per questo il nostro calcio è pieno di finte, astuzia, temerarietà, disequilibrio. Ha una storia fatta di individualismo, anarchia, insolenza e indisciplina. È un calcio da esteti, fatto di colpi di genio personali e casini collettivi».

Una storia fatta di calciatori che sognano solo di giocare con la maglia numero 10, come Tévez e Messi. Ma le apparenze ingannano, perché in realtà Tévez e Messi rappresentano le due facce di un calcio argentino in crisi che non sa dove guardare. Non sono solo distinti: sono anche opposti.

Carlitos, alle radici del calcio argentino

I due geni non sono opposti perché si odiano, né perché la posizione di Messi costringerebbe Tévez a giocare largo a sinistra con la Selección, né perché uno ha vinto il Pallone d’oro e l’altro solo il cuore degli argentini. La loro contrapposizione, più che rivalità, deriva da situazioni che si sono venute a determinare quando non erano ancora uomini, ma ragazzini.

Nel 1996 Carlos Tévez ha dodici anni. Ramón Maddoni a quei tempi era l'educatore di Tévez. Vent’anni dopo, non ha dimenticato le maniere di un pibe che «viveva solo per il calcio e la cumbia», uno stile di musica tipico dei sobborghi di Buenos Aires. In questa storia, l’importante è che ricordi il giorno in cui Carlitos ha appreso che poteva giocare per l’amore della sua vita: il Boca Juniors. Correva il 1996 e non era la prima volta che Ramón parlava del futuro con il suo migliore allievo. «Gli dicevo sempre che avrebbe potuto fare parte dei cinque migliori calciatori del mondo, e lui rideva sempre», mi racconta Ramón.

«Nel ‘96 gli avevo proposto di giocare con gli Juveniles dell’Argentinos Juniors (la categoria in cui sono cresciuti i vari Maradona, Batista, Redondo, Cambiasso, Riquelme…) e aveva detto di no. Qualche mese dopo, torniamo a parlare del futuro e lui mi dice ancora “no, Ramón, no”. Poi gli dico che questa volta è il Boca che lo vuole. La sua faccia si è illuminata». «Ha detto sí senza pensarci un attimo. Era già un tifoso fanatico del club».

Tra i primi cinque calciatori al mondo ci si arriva quando si ha un controllo di palla tipo quello di questo stop-e-tiro in occasione della sua prima rete con il Boca.

Carlitos è cresciuto, nella testa e nelle gambe, ma l’amore per il Boca non se n’è mai andato dal suo cuore. Ha giocato con gli Juveniles per cinque anni, e nel 2001 ha realizzato il sogno di giocare in Primera con il Boca. Ha fatto anche di più: dal 2001 al 2004 ha scritto una delle parti più importanti della storia del club della Bombonera. Nominato miglior calciatore sudamericano per tre anni consecutivi, nel 2003, 2004 e anche nel 2005 (mentre giocava con il Corinthians), ha vinto quasi tutto quello che si poteva vincere con il Boca: campionato argentino, Copa Libertadores e Coppa Intercontinentale nel 2003, Copa Sudamericana nel 2004. Una vita piena di gloria: e aveva solo vent’anni.

Carlitos racconta il suo gol nella finale di Libertadores 2003 contro il Santos: al termine della manifestazione gli xenéizes si laureeranno campioni, Tévez miglior giocatore del torneo. Poi il Boca vincerà anche la successiva Intercontinentale contro il Milan.

Messi lo sconosciuto

Fino al 2004, quando aveva già diciassette anni, nessuno in Argentina poteva dire di conoscere davvero Leo Messi. Lo racconta Lucas Biglia al Gráfico: «Ho saputo dell’esistenza di Messi durante il Mondiale U-17 del 2003, perché un certo Lautaro Formica che giocava per il Newell’s aveva sentito parlare di un crack che stava emozionando a Rosario. Ricordo che tutti gli facevano molte domande. Gli allenatori Tojo e Tocalli lo interrogavano, gli dicevano che cercavano disperatamente dei video… Quando l’ho visto allenarsi l’anno dopo con noi, ho capito che Lautaro non esagerava affatto…».

Messi è il paradiso futuro, la promessa di un giocatore venuto da lontano per risolvere ogni cosa.

Spaccare a 10 anni. Ovvero, le rare e precoci magie della "pulga" con le giovanili del Newell’s.

Nonostante i suoi doni miracolosi, però, Messi non ha affatto risolto ogni cosa. E soprattutto non è mai riuscito a sedurre il popolo argentino come hanno saputo fare Maradona, o a suo modo Tévez.

Diego Murzi è sociologo e specialista di calcio. Gli chiedo di illustrarmi il confronto paradossale tra Tévez e Messi, e mi risponde così: «Per farci un’idea di quello che rappresenta Tévez per gli argentini, mi sembra inevitabile fare un paragone con i sentimenti che la figura di Messi risveglia nella gente. Nonostante sia un giocatore molto più forte del suo diretto concorrente, con più successi e più riconoscimenti a livello globale, in termini di considerazione popolare è ancora inferiore a Tévez. Forse dipende dalle origini. O dall’esilio, dalle alte aspettative, o ancora dal carattere. Quel che è certo è che nell’ultimo decennio Tévez è stato il giocatore più amato dal pubblico argentino. Qualche settimane fa ho chiesto ai giovani del club dell’Estudiantes chi fosse il modello che volevano seguire: tutti mi hanno risposto Tévez, per lo sforzo che ha fatto per affermarsi e le sue origini».

L'educatore di Tévez, Maddoni, può solo confermare: «Oggi, quando parlo ai bambini che giocano nei club di Buenos Aires, prendo sempre ad esempio Carlitos, è come un modello. Per la voglia che ci mette, la passione e la professionalità».

In un certo senso Messi riesce a sembrare inarrivabile anche per questi bambini che sognano in grande. Perché è un calciatore che è rimasto tanto perfetto quanto misterioso, e quindi sconosciuto anche al suo popolo. Perché la distanza della televisione rende impossibile capire come pensa, come è fatto.

Sacheri mi dice la sua opinione: «Credo che la mia generazione sia l’ultima che ha avuto una relazione molto forte con la Selección. È una risposta naturale all’emigrazione in massa dei talenti. Quando ero piccolo, vedevamo i giocatori della Selección tutte le domeniche in televisione giocare nella Primera argentina. Oggi tutto è cambiato. E Messi è il simbolo più grande di questo cambiamento. È la nostra stella, e non ha mai giocato una partita di Primera nel suo paese. È inevitabile che ci sia una distanza. Quando Maradona arrivò in Europa, aveva già giocato nell’Argentinos Juniors e nel Boca. Chi l’amava a quei tempi in Argentina? I tifosi di Argentinos e Boca, e nessun altro. Gli altri lo odiavano, per tutti i gol che aveva segnato contro di loro. La passione per Diego si è nazionalizzata nel Mondiale '86, il titolo ha reso universale l’amore di tutti gli argentini. Messi non ha avuto questa chance, e non ha nemmeno l’amore dei tifosi di un solo club argentino…».

Sembrerà strano ma Maradona ha segnato “solo” 34 gol con la maglia della Albiceleste.

Insieme a Mauro Icardi, che se n’è andato in Spagna quando aveva solo nove anni, o ancora Paulo Dybala, che ha giocato soltanto una stagione nella Primera B (la seconda serie del calcio argentino) con il club di provincia dell’Instituto di Córdoba, Messi è il rappresentante di una nuova generazione di argentini che l’Argentina ha visto crescere da lontano.

Murzi aggiunge: «Tévez ha giocato un tempo sufficiente in Argentina per essere visto come “uno dei nostri”, a differenza di Messi e di molti altri che se ne sono andati presto. Poi, come ogni racconto romantico, il calcio consacra gli uomini che attraversano le difficoltà per arrivare al climax. Come Maradona, Tévez ha origini umili, viene da un contesto popolare quasi marginale, con un padre assente, un’infanzia durissima e l’episodio della sua faccia bruciata. Se la storia di Messi ha emozionato l’Europa, l’Argentina non l’ha vista nella stessa maniera. Una questione di punti di vista».

Emigrare “per lavoro”

Nel 2004 anche Tévez se n’è andato via dall’Argentina. Ma la sua partenza, anziché rendere la sua traiettoria in qualche modo più simile a quella di Messi, ha finito per rimarcarne ancora più a fondo le differenze. Messi è andato via per vivere un sogno, mentre Tévez è partito “per lavoro”. Nel momento in cui Tévez lascia l’Argentina ha giocato 110 partite e segnato 38 gol per il Boca. E poi il club riceve ventisette milioni di dollari dal Corinthians per il suo cartellino: è il trasferimento più importante della storia per un club sudamericano. In altre parole, Carlitos ha fatto tutto quello che poteva fare per il Boca: incluso accettare un’offerta così irrinunciabile, in quel momento storico.

Il “legionario” Tévez, con il Corinthians, mentre dà spettacolo in una specie di one man show nel 7-1 contro il Santos. L’ex squadra di Pelé gli ha sempre portato molta fortuna.

Con grinta, talento e il suo caratteristico e inarrestabile controllo di palla, Tévez ha esaltato i tifosi del Corinthians, del West Ham, delle due squadre di Manchester e infine della Juventus. Ha vinto quattordici titoli, segnato 210 gol, è diventato un leader in ognuna delle squadre in cui ha giocato.

Ma mentre Messi vive un sogno e sembra godersi ogni momento della sua vita di calciatore europeo, Tévez ha sempre dato l’impressione di dover interpretare il ruolo di un professionista. Carlitos ha sempre mostrato di provare una grande nostalgia per l’Argentina, la famiglia, gli amici, le sue radici. Nel Corinthians si è imposto come leader da un punto di vista tecnico, ma gli hanno tolto la fascia da capitano dopo una stagione perché non parlava bene portoghese. In Inghilterra non si è neppure sforzato di apprendere la lingua di quelli che sono pur sempre gli avversari della guerra per le Malvinas. Ha giocato, e basta. Ma ha giocato bene. Anzi, benissimo.

Tévez è sempre tornato in Argentina, ogni volta che ha potuto. Ma non sempre per un tempo sufficiente a essere davvero felice. Nel 2011, mentre Messi vinceva una nuova Champions, Tévez sembrava averne abbastanza della distanza. Dopo essersi rifiutato di entrare in campo nel secondo tempo di una partita di Champions contro il Bayern, se l’è presa con Roberto Mancini.

Agüero ha raccontato l’episodio al Mirror. «Ero accanto a Carlitos nello spogliatoio. Mancini era incazzato e ha cominciato a gridare. A un certo punto, gli ha detto di tornarsene a casa in Argentina. Io credevo che ce l’avesse anche con me. Mi sono detto: “Anch’io? Va bene, così posso passare qualche giorno di vacanza con la famiglia…”. Il giorno dopo, Carlitos era a Buenos Aires. Non l’abbiamo più visto per i successivi quattro mesi».

Lo scontro tra il Mancio e Tévez come se fosse una rap battle.

Quattro mesi di titubanze per il board del Manchester City, e di infinite domande per Mancini. Tévez se ne va a Córdoba e gioca al golf con il "pato" Cabrera e il "gato" Romero, e passa il tempo con la famiglia a casa, tra i tradizionali rituali del mate e degli asados. Per Tévez sono quattro mesi di malinconia e nostalgia per una vita semplice, vissuta da sconosciuto. Cercava solo, in quel momento della sua carriera, calma e normalità. Poi dirà a ESPN: «Sono stato sul punto di ritirarmi dopo quella lite con Roberto. Dopo sei anni passati in Inghilterra, il calcio mi aveva stancato. Avevo bisogno di cambiare aria. Avevo già vinto tutto quello che c’era da vincere: Champions League, Premier, coppe». In Inghilterra Tévez ha vinto molto, ma senza mai sorridere, salvo quando ha potuto prendere in giro Sir Alex Ferguson.

Il mondo porteño di Carlitos

Ma come fa il centravanti ventisettenne di un Manchester City ambiziosissimo a stancarsi del calcio, ci si potrebbe chiedere. Non si può comprendere la visione di Tévez se la si interpreta da un punto di vista europeo. La Champions non è per tutti la competizione più grande a livello di club? La Premier League era o non era, in quel momento, il campionato più competitivo d’Europa? Sí, è vero, ma nel nostro mondo. Non in quello di Carlitos. Non in quell’universo in cui il River Plate è il nemico più grande da battere e dove vincere la Libertadores è come scalare l’Everest. Non in una mente che inquadra il calcio europeo come noi europei interpreteremo la MLS tra qualche anno, e cioè come una Lega potente finanziariamente ma senza sentimento.

Ogni volta che Tévez torna alla Bombonera i cuori si infiammano: è così che funziona quando ci si ama incondizionatamente.

Il bostero Dani Osvaldo ha raccontato al mensile El Gráfico i sei mesi che hanno vissuto insieme a Torino. Un pezzo di vita pieno di partite del Boca, asados e cumbia: «Tévez mi ha preso sotto la sua ala a Torino. Mangiavamo un asado due o tre volte ogni settimana e guardavamo tutte le partite del Boca insieme. Abbiamo passato molto tempo a parlare e ad ascoltare musica. A casa sua c’era sempre una cumbia o un cuarteto che suonava. E quando parlavamo, il discorso andava sempre a finire al Boca, era inevitabile. O cominciava lui, o cominciavo io. Carlos è più tifoso del Boca di chiunque altro. I suoi amici sono tutti dei fanatici».

Nel 2011 Tévez avrebbe fatto carte false per essere parte del Boca che vinse il Torneo di Apertura con 12 punti di vantaggio sul Racing del "Cholo" Simeone. Sognava certamente di ballare sul ritmo delle verticalizzazioni prestigiose di Riquelme, di baciare e farsi baciare dalla Bombonera. Oggi, si può dire che a Tévez, forse, piacerebbe di più vincere la Libertadores con il Boca l’anno prossimo che la Champions con la Juventus quest’anno. Chiedete a Diego Milito se non scambierebbe la Champions del 2010 vinta con l’Inter per un trionfo nella Libertadores con il Racing della sua vita. Chiedetelo a Riquelme, Verón, Crespo o ai campioni argentini che hanno vinto la coppa dalle grandi orecchie. In questo senso, Tévez è la faccia di un calcio argentino che si sta perdendo.

Amore del passato e futuro incerto

E allora, tra passato e futuro, dov’è che guarda il calcio argentino? Ed è davvero condannato alla formazione seriale e successiva vendita dei talenti? A quanto pare il calcio argentino guarda indietro, verso il bello. «Al popolo argentino piace sognare paradisi perduti», mi dice Sacheri. Anche da qui si capisce perché a Tévez è sempre stato perdonato tutto con la maglia della Albiceleste, mentre Messi ha sempre dovuto dimostrarsi perfetto. E non è stato l’unico: Icardi, ad esempio, si è laureato capocannoniere della Serie A ma non è riuscito a farsi convocare per la Copa América; anche Dybala è una sensazione che non si fa sentire.

Adrian Piedrabuena è un giornalista del quotidiano Olé, il più venduto del paese, ed esperto della Selección. Mi ha confessato che secondo lui «Tévez può giocare male, però corre, lotta, affonda i contrasti. Noi in Argentina lo soprannominiamo “giocatore del popolo” per la sua appartenenza sociale, il suo fanatismo per il Boca, ma anche per certe sue caratteristiche, tipo la sua garra. Dopo la finale del Mondiale, ogni argentino appassionato di calcio si è convinto che se è andata così è perché mancava Tévez, se ci fosse stato lui chissà».

Un documentario sulla garra di Tévez.

E mentre l’assente è richiamato, il presente è paragonato al passato, sempre. Sacheri ha idee molto chiare sul paragone tra Messi e Maradona: «Fin quando Diego non esalerà l’ultimo respiro tutte le stelle argentine saranno soggette a questo ingiusto, inevitabile, ma ingombrante paragone. Oggi, il sacco è toccato a Messi metterselo in spalla. In Europa Messi ha fatto molto di più di quanto abbia fatto Maradona. Ma non significa niente: per gli argentini la considerazione si guadagna su base nazionale e nazionalista, l’autorevolezza giocando nella Selección e nella Primera locale. Non lo so se è un bene o un male, ma è così che funziona. Il lato negativo è che perdiamo l’occasione di goderci un calciatore gigantesco. Perché manca il vincolo sentimentale». Un sentimento che scomparirà sempre più, nella misura in cui i Messi e giovani talenti se ne andranno.

Se il suo futuro calcistico stesse davvero assumendo i connotati di un piccolo grande esercito formato da emuli di Messi, l’Argentina potrebbe pure ritenersi soddisfatta. Ma la realtà è molto meno magica dei gol della "Pulga". Perché oggi l’Argentina ha cominciato a vendere all’estero anche calciatori normali, che emigrano prima ancora di poter esordire nella Primera. E quelli che rimangono non sono necessariamente i migliori, ma quelli che per una ragione o nell’altra non riescono ad andarsene. Mancano quelli che si dicono i “local heroes”: ma forse il calcio argentino ha bisogno di trasformarsi in una terra desolata, per diventare davvero quella specie di Paradiso Perduto cui si riferisce Eduardo Sacheri.

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