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Il tramonto del calcio spagnolo?
16 lug 2013
I problemi del Barcellona, il tiqui-naccio di Del Bosque, l'eredità di Mourinho, le eresie di Betis e Levante, il trasformismo della Real Sociedad. Non solo Iniesta, ma anche Xabi Prieto e Antoine Griezmann: di cosa parliamo quando parliamo di modello spagnolo.
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Se prima un’infinita sequenza di passaggi era l’Unico Calcio Possibile, se bastava ricalcare posizione per posizione il Barça (poi, che il “falso centravanti” fosse Messi o chiunque altro restava un dettaglio di poco conto) per avere il segreto del successo e se la moda spagnoleggiante arrivava addirittura a una fastidiosissima imitazione del gergo calcistico iberico (perché mai l’Inter che vince tre trofei fa triplete?), adesso tutto questo è sorpassato. Prego, facciano strada al “Modello Tedesco”… anche se il rischio che da noi la Juventus di colpo si trovi ad aver vinto 31 Meisterschale sul campo per ora sembra scongiurato.

Interpretazioni estreme impossibili da evitare anche quando si parla della nazionale spagnola: tale è la radicalità della proposta calcistica che ogni sua vittoria o sconfitta è considerata alla stregua dell’affermazione di una verità definitiva. L’Under 21 che tritura qualsiasi oppositore è ancora un’altra prova dell’esistenza di Dio, salvo poi scoprire dopo la Confederations Cup che non solo Dio è morto, ma ha pure stancato perché tutti hanno capito come gioca. Scendere dall’assoluto al relativo pare quasi una volgarità, eppure un’analisi del calcio spagnolo attuale, a partire dai club, deve passare necessariamente da casi particolari, a costo di perdere fascino.

Le risposte al recente fallimento europeo di Barça e Real Madrid sono quindi totalmente differenziate. Due traiettorie diversissime: una squadra logorata dai trionfi e dalla routine da una parte, una che invece ha mancato il salto di qualità definitivo dall’altra.

Quello del Barcellona è stato un impatto con la realtà che non si poteva più rimandare. Chi in questi anni si è messo davanti al televisore o si è assicurato un (vergognosamente caro) biglietto al Camp Nou ha avuto quasi l’illusione ottica che per quelli vestiti di blaugrana non vigessero le stesse leggi della fisica e della geometria a cui tutti gli altri obbediscono: il calcio diventava un gioco a una sola metà campo e il problema della coperta corta non esisteva, così come scompariva la distinzione fra fase offensiva e difensiva.

Nelle semifinali di Champions, la squadra che in cinque anni avrà fatto ripiegare sì e no due volte le ali nella propria metacampo è stata umiliata da un Bayern fisicamente straripante, nel quale Robben e Ribéry accettano con tanto entusiasmo la realtà della coperta corta da aiutare i terzini e poi contrattaccare senza soluzione di continuità. Venute meno le astrazioni, si sono aperte le praterie per gli avversari del Barça.

In realtà, la stagione di Tito Vilanova è stata un continuo fare i conti con questa nuova realtà della coperta corta. A inizio stagione la coperta è stata tirata indietro: due centrocampisti bassi davanti alla difesa, Xavi vicino a Busquets per diminuire i rischi di perdere palla subito sul pressing avversario; una sorta di 4-2-2-2 dove i 2 là davanti sono le ali bloccate, praticamente dei guardalinee che non eseguono né un taglio dentro né lasciano spazio per salire ai terzini, anche loro più controllati nella loro condotta tattica per non scoprirsi in transizione difensiva e anche per lasciare più spazio possibile a Messi al centro. Messi però in mezzo a tanta rigidità deve prendere palla molto lontano dalla porta avversaria, senza appoggi davanti a lui: questo fa sì che la squadra fatichi a salire e schiacciare l’avversario, e più giocatori dietro significa meno davanti pronti per il pressing una volta persa palla. Il Barça concede come mai prima i passaggi iniziali per rilanciare l’azione alle squadre avversarie: il gioco è una noia mortale, i risultati continuano ad arrivare ma Vilanova si rende conto che qualcosa va cambiato.

La mossa è Iniesta ala sinistra, e regala un mese e mezzo di grande calcio e l’illusione di un ritrovato equilibrio: dalla fascia non affonda, ma dà i tempi a tutta la squadra e apre un’autostrada per le sovrapposizioni di Jordi Alba, in un triangolo molto dinamico con la mezzala Cesc Fàbregas che sposta il peso del gioco blaugrana sul lato sinistro, per la prima volta non facendo di Xavi il fulcro principale della manovra. Ma arriva lo shock di San Siro (e quello della ricaduta di Tito Vilanova): zero tiri in porta senza veri attaccanti, che costringono a una nuova inversione di rotta, con il reinserimento di Villa e/o Alexis per dare più aggressività. Ma quello che aggiungi davanti togli dietro, ora sì, e un Busquets mai così dominante come nella prima metà della stagione si è alla lunga trovato abbandonato a se stesso in fase difensiva.

In parte sono venuti meno i due pilastri di questa interpretazione rivoluzionaria del gioco: il declino in atto di Xavi ha privato il Barça del giocatore la cui intelligenza nell’ordinare la squadra e ostinazione nel proteggere il pallone permetteva di sbugiardare la legge della coperta corta; al tempo stesso non sono emerse valide alternative: il mesetto da leader tecnico di Iniesta non ha avuto seguito (anzi, "Don Andrés" ha forse rappresentato la maggior delusione nella doppia batosta col Bayern), Cesc si è rivelato un miraggio e negli anni ha snaturato il suo calcio disimparando a giocare in regia, mentre Thiago Alcantara, comunque in via di definizione tattica, ha seguito Guardiola al Bayern (e la sua cessione potrebbe rivelarsi un errore gravissimo). Le condizioni altalenanti di Messi nella seconda parte di stagione hanno invece tolto il vantaggio del giocatore in più, al tempo stesso centrocampista aggiunto decisivo per creare superiorità e centravanti senza essere in realtà nessuno dei due. Leo ha perso il suo spunto e quindi un po’ della sua capacità di incidere prendendo palla anche molto lontano: la richiesta esplicita dell’argentino di un centravanti che gli creasse spazio davanti ha trovato risposta e un effimero successo nella rimonta col Milan, ma ha anche contribuito a tirare di nuovo la benedetta coperta, stavolta troppo in avanti.

Parlare di rifondazione è eccessivo quando ancora Messi e Iniesta hanno parecchi anni davanti, ma certo dopo quest’umiliazione il Barça dovrà ripartire come se di rifondazione si trattasse, almeno nella mentalità. Il rischio più insidioso per questa squadra è che il suo modello, così forte e così riconoscibile, diventi anche la sua prigione. Che l’obiettivo non sia più tornare a giocare bene, ma tornare a giocare bene come quel Barça. Che il centravanti debba essere per forza falso, che il difensore centrale debba essere bravo a impostare e poi il resto si vedrà, che non si possa mai pensare a due mediani stabilmente davanti alla difesa perché due giocatori sulla stessa linea non devono mai stare nell’ortodossia del “juego de posición”, e così via.

In questi anni al Barça hanno fallito giocatori incapaci di adattarsi al sistema (Ibrahimović) o hanno brillato solo dopo una sensibile rieducazione tattica rispetto alle loro squadre precedenti (Alves, Henry, Mascherano), e con questi precedenti può subentrare la tentazione di non ricorrere a innesti dall’esterno perché privi di un presunto DNA blaugrana, e la predilezione per la cantera può trasformarsi in una ricerca di inesistente purezza di un modello che invece nasce e muore coi giocatori, pregiudicando la competitività a lungo termine nell’intento di scimmiottare se stessi. Bisogna mettersi il cuore in pace: il Barça Atlètic non propone altri Xavi, e basta pensare al modo in cui Thiago Alcantara, un giocatore che fa dell’errore una parte fisiologica del suo gioco, stava portando le proprie caratteristiche a un livello di forzatura forse eccessivo pur di “incasellarsi” come erede di Xavi. L’ingaggio di Neymar, e la ricerca della miglior coesistenza del brasiliano con Messi, può risultare utile anche per rompere questa routine e indurre a un ripensamento del modello di gioco consolidato.

Anche la Spagna in Confederations Cup ha evidenziato debolezze molto simili a quelle dell’ultimo Barcellona, sebbene l’accostamento fra le due squadre, facile e intuitivo, sia di fatto erroneo, dato il carattere prettamente difensivo del possesso-palla della Spagna di Del Bosque (che nei blog spagnoli ha suggerito a qualcuno la brillante etichetta di “tiqui-naccio”, catenaccio col pallone, definizione che risulterebbe alquanto sacrilega su Marca e la restante stampa di regime). Ad accomunare però le due squadre c’è la necessità di sopravvivere col pallone.

Del Bosque aveva fatto alzare parecchie sopracciglia (comprese quelle di chi scrive) con la sua scelta di avanzare Xavi sulla trequarti e affidarsi al doppio mediano Busquets-Xabi Alonso, allontanando Xavi da una base del centrocampo un po’ ingolfata e dal costante contatto col pallone che predilige. Balbettante nel 2010, la proposta si è rivelata estremamente efficace nel 2012, fornendo a Xavi la rete di protezione che manca quando nel Barça concentrano il pressing su di lui. Non solo due tattici sublimi a proteggerlo a palla persa, ma due sostegni fondamentali nel raccogliere la squadra attorno al pallone. Senza Xabi Alonso e senza alternative ad oggi realmente solide (nonostante la smania di promuovere in blocco l’Under 21), la Spagna ha mostrato una propensione ad allungarsi (primi scricchiolii già con la Nigeria) per niente casuale, e simile a quella del Barça, al netto della mediocre condizione atletica e quindi della mancanza di movimento senza palla vista anche con l’Italia (che non pressava alto e non poneva gli stessi problemi di Brasile e Nigeria).

Se per il Barça il rischio è di diventare alla lunga prigioniero di un’idea totalitaria, il rischio per il Real Madrid è esattamente l’opposto: di non avere alla lunga alcuna idea-guida e di affidarsi per tentativi a Uomini della Provvidenza.

Chi meglio di Mourinho per interpretare il ruolo? La verità è che il portoghese una struttura di squadra riconoscibile l’aveva impiantata eccome, e la rosa del Real Madrid è completa e ha ancora anni davanti, ma le modalità dell’addio, fra rancore e dissidi nello spogliatoio, potrebbero anche generare una volontà di azzeramento mal riposta. Se non gestita bene, questa transizione potrebbe dar vita a una nuova serie di scelte lunatiche e dal respiro troppo corto, come quelle avvenute nel passaggio fra il ciclo dei Galácticos e quello di Mourinho. La validità di Ancelotti è fuori discussione, il punto da chiarire è il contesto nel quale si inserisce questa scelta.

Una cosa è certa: l’ultima stagione rappresenta un fallimento di Mourinho. Fallimento in termini non assoluti ma relativi, perché se il tecnico portoghese non ha torto nel rivendicare tre semifinali di Champions consecutive come un risultato di tutto rispetto soprattutto se confrontato coi precedenti madridisti nella competizione, questa rivendicazione, oltre a entrare in contraddizione con l’abitudine dello stesso Mourinho a giustificare tutto con la vittoria, nasconde un limite mai superato del suo Real Madrid. Il limite non è quello di non aver dato un gioco alla squadra, di affidarsi solo alle individualità e di non saper attaccare difese schierate, (menzogna propagandata tramite sconcertanti spifferate da spogliatoio raccolte da El País, il cui responsabile di “cose madridiste”, Diego Torres, si è sempre segnalato per l’atteggiamento prevenuto nei confronti di Mourinho), ma piuttosto di non riuscire a gestire più ritmi durante una partita e quindi di non avere il controllo totale del gioco.

I copioni delle eliminazioni di Champions si somigliano: a parte le circostanze speciali della semifinale col Barça del 2010-2011, sia col Bayern che con il Borussia Dortmund al Bernabeu a 15-20 minuti di calcio offensivo incontenibile hanno fatto seguito un affievolimento e una crescente confusione. Un anno fa il doppio vantaggio sin troppo immediato, e poi il Bayern che sequestra il pallone con Kroos e Schweinsteiger e fa la partita più di quanto non dica il finale deciso ai rigori; quest’anno 20 minuti iniziali stellari, col Borussia Dortmund a inseguire ombre fra verticalizzazioni, cambi di posizione a mille all’ora dalla trequarti in su e tre-occasioni-tre davanti al portiere.

Ma poi, quando i ritmi si sono forzatamente abbassati, gli attacchi si sono fatti sempre più prevedibili e sempre meno razionali. Fatto comprensibile con un 4-1 di svantaggio da recuperare, ma non casuale né isolato se si pensa che buona parte della Liga (una Liga che non doveva sfuggire così perché il Real Madrid quest’anno era migliore del Barça) è andata via in partite nelle quali il Madrid iniziava bene, andava magari immeritatamente in svantaggio ma poi perdeva la testa. Le trasferte a Siviglia, sia col Betis che col Sevilla, a Málaga, Getafe, e i troppi “pareggini” casalinghi, sono solo alcuni degli esempi.

L’incarnazione dei pregi e difetti mai superati del Real Madrid di Mourinho è Di María: giocatore capace come pochi di combinare tecnica e velocità, ma aduso a scelte incomprensibili quando i ritmi si abbassano, dettate dalla smania di verticalizzare sempre e comunque. Nemmeno un’annata strepitosa (superiore sul piano del gioco anche a quella di Messi) di Cristiano Ronaldo, sempre più completo, maturo e incisivo non solo nelle transizioni fulminee anche nelle azioni di appoggio a chi porta palla, ha determinato il salto di qualità.

Salto di qualità che doveva passare dal centrocampo. Il limite della mancanza di controllo era stato riconosciuto implicitamente già nella campagna acquisti al termine della prima stagione, pur nell’ambito di un’evoluzione notevole che aveva portato il Real Madrid da un eccessivo affidamento all’asse sinistro Marcelo-Ronaldo nello sviluppo della manovra, a una squadra più centrata su Xabi Alonso nella Liga 2011-2012 dei record (con un paio di mesi, fra ottobre e novembre, in cui si vede il più bel calcio del Real Madrid di Mourinho, con un avveniristico 3-3-1-3 in fase di possesso). Ma rimaneva l’esigenza di affiancare al basco un altro centrocampista che permettesse di scegliere il tempo di gioco più opportuno a seconda delle circostanze. Se il basco, immediato ricettore dei passaggi dalla difesa, restava il primo scalone, l’idea era quella di sommare un altro punto d’appoggio qualche metro più avanti per equilibrare la squadra senza necessariamente catapultarsi in avanti.

Nuri Şahin è una scommessa fallita in circostanze decisamente sfortunate, ma con Luka Modrić, il meglio disponibile sul mercato, non c’erano più scuse. Invece la mossa non ha del tutto funzionato, almeno sul piano collettivo. Il rendimento di Modrić è cresciuto in maniera esponenziale dopo un inizio timido, ma l’amalgama con Xabi Alonso non ha arricchito il gioco del Real Madrid (complice anche il contemporaneo calo del basco). Pure un grande Modrić rende più devastante il Real Madrid solo quando ha i suoi minuti buoni (ancora i 20 iniziali col Borussia Dortmund fungono da riferimento), ma non garantisce il controllo di tutti i 90 minuti. Il Real Madrid del terzo anno di gestione di fatto non è migliorato rispetto a quello del secondo: qui sta l’insuccesso innegabile di Mourinho.

Passando a una panoramica generale, ad oggi che cos’è il modello spagnolo? Uscendo dal rettangolo verde, è un modello finanziariamente ed eticamente insostenibile. Come l’economia spagnola fondata sul mattone, il calcio ha vissuto su una bolla che ha portato club come il Deportivo e il Valencia a una grandezza effimera perché costruita su spese che eccedevano i ricavi. Spese peraltro indotte dal tentativo di stare al passo con l’eccessivo strapotere economico di Real Madrid e Barcellona, fondato sulla distribuzione dei diritti televisivi più iniqua di tutto il calcio europeo.

Diseguaglianza che una legge prossima all’approvazione dovrebbe attenuare portando anche il campionato spagnolo alla vendita collettiva dei diritti televisivi (con spartizione da concordare successivamente fra i 20 club), ma che perdurerà per un paio di stagioni fino alla fine dei contratti in vigore.

Se a questo si aggiunge una complicità dei club di calcio con le amministrazioni politiche, che ha portato negli anni ad applicare criteri, diciamo così, molto meno rigidi di quelli applicati alle altre aziende e ai comuni cittadini nell’esazione delle imposte, si comprende come dal 2004 in poi 19 dei 42 club che militano in Primera e Segunda siano finiti in amministrazione controllata.

Sommiamo poi una legislazione antidoping (che ha impedito di fare chiarezza fino in fondo sulle possibili estensioni dell’Operación Puerto ad altri sport, con la vergognosa distruzione delle sacche di sangue sequestrate nel 2006 nello studio del dottor Fuentes) e una giustizia sportiva debolissime, casi di sospette combines che spuntano e spariscono alla velocità della luce (ad esempio Athletic Bilbao - Levante del 2006-2007, decisiva per la salvezza dei baschi, o alcune partite che sarebbero valse la promozione nella massima divisione all’Hercules 2009-2010), e la struttura del presunto modello spagnolo si riduce a una generazione di grandi giocatori, il richiamo mediatico delle due grandi, una competenza sempre crescente dei tecnici spagnoli e un lavoro sui settori giovanili innegabilmente buono. Un “capitale umano” ricchissimo, ma nel medio periodo il sistema rischia comunque di non competere più con Germania e Inghilterra.

E se si torna a guardare solo al campo, un’evoluzione sottotraccia sembra stia avvenendo all’interno del “modello”. La Liga di quest’anno, a maggior ragione contando un fattore come il Barça che da solo sposta parecchio la media, è stato uno dei campionati dove statisticamente ci si passa di meno la palla, contro lo stereotipo diffuso del “tiqui-taca”.

Anche prescindendo dalle statistiche, si nota un cambio di attitudine in più di una squadra. Il Betis è l’esempio paradigmatico: promosso dalla Segunda nel 2010-2011 dopo aver proposto un calcio fra i migliori della stagione, Primera División compresa, una sorta di Barça in miniatura, ha fatto inizialmente fronte a una serie impressionante di sconfitte consecutive quando ha provato a imporre questo gioco nella massima divisione. A rischio esonero, il tecnico Pepe Mel ha intrapreso un cambio radicale: se non sappiamo salire in blocco fraseggiando senza perdere la palla in zone rischiose, allora attacchiamo in pochi e finalizziamo subito, senza prenderci rischi inutili.

Un anno dopo il Betis ha rappresentato una delle rivelazioni del campionato, a lungo in zona Champions con un gioco che sarebbe fuorviante definire difensivista (di fatto è un gioco molto aggressivo, che cerca attacchi incessanti e con ali larghe che a momenti quasi disegnano un 4-2-4) ma che certo si basa sul toccare il pallone meno possibile prima di arrivare in porta.

Quasi un’eresia un paio di anni fa, così come un’eresia è il Levante che l’anno scorso, da squadra potenzialmente più scarsa si è qualificata in Uefa semplicemente regalando il pallone all’avversario e affidandosi a una zona dall’apparenza quasi passiva ma raffinatissima nel privilegiare gli spazi da difendere. Di fronte a tante squadre che cercano di accumulare palleggiatori nel mezzo, fra falsi esterni e falsi centravanti, tu ti concentri sulla difesa degli spazi centrali (quelli da cui gli avversari devono passare per forza per segnare) e lasci che gli altri si scoprano sulle fasce. Se tutti a un certo punto cercano di fare la stessa cosa, il possesso e il “gioco di posizione” in stile Barça, chi per primo si distingue finisce col godere di un chiaro vantaggio competitivo.

La Real Sociedad è arrivata a qualificarsi per la prossima Champions League partendo da un trasformismo accentuato. A dire il vero l’anno scorso sembrava che questo fosse il suo punto debole, che Philippe Montanier nei suoi costanti cambi di formazione non riuscisse a dare un’identità certa alla squadra, e poi invece si è capito che l’identità risiede proprio nell’adattabilità ai diversi contesti. Al salto di qualità coinciso con l’inserimento nell’undici titolare del giovane regista Rubén Pardo, e soprattutto sul duo Vela-Xabi Prieto sulla destra (lo spostamento di Xabi Prieto dalla fascia destra al centro, e gli incroci di questo con Vela, mancino che parte da destra, è stato una delle mosse più determinanti dell’ultima Liga, un colpo da maestro di Montanier: i fraseggi fra il basco e il messicano sono fra i picchi estetici della Liga 2012-2013), asse offensivo privilegiato di una Real che cominciava ad acquisire una sua struttura partendo dalle rilevanti doti di palleggio presenti in rosa, ha fatto seguito una virata in senso opposto: Rubén Pardo di nuovo riserva e dentro Markel Bergara, modesto mediano rivelatosi però efficace complemento dell’infallibile Illarramendi davanti alla difesa. La vittoria con difesa a oltranza sul campo dell’Atlético Madrid è la prova di maturità definitiva di una squadra che cambia pelle anche nel corso della stessa partita, passando senza contraccolpi, a seconda del risultato e dell’avversario, da un 4-1-4-1 dalle trame insistite ed eleganti a un 4-2-3-1 conservatore e talvolta addirittura sfacciato nel cedere il possesso-palla all’avversario e affidarsi al contropiede affilatissimo del francese Griezmann, che incarna la Real Sociedad dal gioco più verticale, perfetto complemento degli arabeschi di Xabi Prieto.

E per concludere non si può non citare l’Atlético Madrid di Simeone, forse il miglior tecnico delle ultime due stagioni. Il "Cholo" come prima cosa ha messo in chiaro che del possesso-palla non gliene frega nulla e rivendicato la legittimità di approcci diversi; dichiarazione di intenti persino truce perché rischia di nascondere la varietà di soluzioni di una squadra capace anche di assumere l’iniziativa (talvolta patendo, ma forse più per la mancanza di creatività individuale che per l’assenza di una fase di possesso ben studiata), ma che comunque, e qui sta il punto, non vede nel possesso-palla un pre-requisito fondamentale per controllare il gioco, e fa del blocco difensivo la sua forza. Chissà non sia proprio questa possibile evoluzione interna a smontare il modello spagnolo, prima ancora dell’assalto tedesco.

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