Un monologo, quasi un esercizio per prepararsi alla grande vendetta: il 6-0 con il quale il Brasile ha battuto l'Honduras è servito innanzitutto per esorcizzare il ricordo dell'ultima semifinale disputata da una Seleçao, e poi per ribadire alla Germania quello che tutto il Maracanà cantava già a metà del primo tempo: «O Alemanha, pode esperar, a sua hora vai chegar». «Germania, puoi giurarci: la tua ora arriverà».
La semifinale ha segnato l’acme del cambio nettissimo che il Brasile ha iniziato a operare tra la seconda e la terza partita, e allo stesso tempo ha regalato una conferma che suona come una sentenza: questa Seleçao olimpica ha il talento, la completezza, la struttura e quindi tutti i crismi per rompere la maledizione della medaglia d'oro. Un pensiero talmente fisso e ossessivo, l’oro, da far dimenticare che spazzando via la banda di Jorge Luis Pinto, vero e proprio maestro dei “mezzi-miracoli”, il Brasile ha già stabilito un record: quello della sesta medaglia olimpica nel calcio, cosa mai riuscita ad altre nazionali. Il problema, se vogliamo, è che le precedenti cinque sono tre d'argento e due di bronzo; di conseguenza il virgolettato più diffuso nello spogliatoio verdeoro è «non abbiamo ancora conquistato niente». Che in parte è vero, ma in parte anche no.
In realtà questa squadra qualche conquista l'ha piazzata: innanzitutto si è ripresa la sua gente, strappandola ai fischi e riportandola ai cori, dalle magliette di Marta all'idolatria sviscerata nei confronti di Neymar, lui sì ancora in corsa per il metallo più pregiato oltre che per il titolo di capocannoniere del torneo. Sic transit gloria mundi.
Riportando tutto a casa
Il tifo, a tutte le latitudini, insegue dinamiche schizofreniche; o magari il nuovo abbraccio fra la Seleçao e il suo popolo si è materializzato in occasione della prima volta, in questi Giochi, in cui il Brasile è sceso in campo al Maracanã dopo un lungo girovagare tra Brasilia, Salvador de Bahia e San Paolo.
L'ottima prestazione di Neymar contro l'Honduras.
O forse, più semplicemente, il Brasile ha incominciato a fare il Brasile: giocando bene, regalando allegria, e soprattutto radendo al suolo tutto quello che gli si presentava davanti. Avete presente il “4-2-fantasia” del Leonardo milanista? Ecco, Rogerio Micale ha capito – dopo due esibizioni da crisi di nervi, soprattutto per lo spettatore, sulla traccia di un 4-3-3 senza troppo senso – che era l’unica soluzione plausibile da abbracciare. Il CT verdeoro ha cambiato due uomini, ne ha spostato un terzo, e ha spalancato lo scenario per un nuovo mondo.
La modifica più importante è stata l'inserimento di Luan al posto di Felipe Anderson: a livello assoluto il laziale è probabilmente un giocatore superiore rispetto al gremista; eppure, in questa squadra e in questo momento, fra i due non sembra esserci paragone. Felipe Anderson ha giocato da titolare le prime due partite: sembrava un fantasma, caracollante per zone del campo che non sono le sue, totalmente impalpabile, tanto da far pensare che la crisi di questo talento sia soprattutto psicologica, perché l'immagine che dà di sé è quella di un giocatore svuotato, infelice e preso in un turbine di difficoltà apparentemente insormontabili.
Luan, invece, sembra brillare di un altro tipo di luce: si è fatto trovare pronto all’appuntamento con la capacità d'impatto di un bulldozer e la raffinatezza tecnica di chi viene dal futsal, ma soprattutto con una determinazione e fame che in tornei brevi come questo possono sempre fare la differenza. Luan è il centravanti perfetto per questo Brasile, una vera testa di ponte: è lui il primo che si alza quando la squadra imposta, con Neymar che gli scala dietro e i due Gabriel che si aprono.
Ed è sempre lui quello che si palesa alle soglie dell'area per ricevere e fare da boa, producendo palle filtranti o conclusioni, come questa contro la Colombia.
I numeri del “7” sono smaglianti: tre gol personali e due assist in 344 minuti, il che vuol dire una rete prodotta ogni 68,8 minuti. L’introduzione nell’undici iniziale di Luan, e la sua posizione inedita in campo, hanno scatenato un effetto domino che ha finito per interessare tutti gli uomini e ridefinire tutti i ruoli di questo Brasile. A partire dal suo numero 10.
La rete che ha aperto, e di fatto anche chiuso, Brasile-Honduras dopo soli 14 secondi di gioco ne è un esempio perfetto: Luan è il primo a pressare, a mandare la difesa avversaria in tilt. Neymar non deve fare altro che approfittarne.
Il gol più veloce nella storia del calcio Olimpico. 14 secondi, giusto il tempo di una gif.
Il Brasile di Neymar
Casomai ci fosse ancora chi pensa che Neymar possa giocare da riferimento assoluto in attacco, questa Olimpiade rappresenta l'ennesima smentita. Non conta tanto la sua posizione di partenza, che può essere quella di esterno sinistro - come gli è sempre capitato a livello di club - o di catalizzatore di gioco in zona più centrale - che è poi la sua interpretazione del ruolo nella maggior parte dei casi in cui veste la maglia verdeoro.
L'importante è che ci sia sempre un riferimento alternativo nella linea offensiva, qualcuno che abbia tecnica, movimenti e soprattutto fisicità: nel Santos campione d'America del 2011 era Zé Eduardo; nel super Barça di Luis Enrique è Suárez; in questa nazionale, appunto, Luan. Il miglior amico di Neymar è sempre lo spazio, e il peggior nemico la pressione di un marcatore che gli toglie ossigeno.
Messo nelle condizioni ottimali per esprimere le sue caratteristiche, il campione del Barcellona diventa inarrestabile. Non è un caso che dopo il cambio di sistema Neymar abbia prodotto 3 reti e 3 assist in 270', statistiche pazzesche se messe a confronto con il vuoto pneumatico dei primi 180’.
Un discorso simile si può fare per Gabriel Jesus, che non è (o non è ancora) un attaccante puro: rispetto al collega blaugrana, l'ex Palmeiras sembra però poter compiere questa evoluzione, perché ha una serie di caratteristiche fisiche (soprattutto in tema di resistenza al contatto) che lasciano intravedere un futuro da punta vera e propria. Nel frattempo, però, il compito perfetto per lui sembra essere quello di inscenare la sorpresa, l'inserimento improvviso che fa saltare il banco.
È così che ha confezionato le sue tre reti nel torneo: sempre partendo da sinistra, sempre alle spalle del marcatore diretto, senza lasciare alcuna possibilità di appello una volta perso l'attimo giusto.
Oltre ad essere velocissimo, Gabriel Jesus ha anche un killer-instinct comprovato.
Al contrario, il suo quasi omonimo Gabigol è sembrato un passo indietro: l'impressione è che Gabriel Barbosa debba ancora capire come mettere l'estetica nel dribbling al servizio dell'utilità della squadra, perché il suo rendimento – nonostante tutto – continua ad essere meno soddisfacente rispetto a quello degli altri avanti. Le possibilità di costruire sul suo mancino e sulle sue sterzate un progetto di grande giocatore ci sono sempre.
Il Brasile di Renato Augusto
Se la carta Luan è stata quella che ha saputo cambiare la faccia dell'attacco brasiliano, non di minore efficacia sono state le modifiche apportate al centro del campo. Non tanto con l'inserimento di Walace - reso necessario dall’esigenza di avere i muscoli e i centimetri per sostenere cinque giocatori offensivi - al posto di Thiago Maia, quanto con la reinvenzione in cabina di regia di Renato Augusto, il vero geometra di questa squadra.
Renato Augusto è un giocatore sublime, con la tecnica del crack ma anche un livello di “teamwork” che lo rende speciale rispetto al prototipo del fantasista brasiliano. Se non avesse avuto diversi guai fisici probabilmente avrebbe sfondato anche in Europa (e in ogni caso a Leverkusen conservano un buon ricordo). Ora gioca in Cina, dove fa quel che vuole, ma la sensazione è che possa farlo anche nella Seleçao, e non solo a livello di Olimpica.
Si abbassa sulla linea dei difensori per organizzare o creare dal nulla una transizione offensiva.
Certo, se in una squadra ci sono cinque giocatori come Luan, Neymar, Gabriel Jesus, Gabigol e Renato Augusto, gli altri sei devono davvero essere un blocco di cemento armato, perché il peso da sostenere risulta veramente notevole. E forse è proprio qui che si cela il vero mistero di questo Brasile: nonostante il suo comparto difensivo appaia tutt'altro che granitico, nessuno è ancora riuscito a violare la porta verdeoro.
Detto della necessità di piazzare l'obelisco Walace in mediana, con buona pace di Thiago Maia, che ha probabilmente i piedi e i tempi per diventare un buon volante basso ma non (ancora) il fisico per reggere cotanta potenza offensiva, il quintetto arretrato si poggia sì sulla classe di Marquinhos, ma per il resto propone elementi che ad oggi non sembrano essere al livello, nemmeno in potenza, del giovane centrale del PSG.
In primo luogo, Rodrigo Caio, ammirato da Valencia, Lazio e Siviglia ma ancora di proprietà del San Paolo, che a dei piedi e una visione di gioco che fanno sognare abbina una morbidezza agonistica che forse non sopravviverebbe al calcio europeo. Anche i laterali, Zeca e soprattutto l'ex Udinese Douglas Santos, hanno gamba e tecnica ma in Europa pagherebbero dazio difensivamente. Per non parlare del portiere Weverton, che in generale ha mostrato incertezze lampanti: Alisson, che avrebbe dovuto reggere i pali di questa selezione se non ci fossero stati i playoff di Champions per la sua Roma, è senza dubbio di un altro livello.
Contro Honduras però ha sfruttato il clima per prendersi qualche fotografia da incorniciare.
Eppure, il mix sembra funzionare. O almeno, ha funzionato fino ad ora, perché adesso arriva la Germania, e allora l'esorcismo da compiere è doppio. Chiaramente il risultato della finale del Maracanã sarà giudice supremo, e la sua sentenza non mancherà di avere ripercussioni, comunque vada, enormi.
In ogni caso questa Seleçao Olimpica, e con lei il suo tecnico Rogerio Micale, sta regalando un messaggio che non andrebbe trascurato. Per chi ancora crede che il risultato non sia l'unica cosa che conta, e che le faccende calcistiche vadano valutate guardando il campo più che i tabellini, suona più o meno così: date al Brasile il suo gioco, la sua allegria, le sue caratteristiche tradizionali, e vedrete che darete al suo popolo, e in generale a tutto il mondo del pallone, un Brasile vero, o se preferite il vero Brasile.
Un Brasile che piace. E, di solito, un Brasile che piace è un Brasile che vince.