L'epilogo perfetto?
Quando quasi vent’anni fa mi sono imbattuto nella scena finale de I soliti sospetti ricordo di averla trovata perfetta. Ne avrei viste e lette molte altre, più eleganti o emozionanti, ma il ricordo di quella compiutezza e puntualità mi è rimasto nitido. È una scena in cui i famosi puntini vengono uniti generando forma, i cerchi si chiudono, realizziamo ciò che fino ad allora abbiamo solo intuito a sprazzi. Kevin Spacey ha fino a quel punto ordito una trama, prendendo spunto da piccoli dettagli disseminati nell’ufficio del poliziotto che lo sta interrogando, per raccontare l’efferatezza dei crimini di Keyser Söze senza dare mai a intendere che Keyser Söze possa essere lui.
Quando afferriamo la chiave del trucchetto, e si innesca un effetto domino di rivelazioni, capire ci sembra l’attività più facile del mondo. Personalmente ho sempre gradito la rievocazione di quell’effetto Keyser Söze Disvelato (da qui in poi: “l'attimo KSD”). Per Álvaro Recoba (che devo aver visto giocare per la prima volta nello stesso periodo più o meno in cui ho scoperto I soliti sospetti) l’attimo KSD, quello in cui l’idea di poter afferrare il segreto della sua carriera pare a portata di mano, è lungo due minuti e mezzo, ed è questo:
Le mani sui fianchi del Chino, il passo sul posto nervoso: tutto lascia presagire che quella “última bola de la tarde” potrebbe essere qualcosa più di un’ultima occasione.
Il Nacional che arriva al derby di quasi un anno fa contro il Peñarol è lanciatissimo: è la dodicesima giornata e ha perso una sola volta. Il campionato Apertura non è in discussione, ma una sconfitta contro il club “Carbonero” significherebbe dover rimandare i festeggiamenti, oltre al fatto di perdere una stracittadina così sentita come quella tra i due club più importanti di Montevideo. Il “Tricolor” ha pareggiato al 91’ con un gol probabilmente irregolare, di mano; è il 93’ e Recoba di appresta a tirare una punizione decisiva. Lo fa esattamente dal punto in cui ci si aspetta si materializzi Recoba per tirare una punizione.
La verità è che l'epilogo perfetto non esiste
Dopo quella partita, quel gol che varrà la vittoria nel Clásico e un sigillo a forma di piede sinistro di Recoba sul campionato (facendo tornare in auge l’associazione della sua figura a temi come l’incisività, il peso specifico, la decisività), il suo compagno di squadra Gastón Pereiro si tatuerà il volto del Chino sull’avambraccio. In una radiocronaca il commentatore quasi in lacrime dice: «A quel mancino bisognerebbe fare un monumento». Eduardo Ache, presidente del Nacional, affermerà: «Se a Parque Central c’è una statua di Carlos Gardel non vedo perché non ne dovremmo fare una al Chino. È arrivato all’altezza di Dio». Quando la palla tocca la rete Carlos Muñoz, una delle voci storiche del calcio uruguayo insieme a Victor Hugo Morales e el toto Da Silveira, sciorina una lunga lista di aggettivi: maestro, fenomeno, impressionante, meraviglioso, fenomenale, spettacolare.
Decriptare il “Codice Recoba” significa, in un certo modo, provare a immaginare che tipo di giocatore sarebbe potuto diventare se avessimo applicato quel tesauro di aggettivi—meraviglioso, spettacolare, fenomenale—con continuità, e non solo episodicamente. O forse la verità è che per Recoba una scena finale perfetta come quella de I soliti sospetti non esiste.
Davvero ci manca il Chino?
Álvaro ha deciso di ritirarsi nel giugno scorso, dopo l’ultimo Clausura con il Nacional. L’ha fatto alla chetichella, rifuggendo le luci della ribalta, eppure sollevando un maremoto di nostalgia. Ho provato a chiedermi perché ci manchi così tanto Recoba, e l’unica risposta che sono stato in grado di darmi è che in realtà non è tanto lui, quanto l’idea di calcio alla quale è legato a mancarci. La nostalgia è quel fascio di associazioni che le sinapsi si apprestano a scatenare quando sentiamo pronunciare il nome di Recoba, come quando sentiamo una canzone che ci ricorda le vacanze al mare. Forse uno degli aspetti meno concludenti della narrativa sportiva moderna è il suo insistere—oltre che su una vena passatista—sul topos del talento sciupato: in ogni professione esistono le promesse, ma nel calcio, e nello sport più in generale, l’incompiuto suscita più sensazionalismo del campione fatto e finito, conclamato.
Recoba era un calciatore tanto fortunato da aver ricevuto un dono divino concentrato nella terminazione della gamba sinistra, ma pure un atleta discontinuo, che si beava della sua indolenza. Prima dell’avvento degli ingaggi multimilionari è stato il calciatore più pagato al mondo, eppure spesso non rientrava tra i titolari—figuriamoci tra gli imprescindibili capisaldi—della squadra per cui giocava, fatto che in sé ci spinge a riflessioni dagli esiti contrastanti sui concetti di meritrocazia, genio, incomprensibilità dell’artista. Sia con l’Inter che con la Celeste (per la quale ha segnato 11 reti, tutto sommato più di calciatori con un’aura più positiva, tipo Schiaffino o Zalayeta), la grande sensazione che ha sempre regalato ai tifosi è stata quella di non essere del tutto capace di portare sulle spalle il peso delle aspettative riposte in lui.
La definizione forse più puntuale di Álvaro l’ha data la moglie, Lorena Perrone, con una doppietta di aggettivi apparsi in un’intervista alla Gazzetta del marzo del 2000: «Pigro e romantico». «Nella vita è come è in campo: sempre con la testa tra le nuvole, poi un colpo di fantasia che ti spiazza».
Ci siamo innamorati di Recoba come ci si innamora di una ragazza scostante, che mantiene un atteggiamento di indifferenza per tutta la sera e poi ti invita a salire da lei per bere una cosa.
Ci siamo innamorati di Recoba provando a immaginare come sarebbe stato bello mettere su famiglia con lui, cullandoci nell’utopia di una continuità dei sentimenti impossibile da riprodurre con sistematicità sul lungo periodo.
Per prima cosa, per favore, l’Inter
Quando ventunenne si è visto presentare due offerte provenienti dall’Italia, Álvaro non ha avuto il minimo dubbio sulla risposta da dare a Paco Casal: si trattava di scegliere tra la Juventus e la squadra che era stata del suo connazionale e idolo Ruben Sosa, un bivio dalla soluzione abbastanza obbligata.
«Mi ricordo il giorno della presentazione ufficiale, un’amichevole contro il Manchester United a San Siro. Sono entrato allo stadio, dove non ero mai stato, e c’erano tutte le luci spente. Durante la presentazione, i giocatori venivano chiamati uno a uno e illuminati da un fascio. Quando hanno acceso i riflettori c’erano novantamila persone. L’Inter aveva organizzato questa festa perché avevano comprato Ronaldo, e io mi sentivo un infiltrato».
Questo tema della sorpresa, dell’inatteso, dell’infiltrato ricorre spesso nei racconti degli esordi; ho notato che in molte interviste, pur mascherandolo dietro una coltre di umiltà, Recoba sembri compiacersi del ruolo di serendipità vivente che gli è stato cucito addosso. Nella prima giornata della Serie A 1997-98, nel giorno della prima ufficiale di Ronaldo con la maglia nerazzurra a San Siro, il protagonista finisce per essere lui. Subentra a venti minuti dalla fine, con i suoi sotto per 1-0; quando gli arriva tra i piedi il secondo pallone fa, con il destro, l’unica cosa che sapeva fare con il destro: si aggiusta il tiro mancino. Pochi minuti più tardi, su calcio di punizione, una punizione che in tanti si aspettavano calciasse Ronaldo, mette a segno la doppietta personale.
Francesco Moriero, probabilmente, non si aspettava di dover mettere in scena la pantomima dello sciuscià proprio sulla scarpa sinistra di quel ragazzino uruguaiano che aveva offuscato il Fenomeno.
Contro il Brescia, Recoba segna i due terzi delle reti complessive della sua prima stagione italiana, e a conti fatti due delle più memorabili di tutto il suo periodo interista: in quel giorno di agosto, però, si stava forgiando una leggenda che non gli sarebbe mai appartenuta del tutto.
Juan Sebastián Verón, che è stato suo compagno in nerazzurro, ha dichiarato: «Il Chino non è stato il miglior giocatore al mondo solo perché non lo ha voluto». «Non è che non l’abbia voluto», ha risposto a distanza di anni Recoba: «Credo di aver fatto del mio meglio. Capace che tutto quel che sapessi fare fosse quello, certo non mi sono dato di più. Capace che non mi sia impegnato davvero, anche oggi continuo a chiedermi se realmente potessi fare di più o no. Chissà, magari tra qualche anno, a freddo, arriverò alla stessa conclusione di Sebastián».
Secondo il Toto Jorge de Silveira bisognerebbe che i club europei, nello scegliere i calciatori uruguaiani, adottassero due criteri: interesse tecnico e test psicologici. Semplicemente perché ci sono calciatori che hanno testa e calciatori che non ne hanno: per testa si intende la capacità di comprendere il loro posto nel mondo e dare tutto il possibile, da un punto di vista psicologico, atletico e tecnico, per raggiungere l’obiettivo massimo.
Recoba, testa, forse ne ha avuta poca. Ne è convinto anche il suocero. «Non si è mai posto come obiettivo di essere il migliore, perché i presupposti e le condizioni, in quel momento, quando era all’Inter, c’erano tutti. Se si fosse messo in testa di diventarlo avrebbe anche potuto. Ma lui è così, un tipo semplice. Non è ambizioso, gli piacciono le cose facili. Gli dico andiamocene su qualche isola a pescare, lui mi risponde ma stiamocene al Buceo».
La nostra storia è in parte la storia di chi ci circonda
È singolare che a parlare di mentalità in questi termini sia proprio Rafael Perrone, il suocero di Recoba. Giovane promessa del calcio uruguaiano, per ingaggiarlo all’Olympiakos Pireo gli diedero anche la cittadinanza greca. Firmò un contratto di sette anni, ma alla prima vacanza in Uruguay decise di non tornare mai più. «Avevo paura di volare. E poi c’è che sono uruguagio uruguagio. Mi ero sbagliato, pensavo sempre a mia madre, ai miei amici, ai fatti miei». «Mi denunciarono alla FIFA e dovetti smettere di giocare». Aveva ventisei anni. «Vennero anche dei tipi a cercarmi da Atene, gli dissi: Sì, sì, torno. Mi hanno mandato i biglietti aerei, ma non sono mai tornato».
Tagliato fuori dal calcio professionista e ancora così giovane, si è comprato due taxi per sopravvivere. Anche il papà di Recoba è un tassista. «Poi dal Danubio mi chiesero se mi andasse di allenare le giovanili, e dissi di sì».
Perrone è uno dei principali scopritori di talenti in Uruguay. Dalle sue squadre sono passati Fabián Carini, Marcelo Zalayeta, Ernesto Chevantón e Diego Polenta. Oltre ad Álvaro. «Era indeciso se andare al Defensor o al Danubio. Il padre di Álvaro mi chiese se in cambio del cartellino del figlio avessimo casomai potuto installare sul campo del Celiar, la sua squadra di quartiere, un impianto di illuminazione. E così è stato».
«C’è stato un periodo, però, in cui voleva smettere perché viveva lontano e venire ogni volta ai campi d’allenamento era faticoso oltre che costoso, e gli pesava. Allora chiesi al padre se gli fosse dispiaciuto lasciarlo vivere con me per un periodo, e lui lo lasciò andare. Ci è rimasto un anno e un po’».
La storia di Recoba, accolto in casa dei genitori di quella che sarebbe diventata sua moglie, e che in questo caso era anche la casa del suo allenatore, ricorda per certi versi quella di Luis Suárez. «Lui da noi e io a casa di mia nonna; mi è toccato pure cedergli il letto», così ricorda Lorena il loro primo incontro.
La lingua dei padri
In Yo vi jugar al Chino, biografia scritta a quattro mani da Alejandro Lozardo e Fermín Solana, c’è un lungo paragrafo in cui il padre racconta di avergli insegnato a tirar calci a una palla medica, per potenziare la forza delle conclusioni. «Considera che quando giocava sui campi ridotti per bambini era lui a calciare tutti i rinvii dal fondo, e il portiere si metteva in guardia perché tirava sempre dritto in porta, di punta e a effetto», ricorda Perrone dei primissimi periodi al Danubio.
Ovviamente, come sempre capita ai futuri campioni, intorno alla pubertà di Álvaro gravitano tutta una serie di leggende che lo vogliono autore di 2000 reti nelle giovanili, mitologie che parlano di 10 e più gol a partita, o di ragazzini portieri che fuggono dal campo quando lo vedono pronto a calciare una punizione. «L’obiettivo, Álvaro, ricorda, è prendere l’avversario e cappottarlo»: questo sembra esser stato l’insegnamento del padre riguardo ai calci di punizione.
Nei primi frame di questo video si può godere degli esordi del Chino al Danubio, nonché del suo taglio di capelli tropicano che non so perché mi ricorda quello di Carlos Bianchezi aka Careca III.
Poi, che c’entra, non è che gli andasse granché di allenarsi. Ma quella sarebbe rimasta una costante per tutto il corso della sua carriera. Con il Danubio Álvaro cresce fino a debuttare in prima squadra. Il talento non gli manca, e l’indolenza non è necessariamente una caratteristica interpretata negativamente in Uruguay. Ovviamente sulle sue tracce si muovono Peñarol e Nacional.
Il presidente degli aurinegros Damiani ha un rapporto privilegiato con Paco Casal, che è l’agente di Recoba. Casal propone al Peñarol Recoba inserito in un pacchetto di giocatori, insieme a Correa, Betancourt e Puglia. Ma Damiani vuole solo il Chino, Casal si fa girare il boccino e niente, i quattro giovani del Danubio finiscono nella Tricolor, affamata di vittorie dopo aver visto gli ultimi tre campionati finire al Centenario.
All’esordio, contro il Cerro, Recoba va subito in rete. I tifosi del Nacional impareranno a venerarlo, e quando nel ’97 deciderà di accasarsi all’Inter saranno i primi a essere toccati da quel sentimento di nostalgia e rimpianto, di ecumenica benevolenza che Recoba è sempre stato capace di sprigionare.
Il privilegiato
L’impatto di Álvaro con il calcio italiano è più quello di una meteora che di un meteorite: nonostante l’esordio fiammeggiante non scava solchi, non imprime crateri. Luigi Simoni non si affida a lui praticamente mai. Ovviamente è giovanissimo, occupa una casella da extracomunitario, è difficilmente inquadrabile da un punto di vista tattico e di fronte a sé ha una concorrenza spietata: è solo una promessa abbozzata, e in quel periodo dell’era Moratti scommettere nelle promesse significava perdere tempo nella rincorsa a una vittoria che mancava da troppo tempo. L’Inter non si distingueva propriamente per la pazienza. Sebbene per stessa ammissione del presidente Moratti, Recoba fosse un suo pupillo. In un certo modo, perciò, un privilegiato.
Nel gennaio del 1999, Álvaro decide di accettare il trasferimento in prestito al Venezia. I lagunari sono invischiati nella lotta per non retrocedere in B, li allena Novellino e non possono neppure immaginare quanto il talento uruguaiano possa finire per risultare decisivo nel prosieguo della stagione. «I sei mesi al Venezia me li sono goduti proprio», dice oggi Recoba. «Non avevo figli, ero solo con mia moglie. Sentivo meno pressione rispetto a quando ero all’Inter, questa è la realtà».
Libero dalle costrizioni imposte dalle aspettative, Recoba segnerà 11 gol in 19 partite con il Venezia. Il giorno dell’esordio aiuta i suoi a bloccare sull’1-1 al Penzo la Juventus. Tre giorni dopo dà vita a un refrain che nella sfortunata storia del calcio a Venezia, da quel giorno, continua a rifrangersi senza soluzione di continuità come le onde sulle coste della Serenissima.
«Perdevamo due a zero alla fine del primo tempo», racconta Filippo Maniero, uno dei toccati dalla grazia del Chino, «ed eravamo sotto di un uomo per l’espulsione di Bilica. Nella ripresa segnò Valtolina, e poi due mie reti, entrambe su pennellate del Chino».
Il secondo di tacco. «Mi arrivò il cross ed ero girato. Potevo colpirla solo in quella maniera e mi andò bene. Se ci riprovo 100 volte mica mi viene…».
Sulle ali dell’entusiasmo il Venezia batterà anche Fiorentina, Udinese e Roma. Riguardare oggi le reti del Chino ai tempi del Venezia è forse l’esercizio stilistico che più fa male, se il karma che ci domina è quello del rimpianto. Delle undici reti, molte arrivano su calcio di punizione, gesto atletico che con gli anni diventerà connotante per Recoba e che in nessun altro modo come nella sua variante spagnola, tiro libre, rende giustizia al fascino che sa imprimergli il Chino: tutta la sua libertà dalle pressioni e dagli incatenamenti tattici, la sua joie de vivre si sprigiona quando il piede sinistro impatta il pallone, e la magia di una traiettoria che punta esattamente dove immagini si diriga impietosamente prende forma.
Come Charlie Parker (o Thelonious Monk, o El Mágico González)
Ancora Maniero ricorda come durante il periodo al Venezia «lo prendevamo in giro perché agli allenamenti non era proprio puntualissimo, e gli regalammo per il suo compleanno un bell’orologio, grande due metri, da mettere alla parete». Mi ha ricordato l’episodio in cui i compagni del Cadice inviarono, nell’appartamento del Mágico González, la banda del paese per tirarlo giù dal letto e portarlo agli allenamenti.
La pigrizia di Recoba, mutuata in intermittenza durante le sue prestazioni in campo, è diventata leggendaria tanto quanto il suo sinistro. «Non è che non mi piaccia allenarmi», ha confessato una volta: «La realtà è che è come a scuola, al liceo: ci sono materie che ti piacciono di più e materie che ti piacciono di meno. Bene: a me del calcio non mi piace la parte dell’allenamento, però devo farlo e lo faccio».
«Non fa nulla, o comunque il meno possibile» raccontava ancora la moglie nell’intervista alla Gazzetta. «Si veste solo se gli preparo io quello che deve mettere, dalle scarpe al cappotto. È pigro: ci manca soltanto che debba anche alzarlo dal letto la mattina e poi vestirlo, e qualche volta mi è pure toccato farlo». «Esce solo quando necessario. E per il minor tempo possibile».
C’è un racconto di Julio Cortázar, Il Persecutore, in cui il jazzista Bird, che è poi Charlie Parker, riesce in parte a combattere la sua agorafobia, la sua paura di vivere, il suo non saper stare al mondo grazie all’apporto della moglie che lo accudisce, lo sfama, gli sta vicino durante le crisi più acute dovute all’astinenza. Da qualche parte ricordo di aver letto che c’erano giorni in cui Thelonious Monk si faceva imboccare, per indolenza, dalla moglie. Chiaro che la genialità di Recoba, così come quella dei jazzisti che sto usando come termini di paragone, vada circostanziata al contesto di un campo di calcio (o di una sala d’incisione). Quando Recoba giocava come sapeva, il pubblico doveva provare lo stesso godimento estetico provocato da un assolo di sassofono di Bird, o dalla danza leggiadra delle dita di Monk sulla tastiera.
Il genio è declinabile all’infinito: però nella storia di Recoba la sua applicazione pratica deflagra solo in pochi, ristretti momenti. Più del fungo atomico che si sollevava quando era in stato di grazia, a essere inquietante nella sua carriera sono stati i silenzi che riempivano i momenti lasciati vuoti dall’estro.
Prese di posizione
Tornato a Milano dopo il prestito al Venezia, due delle tre problematiche nelle quali il Chino si trovava impantanato, e che gli impedivano di esplodere definitivamente, erano ancora irrisolte. Fatte le ossa e acquisita esperienza in provincia bisognava risolvere la questione della comunitarietà. E poi quella della sua posizione in campo. Paradossalmente, all’Inter sembrò opportuno cominciare dalla prima.
L’ex calciatore, allenatore e ai tempi collaboratore dell’Inter Luisito Suárez viaggiò fino a Tenerife per trovare, come un personaggio di Raymond Chandler, un lontano parente di Recoba che potesse garantirgli la cittadinanza spagnola. Come racconterà Recoba alla Guardia di Finanza, fu il segretario generale del club, Oriali, a mettergli a disposizione tutta la documentazione per acquisire la cittadinanza comunitaria. Ma il trucco non funzionò granché bene, e l’esplosione di Passaportopoli finirà per travolgere Recoba con una squalifica di un anno, poi ridotta a quattro mesi.
Uno dei più grandi minus di Recoba è stata l’imperdonabile assenza di sangue freddo, forse un problema di personalità, che si traduceva in mancanza di consapevolezza del posto che avrebbe dovuto occupare in campo. Non si è mai capito a pieno se fosse una seconda punta, un estremo di centrocampo, un’ala o un trequartista. O almeno non l’hanno capito i suoi allenatori. Non era un 9, forse neppure un 11 e di certo non un 10 classico. Di certo, nel suo stare in campo, c’era soltanto un regolare, sistematico eclissarsi.
Cuper lo impiegava spesso sulla fascia sinistra di centrocampo, ma il suo impatto—affondare, dribblare, crossare con il sinistro—non era lo stesso di quando, con Novellino, partiva dalla fascia destra per accentrarsi e concludere di sinistro, un’anticamera del concetto di esterno invertito. Sembrerà un sollevare la bandiera bianca sul campo martoriato delle definizioni, ma Recoba—come un termine intraducibile in un’altra lingua senza che se ne perda almeno una sfumatura di significato—non sapeva essere altro che Recoba.
Quando dedicano un video ai tuoi scontri contro i titani della tua epoca, allora puoi dirti leggenda. In questa sequela di parricidi, notevolissime le sfide sulla fascia contro Cafu, la busta a Vieira al minuto 1:20, ma anche il tunnel di stinco a Sensini e il sombrero a Hierro.
Álvaro, con la pressione, non ha mai avuto un rapporto idilliaco. Ci sono alcuni calciatori che quando il barometro sale alle stelle riescono a dare il meglio di sé stessi: è così che nasce il mito della garra charrua. Recoba no: anche quando ci metteva impeto, era per farlo nella maniera scomposta degli artisti scapigliati.
Recoba era serendipico. Non a caso le sue prestazioni più eclatanti sono quelle in cui il protagonista annunciato non era lui. L’esordio contro il Brescia, con la maglia dell’Inter, quando ci si aspettava soprattutto Ronaldo. L’esordio con la Celeste, contro la Spagna a La Coruña, quando umiliò con un sombrero Hierro e tutti gli occhi erano puntati su Enzo Francescoli.
La sua cifra principale era seminare il panico con accelerazioni e cambi di direzione. Per quello non c’è bisogno di avere un ruolo preciso: basta che la palla ti capiti tra i piedi e—con un afflato molto orientato al destino, molto sudamericano—che dio ce la mandi buona.
La leggenda in Cinque comodi fascicoli
Mentre osservavo decine di filmati dei gol segnati da Recoba in Italia e in Uruguay, oltre a rendermi conto di quanto fossero poco attraenti le maglie della Serie A di inizio anni zero e di quanto sia assurdo il numero di grandi calciatori che hanno vestito contemporaneamente la maglia dell’Inter senza riuscire a lasciare il segno, ho notato che le reti del Chino possono essere classificate essenzialmente in due macrocategorie: fantasia e balistica.
Contando alcune sottocategorie sono arrivato a individuare cinque comodi fascicoli in cui collezionare le sue prodezze, come i carrarmati della Seconda Guerra Mondiale o le casette di Masha e Orso:
1. Fantasia: Maradon-esque
Il caso di studio di questa categoria è la fuga inarrestabile con la maglia del Nacional, nel 1997, contro i Wanderers.
«Mi scrive spesso bigliettini o lettere brevi, dove capita», raccontava la moglie; «Come quella che mi ha scritto dietro una delle foto a cui è più affezionato, l’esultanza dopo il gol più bello della sua carriera, da porta a porta scartando sei o sette avversari».
In realtà sono quattro saltati direttamente, più un nugolo di difensori che lo aspetta al limite dell’area e che forse per tacito rispetto non interviene. Perché arrivato a quel punto Álvaro—che ha ricevuto palla dal portiere in posizione di terzino sinistro—con un allungo diagonale con piglio quasi rugbistico, in dieci tocchi, tutti di sinistro, ha già tagliato tutto il campo del Gran Parque Central, come il barrilete cosmico, ma più rabbioso; ai difensori non resta che arrendersi.
In questa categoria mi sento di far rientrare anche un gran gol contro il Perugia, e uno contro l’Ancona, anche se la conclusione finale arriva da fuori area: la riconducibilità al maradonesco sfuma nell’ibridazione con le altre categorie. Che continuo a elencare:
2. Fantasia: El malabrista de la pelota
Malabrista, in spagnolo, significa giocoliere. Recoba non è mai stato tipo da finezze velleitarie, da trastulli l’art pour l’art, ma per esempio ha segnato un gol di tacco in volo contro l’Argentina:
E uno dopo essersi avvitato su sé stesso, contro l’Atalanta, con una veronica della quale sembra il primo a sorprendersi, dalla faccia che fa quando esulta.
Una delle sue reti italiane più belle però è quella che mette a segno in un roboante 6-0 casalingo contro il Lecce, questa:
Riceve un passaggio in profondità con lo sguardo al centrocampo, addomestica il pallone con il sinistro e poi, ancora con il suo piede preferito, mentre il pallone è ancora a mezz’altezza, lo accarezza facendoselo passare sopra la spalla destra: un gesto che compie con una tale naturalezza, così come la mezza piroetta per puntare verso Chimenti, che dev’essere stato emozionante essere uno dei raccattapalle dietro la porta, vedere il Chino sfiorare ancora la sfera per eludere l’uscita del portiere avversario, sentire il suono lieve che fa la palla quando accarezza la rete dopo un gol del genere. Deve somigliare molto da vicino al suono del primo strato di neve che calpesti dopo una tormenta durata tutta la notte.
3. Balistica: Le bombe terra-aria
«Che ricordo mi resta dopo 17 anni? Quando sono entrato ho visto Roccati un po’ fuori: volevo tirare da lontano, ma poi ho cambiato idea. Dopo qualche minuto ho visto che faceva due passi avanti, e che c’era vento a favore. Ho tirato».
Nel resoconto che fa il Chino del suo gol contro l’Empoli, quello famoso da centrocampo, c’è il riconoscimento di una percentuale di responsabilità del portiere avversario. Farsi beffare da un tiro che arriva da quaranta metri almeno, in effetti, implica l’aver sbagliato qualche movimento: in questo caso, aver fatto due malaugurati passi avanti.
In un’altra intervista, parlando della rete segnata dalla bandierina del corner sempre contro l’Empoli, l’ultima con la maglia dell’Inter, Recoba dice, più o meno, che aveva visto il portiere prendere sicurezza durante la partita, e ricorda di aver pensato che avrebbe dovuto provare a beffarlo, perché si sarebbe di sicuro avventato in uscita sul suo calcio d’angolo. Così è stato.
C’è una gioia quasi sadica, in Recoba, nello sfruttare l’occasione resa propizia da uno slancio di sicurezza, che spesso coincide con la ridicolizzazione dell’avversario. Un altro colpo di mortaio niente male è questo contro la Sampdoria, in un finale intriso di drama che vedrà l’Inter vincere 3-2 grazie a questa sassata arrivata nei minuti di recupero.
4. Balistica: I calci di punizione
«Prima di calciare», ha dichiarato una volta a Radio Radio «Chiedo all’arbitro se il punto di battuta è giusto. Poi, però, sposto il pallone un paio di metri più indietro. In questo modo c’è più spazio per superare la barriera, se avanza. E avanza sempre».
Sul finire degli anni ’90 la parola «bolide» non era ancora caduta in disuso: in buona sostanza, credo, perché meglio di qualunque altra sapeva descrivere un calcio di punizione di Recoba. La traiettoria che ne usciva non solo era tesa, ma anche precisa, di quella precisione che hanno gli arcobaleni disegnati con il compasso durante l’ora di educazione tecnica alle medie.
Personalmente non sono ancora riuscito a capire se la mia preferita sia questa contro la Fiorentina, segnata con la maglia del Venezia, o quest’altra contro il Bologna, già nerazzurro. Credo comunque di prediligere quelle sul palo del portiere, perché le trovo arroganti, piene di volontà di sfida, sfacciate e temibili come uno che t’invita a fare a cazzotti nel parcheggio fuori alla discoteca sapendo di avere il gancio migliore di tutto il quartiere.
5. Balistica: Gli Olímpici
Non mi stupirei se Recoba detenesse il primato del calciatore con più tentativi a rete da calcio d’angolo. Non ne sono sicuro, ma certo è che ne ha segnati sei in carriera, uno con l’Inter e gli altri cinque in Uruguay, dove un po’ anche per senso di rivalsa etimologico quello dell’Olímpico è un gesto tecnico al quale il pubblico tiene molto, e ogni tanto se lo aspetta pure. «È fondamentale che la palla giri, perciò va colpita con l’interno del piede. Bisogna darle potenza ed effetto».
In questo conciso tutorial Recoba ci dimostra come sia possibile tentare un Olímpico anche dal corner di sinistra, calciando con le tre dita esterne.
Vittima
L’immagine che mi sono fatto di Recoba durante la sua permanenza italiana, e in maniera più limpida dopo che ci ha abbandonati, è che sia stato, fondamentalmente, una vittima. L’anarchia congenita che lo ha sempre reso materia complicata da plasmare nelle mani degli allenatori che si sono avvicendati alla sua guida, però è forse soltanto la punta di un iceberg di incompatibilità assai più vasto.
Il peccato originale di Álvaro è stato quello di trovarsi troppe volte a essere un privilegiato. Più volte di quante avesse bisogno. E che questo abbia finito per attirargli antipatie trasversali, oltre che a donargli un soffice giaciglio d’alloro sul quale adagiarsi ogni volta che il mondo là fuori diventava troppo orrendo, o pericoloso, o difficile da affrontare.
Poco tempo dopo il suo arrivo in Italia, dall’Uruguay lo contattò un giornalista per intervistarlo. Álvaro si offrì di pagargli il viaggio, lo ospitò a casa sua, gli diede tutto ciò di cui aveva bisogno. Il giornalista, nel suo reportage, si soffermò a lungo sul tatuaggio che Álvaro ha sull’avambraccio destro, un tatuaggio del Che Guevara. Scrisse: «Chissà se lo sa chi era, il Che». E poi lo immortalò alla guida di una Ferrari. Ne uscì fuori il ritratto di un giovane privilegiato che ostentava la sua fortuna. «Mentre guarda che lui è uno che se deve fermarsi a dormire qua e gli tocca per terra», dice il suocero «Non si fa problemi».
Dopo lo spareggio per la qualificazione in Champions League contro il Parma, nel quale era stato relegato ai margini, come spesso succedeva, Álvaro disse che era «stufo di giocare a palla nel giardino del presidente Moratti». Non mi sembra per niente uno sfogo di irriconoscenza (una volta, dopo il rinnovo contrattuale che ne aveva fatto il più pagato della rosa, e un taglio di capelli estremo chissà quanto collegato, i tifosi lo contestarono giocando sul doppio senso del verbo pelare), ma più un proposito ragionevole. Recoba si era accorto prima di chiunque altro che lo status di privilegiato aveva finito per rovinarlo, più che nell’ambizione nella sua percezione dall’esterno.
Il momento di non ritorno di Recoba in nerazzurro: rigore sbagliato contro l’Helsingborg nei preliminari di Champions League 2000-2001, e Inter eliminata.
Meno scontati, conosciuti e forse comprensibili in Italia sono gli strali che Recoba si è attirato da parte di alcuni suoi compagni nella Celeste di inizio anni Zero, soprattutto quella della deludente spedizione al Mondiale nippocoreano del 2002.
Fabián O’Neill è quello che ci ha messo più veleno: «Il Chino è stato 5 anni all’Inter e per 5 anni l’Inter perdeva, se ne è andato e nei cinque anni successivi hanno vinto tutto… l’ha presa a male, sapete com’è», ha dichiarato ad agosto intervenendo in un programma radio, a quanto pare neppure troppo lucido—rendersi protagonista di uscite pubbliche da ubriaco pare che per O’Neill negli ultimi anni sia diventato una costante. «Quando eravamo ragazzini ci portavamo le femmine a casa sua (che poi era quella del futuro suocero, NdA), prima che diventasse geloso perché il 10 della Nazionale ero io…». «E se poi ha qualche problema ditegli al signor Recoba che sto a Paso de los Toros, per qualsiasi cosa che mi venga a trovare», ha chiuso.
Anche per el loco Abreu il problema era che Recoba fosse, molto semplicemente, incompatibile con il resto dei calciatori uruguaiani. «Eravamo un gruppo in cui tutti la pensavamo alla stessa maniera. C’erano Paolo Montero, il Chengue (Richard Morales), O’Neill, Lembo. Ascoltavamo cumbia, bevevamo mate, giocavamo al truco e alla conga». «E poi c’erano quelli che facevano un’altra vita, giocavano con la Play Station, mandavano mail dal computer, prendevano il mate dolce», un segno di mellifluità, di non appartenenza. «Avevamo una maniera molto diversa di essere».
Recoba non ha mai lottato fino in fondo per vedersi riconosciuto, da nessuna parte. La sua non è una storia di affermazione perseguita. E se all’Inter ha subito silente per anni la ghettizzazione coatta della quale spesso è stato vittima, dalla Celeste nel 2004 ha pensato fosse saggio andarsene. «Le cose non mi riescono, perciò credo sia meglio fare un passo indietro. E siccome non sono imprescindibile, lo faccio. Ho già deciso», disse in conferenza stampa.
Sarebbe tornato, a sprazzi, per giocarsi la chance di qualificazione al Mondiale del 2006 nello spareggio contro l’Australia, e poi per la Copa América del 2007, quando la Celeste cadrà in semifinale contro il Messico.
La Celeste fallirà la qualificazione perdendo ai rigori. Prima della gara di ritorno Recoba aveva dichiarato che l’Uruguay sarebbe dovuto andare in Germania «per diritto divino».
La sua più grande fortuna, o più piccola sfortuna, è stata che in un modo o nell’altro, a legittimarne la presenza al mondo, ci sarebbero sempre e comunque stati i tifosi. Quelli che si riconoscevano nella sua indolenza. Quelli per i quali genio e disciplina non solo non potrebbero, ma neppure dovrebbero convivere in un calciatore.
Il problema è che il motivo per cui veniva reclamato andava sempre più somigliando a un sentimento di solidarietà che a una vera e propria venerazione incondizionata. È esattamente nel momento in cui ne ha preso coscienza che l’umiltà di Recoba, miscelata letalmente con l’autocommiserazione, hanno finito per mandare il motore in gripe.
Il Chino è uscito dal gruppo
Quando ha deciso di chiudere la sua carriera in Uruguay, prima tra le file del Danubio e poi con la camiseta del Nacional, il Chino non era già più un calciatore, ma un uomo che cercava di chiudere il cerchio, come se stesse percorrendo a ritroso la parabola di una sua punizione, o forse solo di sdebitarsi con il passato. Per quanto poco ambizioso, alla fine l’ambiente ristretto, fin troppo familiare del Danubio ha cominciato ad andargli stretto: il Nacional, la squadra che l’ha lanciato definitivamente quand’era poco più di un ventenne, sembrava il posto giusto per scrivere le proprie memorie calcistiche. Per svernare. Eppure, per dire ancora un po’ la sua.
Quando il presidente della Tricolor gli ha comunicato l’ingaggio che sarebbero stati disposti a pagargli, con ingenuità e umiltà ha chiesto se la cifra indicata sul contratto, «5000», fosse da intendersi in dollari o in pesos (che sono circa 150 euro).
Oggi sono passati solo pochi mesi dal suo ritiro, e in una vallata al centro del nulla, poco distante da casa sua, ha attrezzato un campo di calcio rudimentale, per non staccare la spina del tutto, per continuare a trastullarsi con quella che è sempre stata una passione, prima che una professione. Ogni settimana lui e i suoi amici sfidano Diego Perrone, il cognato, e i suoi amici. «Partite terribili, però con l’arbitro e tutto quanto». Alla fine, chi perde paga l’asado per tutti.
Se ne stanno lì tutta la sera, fin quando la luna non è alta, vestiti da calciatori, seduti al centro di un potrero, con la felicità dei ragazzini negli occhi. «Ogni tanto», racconta Álvaro, «Poi, sai cosa facciamo? I fuochi d’artificio».