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27 gen 2015
Lukas Podolski è arrivato all'Inter dopo una carriera ricca di successi ma indecifrabile: eleverà il livello del nostro campionato?
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Lukas Podolski è arrivato dieci giorni fa all’Inter con appuntate sul petto una Coppa del Mondo, una Bundesliga, una FA Cup, una Coppa di Germania, due finali disputate tra Coppa del Mondo ed Europei. Complessivamente più di quanto tutti i giocatori attualmente in rosa all’Inter abbiano mai vinto tutti assieme.

Quando Roberto Mancini nella conferenza stampa di presentazione ha affermato che “Podolski è un grande campione” ho avuto la sensazione che lo abbia fatto perché era una cosa che gli andava riconosciuta; che abbia usato il termine "campione" come lo si usa per i giocatori che hanno già dato, e non come qualcuno che è arrivato all’Inter per fare la differenza. Podolski come Fernando Torres? Un calciatore che ha vinto molto e trova poco spazio in un club di prima fascia, il cui trasferimento è un semplice declassamento? Ci sono le premesse per pensare che Podolski andrà male all’Inter come Torres è andato male al Milan o siamo diventati paranoici con la storia del declino del calcio italiano?

Chi sei, Lukas?

Podolski ha giocato sempre in squadre di prima fascia senza però riuscire mai a spostare particolarmente gli equilibri (e questo, in buona parte, lo rivelano i numeri). Verrebbe da pensare che sia stato fortunato a trovarsi in situazioni migliori di lui, ma Podolski gioca ad alti livelli ormai da dieci anni ed è difficile pensare che la fortuna si ripeta con questa continuità.

Nonostante non abbia neanche compiuto 30 anni, Podolski gioca ad alto livello da così tanti anni che ha già l’aria del reduce. Per questo credo che l’età dei calciatori non vada misurata in anni anagrafici, bensì in “vite”. Lukas Podolski con il suo trasferimento all’Inter è arrivato alla sua quinta vita. E messe insieme, le quattro vissute fin qui tracciano un percorso tra i più belli e indecifrabili del calcio attuale. Così indecifrabile che anche a posteriori, guardandole nel loro insieme, non è chiara la reale dimensione calcistica di Podolski, e cosa ci sia da aspettarsi dalla sua esperienza interista. Eleverà il livello del nostro campionato o è solo un giocatore senza stimoli venuto a fare un’esperienza di vita?

I tifosi dell’Inter sembrano meno scettici di così, almeno stando all’accoglienza che hanno riservato a Podolski atterrato a Linate, dove ad aspettarlo c’erano centinaia di tifosi in delirio. Una folla meno fuori luogo, a posteriori, di quella di trecento persone che ha aspettato l’ex giallorosso Cicinho a Fiumicino qualche anno fa, ma che lascia interrogativi sul ridimensionamento delle aspettative del pubblico interista. Davanti ai microfoni Podolski ha ammesso: “Non mi aspettavo così tanti tifosi all’aeroporto, non mi era mai successo in carriera”. Roberto Mancini ha provato a ricondurlo alla tradizione tedesca dell’Inter: “I tedeschi all’Inter hanno fatto sempre bene”, riferendosi a Matthaeus, Brehme, Klinsmann e, soprattutto, a Karl-Heinz Rummenigge, da cui Lukas ha ereditato suggestivamente la maglia numero 11. Facendo scomodare un po’ tutti con i paragoni.

Bergheim: il calcio dall’ultimo piano di una casa popolare

Nella sua primissima vita Podolski era chiuso all’ultimo piano di un palazzone di Bergheim (di quelli che in Inghilterra si chiamano Tower Block, in Francia “HLM”), una cittadina 20 chilometri a ovest di Colonia dove si pensa per lo più a lavorare il carbone. Dal palazzo, occupato prevalentemente da operai est-europei o turchi, si vede lo stadio del Bergheim e, abbassando lo sguardo, un campetto in cemento recintato da una rete metallica. I genitori erano fuori tutto il giorno a lavorare, Lukas tornava da scuola, mangiava un pranzo arrangiato dalla sorella più grande e scendeva al campetto, o al vicino stadio del Bergheim per gli allenamenti: “Sono stato fortunato ad avere uno stadio vicino casa, o comunque un posto dove giocare a calcio”. La solita fiaba del bambino salvato dal pallone: “Se non avessi giocato a calcio sarei finito sulla strada”. Podolski è rimasto legato alle proprie radici: il campetto in cemento di Bolzplatz compare in un film dedicato alla difficile situazione sociale dei ragazzi del quartiere di Bergheim, il film è stato prodotto dalla RheinFlanke, una onlus patrocinata dallo stesso Podolski per aiutare i ragazzi dei quartieri più disagiati di Colonia attraverso l’attività sportiva.

Il trailer comincia con un’inquadratura in falsa soggettiva da cui vediamo il palazzo in cui viveva Lukas dalla recinzione del campo: i colori insaturi della fotografia rafforzano l’atmosfera dura del quartiere. Tanto grigio, tanto cemento: la tipica edilizia popolare del dopoguerra. Alla fine del trailer compare Podolski, che entra nel campetto a giocare con dei ragazzi.

Podolski inizia a giocare nel Bergheim a sei anni e ci rimane fino al 1995, quando viene notato da un osservatore del Colonia. Anche le radici con il Bergheim sono ancora ben salde: Podolski è entrato nella proprietà della squadra, finanziando la ristrutturazione del centro sportivo che prende il nome di “Lukas Podolski Sportpark”. È sempre molto presente: si dice che tenga contatti quasi quotidiani con Giuseppe Spitali (l’attuale allenatore dell’FC Bergheim 2000) e sul suo sito si trovano video come questo nel quale lo vediamo allenarsi con i ragazzi della squadra; o anche questo in cui augura buona fortuna al Bergheim insieme ai compagni dell’Arsenal.

Come immaginerete Podolski era un ragazzino molto dotato: si racconta che a 8 anni abbia fratturato il braccio a un portiere con un tiro particolarmente violento.

Nella foto qui sotto ha più o meno quell’età e lo potete riconoscere dall’aria tremendamente spaurita.

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Perché il portiere in basso al centro tiene tra le mani un orsetto di peluche?

A quanto pare, il talento di Lukas sembra provenire dal patrimonio genetico. La famiglia Podolski è emigrata in Germania dalla Polonia nel 1987 e ha ottenuto il permesso di soggiorno tramite lo status di Aussiedler. Gli Aussiedler sono le minoranze germaniche dell’Europa orientale residenti in Unione Sovietica da diverse generazioni, e tornati in Germania dopo la caduta del muro. Oggi sono 4 milioni ma nel 1987 era una cosa piuttosto rara.

I Podolski hanno ottenuto l’asilo a causa di uno strano processo storico: la cittadina da cui provenivano, Gliwice (nota come Gleiwitz prima del 1945), prima della seconda guerra mondiale era parte della Germania. Arrivano a Bergheim senza un soldo: Waldemar, il padre il cui nome tradisce origini tedesche, trova lavoro nella locale fabbrica di carbone; Krystyna, la mamma, fa la bidella in una scuola. Entrambi però quando erano in Polonia erano atleti professionisti. Il padre giocava a calcio nella Serie A polacca ma lo stipendio da calciatore non gli permetteva di pianificare un futuro: così, prima che la carriera terminasse, ha deciso di portare la famiglia in Germania, accontentandosi di giocare dopo il lavoro nel Bergheim.

Podolski dice però che il suo esempio è stato da sempre la mamma Krystyna, giocatrice di pallamano arrivata alla Nazionale polacca, che a suo dire lo ha allenato allo spirito agonistico. Nella foto qui in basso Lukas ha 17 anni anni e la mamma gli fa assaggiare il suo piatto preferito: la zuppa di fagioli polacca. La foto risale a un servizio del 2002 della Sueddeutsche che vuole lanciarlo già come la next big thing del calcio tedesco; Podolski non ha ancora esordito con il Colonia ma nelle giovanili (dove viene soprannominato "Poldi" a causa dei troppi Lukas presenti) segna praticamente ogni partita. All'epoca ha già realizzato 4 gol con l’Under-18 tedesca.

Nell’autobiografia, uscita a giugno appena prima dei Mondiali in Brasile, Podolski ha intitolato il secondo capitolo “Due Paesi in un solo cuore” e l’attenzione che vuole portare sulle proprie radici sembra andare al di là della semplice facciata.

Racconta che quando era piccolo a Bergheim la nonna lo teneva sulle gambe e gli insegnava il polacco, per non fargli perdere coscienza della propria cultura d’origine. In realtà, la regione da cui proviene la famiglia Podolski contiene in nuce un’identità meticcia, a metà tra Germania e Polonia. La Slesia è la regione di cui erano originari i vandali, invasa dalla Germania nel '39 (proprio a Gleiwitz era presente uno dei sottocampi di concentramento legati ad Auschwitz) e diventata finalmente polacca nel '45.

Gleiwitz è nel sud della Polonia, appena 50 chilometri più a nord è nato un altro tedesco-polacco come Miroslav Klose, anche lui trasferitosi in Germania a metà degli anni ’80; le 18 ore di pullman che la separano da Bergheim non scoraggiavano i suoi zii dall’andare a fargli visita, e a mantenere ancora molto vivi i legami con la Polonia.

Nel 2003 Poldi è ancora indeciso se giocare per la Germania o la Polonia. La stampa polacca spinge per una sua convocazione ma il ct Pawel Janas non è d’accordo: “Abbiamo attaccanti molto migliori in Polonia e non vedo la ragione di chiamare un giocatore solo perché ha giocato una o due buone partite in Bundesliga”.

L’8 giugno del 2008 a Klangenfurt, Podolski fa il suo debutto all’Europeo e per la prima volta nella sua vita deve affrontare la Polonia con la maglia della Nazionale tedesca. Poldi dice di essere stato male quasi fisicamente per tutto il prepartita e che non ha capito perché Loew non lo abbia escluso. Soprattutto non aveva idea di come comportarsi in caso di gol, con il padre in tribuna, con indosso la maglia della Polonia.

A metà del secondo tempo Klose scatta sul filo del fuorigioco, controlla e vola verso la porta, arrivato vicino al portiere la passa piano in mezzo, Podolski a porta vuota segna l’uno a zero. Tre minuti dopo è ancora al centro dell’area, gli arriva una palla da tirare al volo e la mette sotto la traversa con una perfezione stilistica di calcio che è tutta sua.

Klose lo va ad abbracciare e Podolski sembra pietrificato dall’emozione, chiude gli occhi e tiene una mano sul petto, come a indicare il punto in cui fa più male.

Segna quando vuole

“Sei molto bravo, vieni ad allenarti con la prima squadra per una settimana” gli dice Marcel Koller, l’allenatore del Colonia, un giorno di novembre del 2003. La squadra è in zona retrocessione e Podolski nelle giovanili gioca a un livello che ormai non gli appartiene più. Il giorno dopo firma il primo contratto da professionista (800 euro al mese) e tre giorni dopo è già in campo contro l’Hansa Rostock, e naturalmente segna, con un gol di testa tagliando sul primo palo.

Podolski rimane in prima squadra non per una settimana, ma fino a fine stagione, segna 10 volte in 19 partite, pur non riuscendo ad evitare la retrocessione della squadra. In primavera segna un gol pazzesco in casa del Bayern Monaco, con un tiro che rende l’idea del tipo di cose che riesce a fare con il sinistro. È a 25 metri, spalle alla porta, gli arriva una palla da un rimpallo: in un secondo si gira e la colpisce di mezzo esterno, uno di quei pallonetti tesi che sembrano inspiegabili a livello fisico.

Dal modo in cui Podolski lavora con il corpo al momento del rilascio del tiro si capisce quanto quella fosse esattamente la traiettoria cercata. Ah, in porta c’era Oliver Kahn.

Le prestazioni di Podolski sono così impressionanti che Rudi Voeller lo fa debuttare in Nazionale contro l’Ungheria il 6 giugno del 2004. È il primo giocatore di Serie B a giocare con la Mannschaft dal 1975. Podolski viene convocato anche per gli Europei del 2004, in cui riesce a giocare qualche minuto. Durante l’estate lo cercano il Real Madrid, il Bayern Monaco e il Manchester United, ma decide di rimanere a Colonia. Forse per il legame con la città, forse perché capisce che è la cosa migliore da fare a 19 anni. La superiorità tecnica di Podolski in Serie B si legge nei 24 gol che spingono il Colonia in Bundesliga (questo video li raccoglie tutti).

A questo punto gli indizi a disposizione ci permettono di capire due cose di Podolski: primo, segna poco di destro (una sola volta nel video linkato sopra, al minuto 3:21, e solo perché la palla gli sbatte contro); secondo, con il sinistro segna come e da dove gli pare, letteralmente. Può segnare al volo, da fuori area a incrociare, da angolature strette e complicate o semplicemente impossibili. Da fermo di potenza, o da fermo di precisione.

Ora, non credo di esagerare se dico che Podolski ha, per efficacia, bellezza e varietà di soluzioni, uno dei migliori sinistri del calcio attuale, simile a quello di Robin van Persie per esecuzione: entrambe secche e accurate, entrambe con la stessa sensazione di poter mettere la palla nel punto esatto in cui si vuole, alla velocità che si vuole. All’Arsenal gli cantavano un coro che spesso in Inghilterra cantano a sproposito: “He scores when he wants”, ma in questo caso il coro sembra adatto al giocatore.

Podolski rimane ancora l’anno successivo con il Colonia salito in Bundesliga, andando di nuovo in doppia cifra (12 gol), e diventando una bandiera del club. Sul suo sito si legge: “Conosce tutte le canzoni e rappresenta quello che i tifosi si aspettano da un giocatore in campo. È diventato davvero uno di loro ed è probabilmente più Kölsch di molti altri nati nel cuore di Ehrenfeld”. Sul bicipite destro si fa tatuare lo stemma della città di Colonia, ma la squadra a fine anno retrocederà di nuovo.

A giugno viene convocato per i Mondiali, stavolta per giocarli da titolare: la Germania ha l’accidente storico di giocare i Mondiali casalinghi con una squadra che esploderà solo quattro anni più tardi. Podolski, Schweinsteiger e Lahm saranno fondamentali ancora nella Germania campione del mondo, ma nel 2006 non sono riusciti mettersi sulle spalle una squadra a fine ciclo. Podolski gioca in attacco insieme all’altro polacco-tedesco Klose, all’epoca bomber del Werder Brema. Insieme segnano 8 dei 13 gol segnati dalla Germania ai Mondiali: sul New York Times esce un articolo con la foto dei due abbracciati con il titolo: “A caccia del sogno di una nuova Germania”. “Podolski e Klose non sono zingari, ma parte del nuovo aspetto del calcio internazionale, in cui i nomi e il colore della pelle non definiscono la nazionalità di un giocatore. La Germania ora è alimentata da un tandem che ha lasciato la Polonia per andare in Germania in cerca di lavoro, inseguendo il grande sogno tedesco”.

Nella semifinale contro l’Italia Podolski ha due occasioni pulite ai tempi supplementari, sullo zero a zero. La prima è un cross di Odonkor su cui arriva completamente solo, così solo che potrebbe quasi stoppare il pallone e concludere: invece colpisce di testa quattro metri fuori, come se avesse avuto un’intuizione nettamente sbagliata di dove fosse la porta. La seconda volta invece ce l’ha sul piede buono, appena dentro l’area: scarica forte anche se un po’ centrale, una palla che solo il Gigi Buffon del 2006 poteva non far entrare in porta.

Perdersi in Renania

Vince il premio come miglior giovane della Coppa del Mondo, davanti a Lionel Messi e Cristiano Ronaldo, ed è ormai chiaro che non potrà continuare a giocare per la squadra della sua città. In quel momento Podolski è nelle condizioni di poter scegliere dove andare: lo vogliono praticamente tutte le migliori squadre d’Europa. Decide di rimanere in Germania, nella squadra dove è logico che finiscano tutti i talenti tedeschi e dove l’anno dopo si trasferirà anche Miro Klose, ovvero il Bayern Monaco. I bavaresi hanno appena vinto la Bundesliga e vogliono costruire la squadra sui tre migliori talenti del calcio tedesco: Lahm, Schweinsteiger e Podolski. Le aspettative che circondano soprattutto gli ultimi due finiscono per creare un clima piuttosto teso.

Schweini & Poldi diventa un tormentone della stampa tedesca, che gioca sull’amicizia che li lega; su internet vengono pubblicati video nei quali si vedono i due scherzare insieme come fossero una coppia, oppure video con 13 (!) minuti di foto. L’immagine mediatica di Podolski in Germania è più o meno quella di uno scemo, di uno che non ha la maturità per avere a cuore le proprie prestazioni e quelle della squadra.

Podolski è a disagio, soprattutto perché non gioca; per la prima volta nella sua carriera non si trova in un ambiente che ripone in lui fiducia incondizionata. Non riesce a scavalcare nelle gerarchie Claudio Pizarro e Roy Makaay; i due anni successivi ha invece davanti Miro Klose e Luca Toni (capocannoniere). Segna pochissimo, 15 gol in tre anni. La stampa gli rimprovera persino di ridere troppo, era più o meno: “cosa ride se gioca poco e male?”.

Nei tre anni al Bayern Monaco Podolski appassisce. Non è riuscito a fare il salto definitivo verso la consacrazione fatto invece dai suoi coetanei Lahm e Schweinsteiger e in Germania affermarsi al Bayern Monaco è il passaggio indispensabile per essere considerato un giocatore compiuto.

Leggendo le interviste, di quegli anni ma anche attuali, si capisce quanto sia lo stesso Podolski a percepire gli anni al Bayern Monaco come il passaggio a vuoto cruciale della propria carriera, spesso con un’amarezza che non dovrebbe appartenere a un giocatore ancora nel pieno della propria carriera. In un'intervista del 2009 rilasciata alla Sueddeutsche c’è più o meno tutto: la durezza con cui lo tratta la stampa (“Mr. Podolski, il Bayern ha dimenticato come si ride, anche lei?”); la sua frustrazione (“È quando ho realizzato come mi vede la gente: Poldi qua, Poldi là, Poldi trallalla. Ma è finita ora. Sono completamente diverso. Devi prepararti per la partita, per ogni partita. E quando non gioco non sono felice. Divento matto”); stare al Bayern ma parlarne con rassegnazione, come fosse già un fallimento da digerire (“Al Bayern il cento per cento non è mai abbastanza. Giochi contro il Bolton in Coppa Uefa, segni due gol e tutto va bene. Il sabato dopo, a Stoccarda, ma solo un tempo. E tutto è finito. Tre partite consecutive in panchina, è crudele. Guidi verso casa e ti senti svuotato. Senti che non hanno bisogno di te”).

Sul suo sito, riguardo all’esperienza al Bayern, si trova scritto: “Ha lasciato la Renania per l’Isar firmando un contratto di quattro anni con il Bayern Monaco. Per un autentico Renano, Monaco può sembrare lontana quanto Londra, se non di più”.

Prinz Poldi

Nell’estate del 2009 il punto più basso della sua carriera viene sigillato da un episodio. Durante un tranquillo Galles-Germania il capitano Ballack lo rimprovera di scarso impegno e Podolski reagisce con uno schiaffo. Loew e Bierhoff decidono di non punire l’attaccante in alcun modo mentre stampa e tifosi sono indignati, con lui e con l’allenatore, che glielo ha lasciato fare.

Nonostante questo episodio, negli anni dal 2006 al 2009 a tenerlo a galla è la Nazionale. Loew gli concede fiducia illimitata: gioca titolare gli Europei del 2008 e i Mondiali del 2010, oltre a tutte le gare di qualificazione. In quei quattro anni segna in Nazionale più gol di quanti ne abbia segnati con il Bayern Monaco. Senza la Nazionale la dimensione di Podolski come calciatore sarebbe completamente differente: magari oggi parleremmo di un talento totalmente sprecato, che un po’ per demeriti e un po’ per sfortuna ha sbagliato tutte le scelte della propria carriera. L’impressione è che Podolski stesso abbia il rimpianto di non esser diventato il giocatore che avrebbe voluto a causa di quell’esperienza, su cui è tornato anche lo scorso anno, con toni forse inaspettati: “Probabilmente sono andato via dal Bayern troppo presto. Credo che se Jupp Heynckes fosse arrivato una o due settimane prima nel 2009, probabilmente a quest’ora sarei ancora al Bayern”.

Podolski è consapevole di quel passaggio a vuoto, ma è ancor più consapevole che tornare al Colonia, nel 2009, è stato un errore ancora più grosso. In quel momento poteva ancora permettersi di andare in squadre di alto livello, ma ha deciso di tornare a Colonia perché il Presidente aveva promesso di costruirgli una squadra competitiva attorno. Nonostante un primo anno ancora ricco di difficoltà (solo 3 gol in 30 partite), nei successivi due realizza prima 13 gol e poi 18 e occupa una porzione sempre più grande del cuore dei tifosi, diventando Prinz Poldi.

Podolski a Colonia è una specie di entità mistica, l’ex sindaco arriva a dire “Podolski appartiene a Colonia come la cattedrale appartiene a Colonia”. Può girare in città conciato in modo assurdo e i suoi concittadini a Carnevale gli dedicavano i carri.

Ma era davvero quello di cui aveva bisogno, tornare a essere protagonista nella squadra della sua città a 25 anni? “Volevo tornare a causa dell’amore per la squadra e la gente, ma dopo tre anni ho realizzato che non è stata una buona decisione, non hanno fatto niente per costruirmi una squadra attorno”.

Tre anni sono una quantità di tempo che un calciatore non può concedersi per realizzare una scelta sbagliata. A tenere a galla Podolski come sempre la Nazionale: anche agli Europei del 2012 gioca da titolare, la Germania continua a far spuntare talenti ma un posto per lui Loew riesce sempre a ritagliarlo. Loew aiuta Podolski a non uscire dal giro del grande calcio ed è lui che deve ringraziare forse se nel 2012 può permettersi di andare a giocare in una squadra come l’Arsenal.

Una nuova consapevolezza

Il Podolski che arriva all’Arsenal ha segnato 20 gol nell’ultima stagione, ha superato le 100 presenze in Nazionale, insomma è un giocatore con una consapevolezza completamente diversa: “Non sono tra quelli che amano tirar fuori i ‘se’, ma forse ero troppo giovane per farmi giustizia in un club come il Bayern. Ora è un’altra storia. Sono più maturo e consapevole. Ho cento presenze per la Germania e molto da dare a questo gioco. Non vedo l’ora di iniziare la Premier”. Wenger vuole metterlo al centro del progetto, cercando forse di ripetere l’operazione tecnica riuscita con van Persie, appena ceduto allo United. Ovvero prendere una seconda punta con molti gol potenziali nei piedi e farla diventare un attaccante puro, che abbia i mezzi tecnici sia per alimentare che per finalizzare il gioco veloce palla a terra della squadra. Podolski sente la fiducia e cerca di stare in una grande squadra con la positività e la leggerezza che non era stato capace di avere al Bayern.

Da agosto a gennaio segna 10 gol, la sua maglia è la quinta più venduta in Inghilterra, a un certo punto dichiara che potrebbe persino tatuarsi lo stemma dell’Arsenal vicino a quello del Colonia.

Podolski entra in una condizione mentale in cui probabilmente non ha più paura di sbagliare, e questo lo si capisce non solo da come gioca (nel girone di ritorno trova meno spazio, complici problemi fisici) ma anche dal modo in cui vive la squadra. In pochi mesi diventa uno dei leader dello spogliatoio e un giocatore cult per i tifosi. “La squadra e l’allenatore rendono tutto facile. Questo è il modo di giocare che amo, uno o due tocchi massimo”. Podolski chiude il primo anno con 16 gol e il secondo con 12, giocando però meno e registrando la media di un gol ogni due partite.

Le cose cambiano all’inizio di questa stagione. Arsène Wenger acquista Alexis Sánchez e Danny Welbeck, vuole che la prima punta sia molto mobile e in grado di giocare con i compagni e Podolski non sembra più offrire garanzie in tal senso. È in questo aspetto che risiede probabilmente il motivo per cui Podolski ha trovato progressivamente meno spazio all’Arsenal, nonostante lo sconcerto dei tifosi, che a fine dicembre (in aria di partenza) gli tributano il coro “We want you to stay”, nonostante Podolski in questa stagione non sia mai partito da titolare in campionato e non abbia mai segnato. Molto si può capire dai sentimenti di questo tifoso, che si dice tristissimo della partenza di Podolski e che sottolinea come era bello il modo in cui Podolski stava nella squadra: “Senti, non mi interessa come gioca, se mancano 10 minuti alla fine e ho una sola occasione da poter dare a una sola persona io la darei al sinistro di Podolski”.

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Questa è una delle foto più belle viste lo scorso anno. Dice molto di come Podolski all’Arsenal fosse nel posto esatto in cui voleva essere.

Milano, o cara

Quando duecento tifosi si sono presentati a Linate per accoglierlo avevano probabilmente ben presente tutto questo, ovvero che Podolski non è un giocatore banale, che vederlo indossare la propria maglia è un onore, perché è un giocatore che, fuori da ogni retorica, la maglia la onora. Ha preso la 11 di Rummenigge perché poteva permetterselo, e perché voleva forse dare il segnale di non entrare all’Inter in maniera insignificante.

In due settimane si è messo al centro del gruppo, rivitalizzando un ambiente che negli ultimi anni è sembrato incredibilmente grigio. Podolski non vive la squadra solo nei novanta minuti di partita, ma sette giorni su sette, o almeno è questo che si capisce guardando i profili Instagram e Twitter. Anche per questa dimensione impalpabile e psicologica l’acquisto di Podolski è stato importante.

Molti più dubbi restano sul piano tecnico. Nelle ultime 3 stagioni Podolski si è trasformato progressivamente in un centravanti, giocando sempre meno per la squadra. E qui risiede forse la principale motivazione tecnica della sua cessione da parte dell’Arsenal. Al suo primo anno ai Gunners ha creato 31 occasioni in 33 partite (22 passaggi-chiave e 9 assist); al suo secondo anno sono diventate solo 8 in 20 (6 passaggi-chiave e 2 assist). Nella scorsa stagione ha realizzato meno dribbling a partita di Nicklas Bendtner (0,46 contro 0,52). Podolski non sembra avere più la forza atletica per essere determinante lontano dalla porta. Nonostante questo ha giocato le prime quattro partite sulla fascia sinistra, un ruolo che si è concesso di ricoprire solo in Nazionale, dimostrando la sua disponibilità al sacrificio. Ma è un ruolo che non apprezza particolarmente, come ci ha tenuto a sottolineare, forse consapevole che non gli si addice più: «Sicuramente mi trovo meglio quando posso giocare in mezzo. Sono molto più pericoloso e più coinvolto nel gioco se mi danno palla in mezzo, dove mi posso girare verso la porta. Stando confinato sulla corsia esterna questo non avviene». Il 4-2-3-1 schierato di Mancini per il momento crea un certo intasamento centrale, con Guarín, Hernanes e Palacio, e marginalizza Podolski sulla sinistra.

L’impressione è che Podolski potrebbe trovarsi più a proprio agio nella posizione di Palacio, e magari con l’ingresso di Shaqiri tra i titolari la rotazione potrebbe favorirlo.

È difficile immaginare che da qui a giugno Podolski riesca a spostare clamorosamente gli equilibri del nostro campionato, non è del resto questo che gli si chiede.

L’energia e il carisma con cui è entrato nell’Inter non sembrano parlarci però di un giocatore finito; piuttosto di un giocatore che, nella propria carriera, è riuscito ad essere meno protagonista di quanto avrebbe voluto e potuto. Podolski sembra aver fatto i conti con questo e avere, finalmente, la maturità mentale per dare al gioco del calcio tutto quello che gli resta.

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