Nella lingua inglese si usa l’espressione “honest to a fault” per descrivere una persona estremamente sincera e onesta, al punto da farsi anche del male da sola pur di mantenere una certa condotta morale e non venire meno ai propri principi. Nel corso della sua carriera, Stan Van Gundy si è distinto dalla media degli allenatori non solo per le sue qualità con la lavagnetta in mano o per l’impatto che ha avuto nell’evoluzione del gioco, ma anche per il suo carattere “honest to a fault”, che gli è costato opportunità di carriera e riconoscimenti più o meno ovunque sia andato — l’unica vera costante della sua esperienza in NBA.
Basti pensare che nell’estate del 2014 Van Gundy aveva tra le mani l’opportunità di diventare l’allenatore dei Golden State Warriors dopo l’addio a Mark Jackson, ma pur di detenere il potere unico su una squadra ricoprendo sia il ruolo di allenatore che di capo della dirigenza, decise di accettare invece il quinquennale da 35 milioni offerto dal proprietario dei Detroit Pistons Tom Gores. Come parleremmo oggi di Van Gundy se invece di andare a rimettere assieme le macerie lasciate dalla gestione di Joe Dumars avesse deciso di occuparsi dello sviluppo finale di Steph Curry, Klay Thompson e Draymond Green? E che ne sarebbe di Steve Kerr, delle tre finali con due titoli, delle 73 vittorie, di Kevin Durant e in generale della storia recente della NBA se, invece di assecondare la propria necessità di avere il controllo assoluto su una squadra, avesse accettato di fare “solo” l’allenatore di una squadra destinata a essere contender?
Non lo sapremo mai. Quello che sappiamo, però, è che per Van Gundy, scottato da come era finita con gli Orlando Magic, era più importante non doversi guardare continuamente alle spalle e temere per il proprio futuro piuttosto che giocarsi titoli su titoli, dovendo riportare le proprie decisioni solamente al proprietario. D’altronde lo ha spiegato anche lui alla prima conferenza stampa a Detroit nell’estate del 2014: “Uno dei più grandi problemi di questa lega è che in moltissimi posti non c’è una grande connessione tra dirigenza e panchina, e si vede. Qui invece non c’è nessun gioco di potere e questo ci permette di creare un’eccellente sinergia tra le varie parti, un’organizzazione in cui tutti sono sulla stessa lunghezza d’onda. E questa è l’unica cosa che mi interessa”.
Qualche mese dopo aver spiegato le proprie ragioni, Van Gundy con la consueta trasparenza ha aggiunto anche che Detroit sarebbe stata la sua ultima fermata in NBA: “L’ho promesso a mia moglie: volevo solamente un’ultima possibilità. Qui ho un grande proprietario, una grande situazione con eccellente tradizione, e dovrei essere in grado di cambiare le cose con il tempo che mi è stato messo a disposizione. Se non ci riesco, non ci riesco. Ma questa è la mia ultima esperienza in NBA”. Oggi, dopo una sola partecipazione ai playoff in quattro stagioni, peraltro senza vincere neanche una gara in post-season, possiamo ragionevolmente pensare che la sua esperienza nella lega sia arrivata al capolinea. Anche perché le voci di una possibile presa del potere di Arn Tellem (uno dei più potenti agenti della storia dello sport USA, diventato dirigente dell’azienda che controlla i Pistons nel 2015) si fanno sempre più insistenti ogni giorno che passa, con Chauncey Billups — in odore di essere assunto come General Manager per occuparsi della dirigenza — che si è affrettato a smentire ogni voce, con il naso che gli si allungava in diretta su The Jump.
Quanto si può credere a uno che recentementeha ammesso di aver cercato di far credere alle squadre a lui interessate di essere un pessimo compagno di squadra, pur di poter scegliere la propria destinazione?
Al di là di quanto succederà in seno ai Pistons, la probabile fine della sua esperienza in NBA ci permette di tirare una riga e fare il punto su quella che è stata la carriera di Stan Van Gundy fino a oggi. Perché, indipendentemente dai risultati, la sua eredità continuerà ancora a lungo, essendo riuscito insieme a suo fratello Jeff a formare una “branca” di allenatori (da Steve Clifford a Mike Malone fino a Tom Thibodeau) che si discosta da quelle più rinomate dei vari Gregg Popovich, George Karl, Phil Jackson o Pat Riley.
L’inizio folgorante in Florida
Proprio a quest’ultimo nome è legato l’inizio della carriera da capo-allenatore di Van Gundy, subentrato a Riley sulla panchina dei Miami Heat nel 2003-04 quando quest’ultimo decise di dimettersi dal ruolo di allenatore tenendo solo quello di presidente della franchigia con parecchia influenza sulle sorti della squadra. Chiedendoglielo oggi, probabilmente Stan Van Gundy direbbe che quella influenza era fin troppa: nonostante gli ottimi risultati — una sorprendente partecipazione ai playoff con vittoria in Gara-7 al primo turno nell’anno da rookie di Dwyane Wade, un viaggio fino alle finali di conference l’anno successivo con Shaquille O’Neal e Wade arrivati in condizioni fisiche compromesse all’appuntamento coi Detroit Pistons — il rapporto è andato via via deteriorandosi fino alla rottura del dicembre 2005, che formalmente furono delle dimissioni, ma di fatto fu un licenziamento. L’impressione di tutti era che, nonostante quanto fatto nei primi due anni di carriera, il carattere puntiglioso, ossessivo e cosmicamente pessimista di Van Gundy non si sposasse bene per una squadra strapiena di veterani, specialmente dopo le aggiunte estive dei vari Gary Payton, Jason Williams, Antoine Walker e James Posey.
Un gruppo del genere non aveva bisogno di un “Master of Panic” come Van Gundy (definizione data da Shaquille O’Neal anni dopo, a sottolineare ancora di più come il rapporto tra i due non fosse mai decollato), ma piuttosto di un “Master of Puppet” come Riley, che con i suoi metodi motivazionali riuscì a entrare nella testa dei giocatori portando la squadra da un record di 11-10 al titolo del 2006 rimontando da 0-2 contro i Dallas Mavericks. E mentre Miami vinceva il primo titolo della sua storia, Van Gundy rimaneva in disparte ad attendere una chiamata da un’altra squadra — magari senza gli ego dei veterani in spogliatoi con cui fare i conti, magari con carta bianca dal punto di vista tattico per realizzare la sua visione di pallacanestro.
Dopo aver rifiutato la panchina degli Indiana Pacers ed essere stato in corsa per quella dei Sacramento Kings, Van Gundy dovette attendere che Billy Donovan si rimangiasse la parola data ai Magic prima di ottenere il posto di capo-allenatore a Orlando. Per sciogliere il suo contratto con gli Heat, però, la dirigenza dei Magic fu costretta a cedere ai “cugini” una seconda scelta 2007 (poi diventata Stanko Barac), una del 2008 (Darnell Jackson) e la possibilità di scambiare le scelte nel Draft 2008, non esercitata perché Miami era rapidamente crollata fino alla seconda scelta assoluta (Michael Beasley) mentre Orlando era tornata ai playoff dopo quattro anni di assenza, forte del primo anno da All-Star del 21enne Dwight Howard.
Foto di Noah Graham/NBAE via Getty Images
La macchina perfetta di Orlando
Proprio la presenza di “Superman” in mezzo all’area era la premessa per un ritorno ad alto livello di Van Gundy, che costruì attorno a lui una squadra basata su principi semplici al limiti della monotonia, ma difficilissima da affrontare. Perché di Stan Van Gundy si possono dire tante cose, ma non che non sia un allenatore con le idee ben chiare in testa su cosa vuole fare e come vuole far giocare le sue squadre. E mentre il resto della NBA si interrogava su quale motivo avesse spinto la dirigenza dei Magic a riempire di soldi Rashard Lewis, firmato con un contratto di sei anni a 118 milioni di dollari, Van Gundy riuscì a farlo rendere come mai prima di quel momento, convincendolo che da “4” avrebbe mandato in crisi qualsiasi avversario. In un’epoca in cui lo “Small Ball” era stato sdoganato dai Phoenix Suns di Mike D’Antoni, Van Gundy diede la sua interpretazione del sistema forte di un front-court formato da Howard, Lewis e Hedo Turkoglu. Perché un conto è andare piccoli con un lungo mobile ma “leggero” come Amar’e Stoudemire azionato da un genio come Steve Nash, e un altro è fare i conti con un centro delle dimensioni di Dwight Howard nel suo prime atletico e azionato da un portatore di palla di 208 centimetri come Turkoglu, il tutto circondato da tiratori tra cui Lewis da “4”, indigesto a tutte le ali forti tradizionali della lega.
Lewis e Turkoglu in gara-2 delle finali di conference del 2009, prima di “The Shot” di LeBron James.
Quelle dimensioni del front-court sono ciò che hanno reso modernissima e ingiocabile l’Orlando di Van Gundy, capace di centrare i playoff per cinque volte su cinque sfruttando pochi ma ben definiti punti di forza. C’erano i blocchi e i tagli a canestro di Howard, che se azionato in movimento in uno spread pick and roll era imprendibile per i lunghi che giravano per la lega in quel momento; c’erano i problemi di mismatch che Lewis e Turkoglu ponevano a tutte le ali della NBA, essendo entrambi troppo grossi per i “3” e troppo veloci e dotati di ball-handling e tiro per i “4” tradizionali; il tutto contornato da guardie in grado di mantenere buone percentuali da tre e/o di gestire in maniera competente un pick and roll, come ad esempio il sottovalutatissimo Jameer Nelson o incanalando nella giusta direzione il basket di strada di Rafer Alston, aka “Skip 2 My Lou”. In difesa, poi, le dimensioni dei quattro esterni permettevano di cambiare sui blocchi in un’epoca in cui non era così usuale, con le guardie facevano un eccellente lavoro nell’incanalare gli attaccanti avversari verso le fauci di Howard, esaltato da questo schema e in grado di vincere per tre volte il premio di difensore dell’anno dal 2009 al 2011.
Il risultato è che i Magic nei primi tre anni con Van Gundy in panchina hanno sempre chiuso la regular season in top-10 sia per rating offensivo che difensivo, diventando rapidamente una contender nella Eastern Conference fino a vincerla nel 2009, arrivando alle Finali NBA per la seconda volta nella storia della franchigia superando i Boston Celtics dei Big Three (privi di Kevin Garnett) e i Cleveland Cavaliers di LeBron James. I limiti di quella squadra, semmai, si sono rivelati nell’incapacità di andare “fuori dallo spartito”, senza avere il talento o la personalità per improvvisare: nel momento in cui bisognava decidere una serie, l’organizzazione di quel sistema e la qualità di quei giocatori arrivava solo fino a un certo punto, e a vincere erano i più esperti Pistons (nel 2008), i Lakers di Kobe Bryant (Finali 2009) o i Celtics dei Big Three al completo (2010).
I Magic del 2009-10 rappresentano l’apice della parabola di Van Gundy in panchina, nonché l’inizio della sua fine. Dopo aver sopperito alla partenza di Turkoglu in free agency inserendo in squadra Vince Carter e aumentando la qualità del supporting cast con i vari Matt Barnes e Ryan Anderson e le crescite di Mickael Pietrus, J.J. Redick e Marcin Gortat (questi ultimi tre cresciuti a dismisura sotto Van Gundy fino a diventare eccellenti giocatori di rotazione, nel suo miglior lavoro di sviluppo della carriera), Orlando chiuse la regular season con un record di 59-23 forte del quarto miglior attacco e della terza miglior difesa della NBA. In quella stagione probabilmente i Magic erano la squadra più completa e profonda della lega sui due lati del campo, avendo raggiunto il massimo della fiducia nel proprio modo di giocare e cavalcando un Howard ai piedi del podio per l’MVP, togliendo tre voti per il primo posto a LeBron James (l’unico a riuscirci insieme a Kevin Durant). Ancora una volta, però, i limiti mentali della squadra finirono per emergere nelle finali di conference dopo aver “sweepato” i primi due turni contro Charlotte e Atlanta. Con il fattore campo a favore, Orlando perse in casa le prime due gare della serie contro i Celtics, venendo poi sotterrata di 23 punti in Gara-3 al TD Garden. Sotto 0-3 nella serie, i Magic vinsero le successive due in maniera abbastanza convincente da far pensare che una rimonta mai successa prima nella storia della lega fosse possibile, ma in Gara-6 persero di 12 salutando definitivamente il sogno di un titolo NBA.
I limiti di Van Gundy dentro e fuori dal campo
Capire dove cominciano e finiscono le responsabilità di Van Gundy sul mancato successo finale dei Magic non è semplice. Di sicuro lui ha mostrato una certa mancanza di flessibilità, tanto caratteriale quanto tecnica, nel fare fronte alle situazioni diverse che i playoff propongono di partita in partita, o anche di quarto in quarto. Quello che è certo, però, è che quei Magic sono andati ben al di sopra di dove il loro talento avrebbe dovuto portarli, e il sistema ideato e allenato da Van Gundy ha permesso ai vari Howard, Lewis, Turkoglu e Nelson di esprimersi a livelli mai toccati né prima né dopo. Basti guardare la rapidità con cui Turkoglu è scaduto come il latte lasciato fuori dal frigo (anche perché il contrattone firmato a Toronto, diciamo così, lo ha appesantito) o, soprattutto, l’impatto di Howard una volta lasciata la Florida, che nelle varie fermate tra Los Angeles, Houston, Atlanta e Charlotte non ha più mostrato la continuità vista sotto Van Gundy. Di sicuro c’entra il fatto di aver passato con lui gli anni migliori dal punto di vista fisico, visto che l’operazione alla schiena nell’estate del 2012 ha finito per pesare parecchio sulla sua seconda parte di carriera, ma è anche indubbio che rompere i ponti con il suo capo-allenatore abbia fatto più male che bene a “DH12”.
Howard e Van Gundy sono stati protagonisti della conferenza stampa più surreale della storia della lega, nonché il punto più basso del loro rapporto: quella della “Diet Coke”. Mentre sorseggia una lattina, SVG ammette candidamente di aver saputo “direttamente dalla dirigenza” che Dwight Howard lo vorrebbe cacciare e che i Magic vorrebbero accontentarlo per non compromettere i rapporti in vista dell’estate. Dopo aver parlato con una trasparenza rara per un professionista del mondo dello sport — in particolare uno che sta per perdere il proprio posto di lavoro —, Van Gundy lascia Howard a rispondere alle domande dei giornalisti sul suo possibile licenziamento, costringendolo a una colossale figura di m.
A fine stagione, dopo un’eliminazione e un licenziamento tanto scontati quanto inevitabili, Van Gundy ha passato due interi anni senza trovare un’altra panchina — e la sua nomea di persona estremamente cristallina, nel bene ma soprattutto nel male, gli ha perfino impedito di avere un ruolo da analista per ESPN insieme al fratello Jeff. In un podcast di qualche anno fa con Zach Lowe, infatti, SVG ha confermato le voci che volevano l’ex Commissioner David Stern opporsi alla sua assunzione come voce del network per le partite della NBA, complici delle opinioni non esattamente politically correct dell’ex coach di Miami e Orlando sulla lega e in particolare sul Commissioner (a un certo punto paragonato a Gheddafi per la sua intransigenza).
Per non irritare un proprio partner, ESPN alla fine decise di non assumerlo, lasciandolo a spasso per due anni in attesa di un nuovo incarico. Van Gundy aveva l’obiettivo chiaro di non ripetere più l’esperienza avuta a Orlando, cercando e ottenendo il controllo totale su una squadra (e quindi del proprio destino) ricoprendo il doppio ruolo di allenatore-presidente delle operazioni cestistiche. “Se proprio devo uscire di scena”, deve aver pensato, “voglio farlo per colpe esclusivamente mie”. E questo ci porta a Detroit e non a Oakland.
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Cosa è andato storto nell’esperienza ai Pistons
Stan Van Gundy si è presentato a Detroit come l’uomo del cambiamento, deputato a rimettere assieme i cocci lasciati dalla gestione precedente, rea di aver creato un mostro a tre teste formato da Andre Drummond, Greg Monroe e Josh Smith. Il nuovo allenatore-presidente si sottopose a una visione stile Arancia Meccanica di tutte le partite della stagione precedente dei Pistons (“un destino peggiore della morte”, direbbero quelli di Grantland), ma ciò nonostante al suo primo anno non toccò più di tanto il roster, provando a vedere se i tre potevano convivere sotto la sua guida tecnica. Il risultato fu un tremendo record di 5-23 e una prima decisione estremamente forte, che ha finito per definire il suo intero quadriennio: il taglio del contratto di Josh Smith.
Poco prima di Natale, Van Gundy decise di averne abbastanza del talentuoso ma volubile lungo, che a quel tempo era il giocatore più pagato di tutto il roster. Per questo decise di tagliarlo e spalmare il suo contratto sulle successive cinque stagioni, tanto che il suo “stretch” peserà sul salary cap dei Pistons fino all’estate del 2020, rimanendo ancora oggi il settimo contratto più oneroso della squadra. Una mossa shockante di uno che non ha tempo da perdere e che vuole lasciare immediatamente un segno tangibile del suo potere all’interno della franchigia per vedere fino a che punto poteva spingersi — ma che denota anche la sostanziale mancanza di lungimiranza di un uomo che ricopre il doppio incarico di allenatore e presidente.
I due ruoli, infatti, si sono rivelati incompatibili negli ultimi anni, per una sostanziale differenza di vedute tra le posizioni di una panchina e di un dirigente, tanto che in NBA sono rimasti solo Gregg Popovich e Tom Thibodeau a farlo. Perché mentre l’allenatore ha una visione ridotta che procede solo di partita in partita, cercando di vincere quante più gare possibili e di avere il miglior record a fine anno, il secondo deve pensare sempre a medio-lungo termine calcolando le ripercussioni e la “big picture” di qualsiasi mossa, perché ognuna è figlia di scelte precedenti e ognuna avrà ripercussioni su quelle che seguiranno. L’affaire Josh Smith ne è l’esempio perfetto: i risultati in campo per l’allenatore Stan Van Gundy furono incoraggianti, visto che la squadra recepì immediatamente il messaggio realizzando una striscia di dodici vittorie in quindici partite; le ripercussioni per il presidente Stan Van Gundy, invece, si sentono ancora oggi, perché quei cinque milioni di spazio salariale occupati da Smith farebbero estremamente comodo per ogni operazione sul mercato — anche solo per acquisire il contrattino di un buon giocatore di rotazione da una squadra alle prese con la luxury tax. Come detto da un’agente a The Athletic: “Gli allenatori sono interessati solo a vincere, tanto da perdere la visione a lungo termine. E un agente sa quando può approfittare di queste squadre che hanno un allenatore così poco lungimirante: se riesci a proporgli uno che secondo loro è un buon fit, basta solamente sparare alto all’inizio e poi un accordo ottimo si trova”. Un difetto che si è visto in maniera palese in free agency.
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Nella costruzione del suo roster, Van Gundy ha provato a rinverdire i fasti della formula che lo aveva portato al successo a Orlando, fondando il suo attacco attorno a un pick and roll centrale gestito da Reggie Jackson (acquisito a metà del suo primo anno e confermato con quinquennale da 80 milioni non ripagato dal campo, anche per via degli infortuni) in coppia con Andre Drummond, circondandoli di atleti imponenti e il quanto più possibile versatili sui due lati del campo, magari con pericolosità perimetrale. Ma se la ricetta era tutto sommato chiara nella sua idea tattica, è stata la qualità degli ingredienti e la gestione dei tempi a decretare il fallimento dell’esperienza di Van Gundy come deus ex machina dei Pistons. Perché i giocatori scelti si sono rivelati quantomeno mediocri per non dire scadenti, specialmente da una panchina in cui non è stato tirato fuori nessuno di rilevante (se non Reggie Bullock, uscito solo in questa stagione dopo aver girovagato per anni). Oltretutto, nel periodo in cui Van Gundy è rimasto fuori dalla lega, il resto della NBA è andato avanti e tutte le squadre si sono dotate di una strutturazione "small" con ali versatili e intercambiabili per disinnescare ciò che aveva reso grandi le squadre di Orlando, senza che SVG riuscisse a trovare un altro stratagemma per rimanere un passo avanti a tutti. Anche perché una squadra fondata su Jackson e Drummond con Tobias Harris come realizzatore principale ha dei limiti ben precisi su cosa può fare e su dove può arrivare — toccando il punto massimo con un’eliminazione al primo turno per 0-4 contro i Cleveland Cavaliers.
Stan Van Gundy il presidente si è poi reso protagonista di scelte drammatiche in sede di Draft e di free agency. Dopo aver ceduto la prima scelta del 2016 per arrivare a Reggie Jackson, Van Gundy ha prima scelto Stanley Johnson nel 2015 quando c’era ancora disponibile Devin Booker e Luke Kennard lo scorso anno quando c’era ancora Donovan Mitchell, preso una scelta dopo dagli Utah Jazz via Denver. Due errori del genere si pagano carissimo in NBA, perché con anche solo uno dei due darebbe tutt’altra prospettiva allo sviluppo dei Pistons nei prossimi anni, considerando anche la scelta sprecata su Henry Ellenson (mai visto in campo), le cessioni frettolose di Spencer Dinwiddie (una delle note liete della stagione di Brooklyn) e di Jonas Jerebko (in pacchetto con Gigi Datome, mai visto come giocatore utile da Van Gundy).
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I contratti dati in free agency, poi, gridano vendetta: passino i 19 milioni per Aron Baynes, che comunque paiono esagerati, ma non si capisce per quale motivo Van Gundy abbia dato anche 19 milioni in tre anni a Jodie Meeks (mai realmente utile), 21 milioni in tre anni a Boban Marjanovic (accorgendosi poi che non poteva circolare in NBA per più di 10 minuti a partita, cosa nota a tutti da tempo), 21 a Langston Galloway al primo giorno di mercato, azzoppandosi con un hard cap per il resto dell’anno; 42 milioni a uno “stretch 4” utile ma limitato come Jon Leuer, oggi rotto; e altri 21 per Ish Smith, che pur essendo vagamente utile come cambio si è rivelato tremendamente inadeguato come titolare.
Uno spreco del genere dello spazio salariale mostra come la lungimiranza di SVG si sia rivelata insufficiente, una mentalità spiegata bene anche nel podcast sopra citato con Zach Lowe: giustificando il contratto di Baynes, Van Gundy sostenne che lui non era alla ricerca del “miglior affare secondo l’opinione dei giornalisti”, ma del miglior giocatore possibile per vincere le partite. Questo voleva dire che, piuttosto che “fare un affare” dando 2.5 milioni a un giocatore utile ma — secondo la sua opinione — con poco impatto immediato sulle partite, per lui era meglio darne 5 a uno in grado di dargli una mano subito anche se controproducente in termini di spazio salariale. Questo è esattamente il limite di un allenatore che prova a fare il GM: il lavoro della dirigenza è proprio quella di trovare giocatori a basso costo che in campo “sovraproducano” il valore del proprio contratto per lasciarsi la porta aperta nel caso in cui si presenti un’occasione, lasciando agli allenatori il compito di trovare il modo di riuscirci attraverso lo sviluppo, il minutaggio e le motivazioni.
Non capire questa sottile ma decisiva differenza di mentalità è costata a Van Gundy il suo posto, anche se bisogna dire a suo favore che grazie ad alcune ottime trade lascia una squadra migliore rispetto a quella che ha trovato — non fosse altro che là dove c’era Josh Smith ora c’è Blake Griffin, il suo ultimo grande lascito alla franchigia. L’ex Clippers ha i suoi noti difetti ed è destinato al declino nei prossimi anni, ma è ancora un giocatore attorno al quale si può costruire un attacco basandosi sulle sue doti di playmaking e di attaccante uno-contro-uno, cosa che si è vista anche in questi mesi in cui tutti stavano palesemente cercando di capire come farlo convivere con Andre Drummond. La mancanza di tiro perimetrale, però, rende difficile far coesistere due lunghi così interni, e di sicuro non ha aiutato che la grave distorsione alla caviglia subita da Reggie Jackson (che sarà pure Reggie Jackson, ma è comunque una point guard titolare in NBA) lo ha tenuto fuori per quasi tre mesi, debuttando insieme a Griffin quando la distanza dall’ottavo posto era ormai incolmabile.
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Team player
Il proprietario Tom Gores, pur dando una flebile investitura a Van Gundy (che ha ancora un anno di contratto e, con Jackson sano, ha un record di undici vittorie superiore al 50% negli ultimi due anni), ha anche sottolineato come Stan sia un “team player”, e che quindi farà “ciò che è meglio per la franchigia”. I risultati della squadra — tre volte su quattro in Lottery, neanche una vittoria ai playoff — sono tali da giustificare un cambio di rotta, anche perché il prodotto messo in campo ha fallito miseramente nell’attrarre spettatori nella stagione inaugurale della Little Caesars Arena, forse l’aspetto peggiore di tutta l’annata di Detroit.
Van Gundy, dal canto suo, avrebbe potuto sviare le domande sul suo futuro con grande facilità, come farebbe la stragrande maggioranza dei suoi colleghi in una situazione simile. Fedele al suo personaggio e al suo carattere, però, ha affrontato l’elefante nella stanza parlandone con un candore e una serenità d’animo che ti fa venire voglia di abbracciarlo. “Questo business si basa sul vincere le partite, cosa che noi non abbiamo fatto abbastanza. So come funziona questo lavoro: Tom è stato fantastico, non avrebbe potuto comportarsi in maniera migliore. So che vuole che tutto vada alla perfezione e siamo d’accordo al 100% su come debba essere gestita la situazione” ha dichiarato recentemente alla stampa.
“Mio fratello lo ha detto perfettamente: ‘Essere licenziati non è doloroso; è quello che porta al licenziamento che lo è’. Non sono per nulla preoccupato di quello che succederà: se fossi al mio secondo anno in NBA e stessi costruendo la mia carriera, o se avessi dei figli piccoli senza una stabilità finanziaria, allora forse mi preoccuperei. Ma nessuna di queste cose è vera: sono in questa lega da 20 anni e sono stato molto, molto fortunato. Non ho bisogno di lavorare un giorno di più nella mia vita. Ho tutta la sicurezza di cui ho bisogno. Farò quello che è meglio per la franchigia senza alcuna apprensione: come ho detto tempo fa, se non mi troverete qui l’anno prossimo non mi metterò alla ricerca di un altro lavoro, potete venirmi a trovare alla casa sul lago in estate o in cortile in Florida durante l’inverno. Quello che mi preoccupa, quello che mi tiene sveglio la notte, è che abbiamo perso dieci delle ultime dodici partite. Quello mi manda fuori di testa. Ma la decisione che prenderà Tom a fine anno non mi preoccupa minimamente. Quello che mi interessa è giocare bene e vincere le partite: di tutto il resto, non me ne frega un c***o”.
Chissà se Adam Silver, a differenza del suo predecessore, sarà abbastanza magnanimo da concedergli il posto a ESPN che noi tutti attendiamo da anni. Altrimenti dovremo andare fino alla sua casa in Florida per chiedergli l’ennesimo rant sulla lega, sugli arbitri e su tutto quello che gli passa per la testa. E, alla fine dei conti, sarebbe un gran peccato, perché personaggi come Stan Van Gundy — con i suoi limiti, i suoi difetti e i suoi errori — rendono la NBA una lega incredibile da seguire giorno dopo giorno.